Nota a ACF, 2 luglio 2021, n. 3936.
di Antonio Zurlo
Con la recentissima decisione in oggetto, l’Arbitro per le Controversie Finanziarie (ACF) evidenzia come la mancata produzione di copia cartacea degli ordini di investimento non possa considerarsi circostanza idonea a determinare la nullità dell’operazione d’investimento, specie laddove parte ricorrente ne abbia accettato gli effetti, contestandone la validità solo dopo un significativo lasso temporale. Invero, sul punto, il Collegio, senza soluzione di continuità con la prevalente giurisprudenza, ha già avuto occasione di sottolineare come il requisito della forma scritta, richiesto a pena di nullità dall’art. 23 TUF, vada riferito al contratto per la prestazione dei servizi di investimento (c.d. contratto – quadro) e non anche alle singole operazioni di investimento, per le quali la legge non contempla un’analoga, espressa, previsione. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità[1] ha statuito che, «allorché le parti […] abbiano convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma scritta sia stata voluta per la validità di questo»; consequenzialmente, è stata ritenuta accertata la nullità di operazioni d’investimento per le quali l’intermediario non avesse provato l’esistenza dei relativi ordini sottoscritti dal cliente, pur avendo le parti previsto convenzionalmente un tale requisito attraverso espressa previsione contrattuale[2]. Coerentemente con tale indirizzo, l’Arbitro ha rilevato che non è ravvisabile, per contro, alcuna nullità, per violazione della forma convenzionale stabilita dalle parti, ex art. 1352 c.c., laddove il regolamento contrattuale preveda la possibilità di conferire ordini di investimento anche in forme diverse da quella scritta[3].
Con riferimento all’esito della profilatura di parte ricorrente, oltre alla circostanza per cui la dichiarata conoscenza di strumenti finanziari complessi (quali obbligazioni convertibili, strutturate e subordinate) non sia suffragata da alcun elemento attestativo di una concreta operatività su tali strumenti finanziari, l’ACF rileva la compilazione congiunta dei questionari, conseguendone l’inidoneità degli stessi a restituire il profilo di rischio di un singolo investitore. Tale modus operandi è stato, invero, censurato a più riprese dalla giurisprudenza arbitrale, che ha già avuto modo di rilevare, in presenza di fattispecie analoghe, come l’attività di somministrazione del questionario debba svolgersi nel rispetto delle “Guidelines on certain aspects of the MiFID suitability requirements”, pubblicate dall’ESMA, il 6 luglio 2012, secondo cui viene consentito agli «intermediari di concordare con le persone interessate chi dovrebbe essere oggetto di profilatura», nel senso che un tale accordo non possa che essere il risultato di una specifica negoziazione condotta tra le parti, non essendo bastevole la sottoscrizione di un modulo contenente le condizioni generali di contratto. Pertanto, in mancanza di un accordo e di procedure che presentino i suindicati connotati, l’intermediario non può che essere chiamato a profilare tutti i cointestatari e a svolgere la relativa valutazione di adeguatezza/appropriatezza, tenendo conto comunque del profilo “più conservativo”[4].
Sulla profilatura oggettiva delle azioni della Banca, «non può che suscitare quantomeno forti perplessità in termini di ragionevolezza, non solo in considerazione del fatto che trattavasi, comunque, di capitale di rischio ma, e soprattutto, per la loro natura di strumenti illiquidi»[5]. Tali perplessità a fortiori insorgono in considerazione della successiva riprofilatura, con cui l’Intermediario ha successivamente riconosciuto ai propri titoli azionari un profilo di “rischio medio”. Anche in questo caso, il Collegio ha già rilevato che una tale valutazione «non può che suscitare quantomeno forti perplessità in termini di ragionevolezza, non solo in considerazione del fatto che trattavasi, comunque, di capitale di rischio ma, e soprattutto, per la loro natura di strumenti illiquidi, che in quanto tali espongono il risparmiatore non solo al rischio di possibile perdita prospettica dell’intero capitale investito ma anche a quello ben più concreto di trovarsi nella condizione di non poter liquidare l’investimento in tempi ragionevoli. Il che, a ben vedere, è ciò che è accaduto nel caso di specie»[6].
Le operazioni di investimento attenzionate debbono considerarsi complessivamente inadeguate anche in ragione dell’eccesso di concentrazione di strumenti finanziari emessi dalla Banca nel dossier titoli del ricorrente. In fattispecie non dissimili, l’ACF si è espresso nel senso di ritenere come sia «di chiara evidenza che un dossier titoli composto per la sua interezza di titoli illiquidi è – potrebbe dirsi – di per sé strutturalmente inadeguato»[7].
Con riguardo alla Comunicazione Consob n. 9019104/2009, deve preliminarmente rilevarsi come la Banca, non considerando illiquidi i propri titoli, abbia implicitamente riconosciuto di non aver rispettato i più stringenti obblighi ivi presenti. In tal senso, con argomentazione non nuova, se è vero che la liquidità, sì come, per converso, l’illiquidità, di uno strumento finanziario sia una situazione di fatto e che, dunque, sia ben possibile, con riferimento a un medesimo strumento finanziario, che quella situazione si modifichi nel corso del tempo (sicché uno strumento prima liquido diventi illiquido, o viceversa), è del pari circostanza veritiera quella per cui, in presenza di una situazione di fatto in cui il titolo sia da tempo pacificamente illiquido, debba essere preciso onere dell’intermediario fornire una prova adeguata del fatto contrario, ovverosia della circostanza per cui alla data dell’operazione di investimento esistesse l’asserita condizione di liquidità. Poiché, nella specie, l’intermediario si è limitato ad allegare genericamente che al momento degli investimenti le azioni fossero classificabili come liquide, senza, pur tuttavia, addurre alcuna prova dell’effettivo grado di liquidità a quella data, deve ritenersi accertato anche l’ulteriore inadempimento del resistente ai propri specifici obblighi di informazione[8].
Da ultimo, l’intermediario non ha fornito elementi atti a dimostrare di aver assolto i propri obblighi informativi, se non in modo meramente formalistico. A tal riguardo, la formale sottoscrizione di dichiarazioni attestanti la presa visione di documentazione informativa predisposta dall’emittente è insufficiente a far ritenere adeguatamente assolti gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario collocatore.
Qui la decisione.
[1] Cfr. Cass. 30 novembre 2017, n. 28816.
[2] Cfr. ACF, 7 agosto 2019, n. 1803.
[3] Cfr. ACF, 3 ottobre 2019, n. 1900.
[4] Cfr. ex multis ACF, 27 febbraio 2020, n. 2285.
[5] Cfr. ex multis ACF, 10 aprile 2020, n. 2458.
[6] Cfr. ex multis ACF, 20 marzo 2020, n. 2342.
[7] Cfr. ACF, 6 novembre 2020, n. 3079.
[8] Cfr. ACF, 10 aprile 2020, n. 2454.
Nota a ACF, 2 luglio 2021, n. 3936.
di Antonio Zurlo
Con la recentissima decisione in oggetto, l’Arbitro per le Controversie Finanziarie (ACF) evidenzia come la mancata produzione di copia cartacea degli ordini di investimento non possa considerarsi circostanza idonea a determinare la nullità dell’operazione d’investimento, specie laddove parte ricorrente ne abbia accettato gli effetti, contestandone la validità solo dopo un significativo lasso temporale. Invero, sul punto, il Collegio, senza soluzione di continuità con la prevalente giurisprudenza, ha già avuto occasione di sottolineare come il requisito della forma scritta, richiesto a pena di nullità dall’art. 23 TUF, vada riferito al contratto per la prestazione dei servizi di investimento (c.d. contratto – quadro) e non anche alle singole operazioni di investimento, per le quali la legge non contempla un’analoga, espressa, previsione. Peraltro, la giurisprudenza di legittimità[1] ha statuito che, «allorché le parti […] abbiano convenuto per iscritto di adottare una determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma scritta sia stata voluta per la validità di questo»; consequenzialmente, è stata ritenuta accertata la nullità di operazioni d’investimento per le quali l’intermediario non avesse provato l’esistenza dei relativi ordini sottoscritti dal cliente, pur avendo le parti previsto convenzionalmente un tale requisito attraverso espressa previsione contrattuale[2]. Coerentemente con tale indirizzo, l’Arbitro ha rilevato che non è ravvisabile, per contro, alcuna nullità, per violazione della forma convenzionale stabilita dalle parti, ex art. 1352 c.c., laddove il regolamento contrattuale preveda la possibilità di conferire ordini di investimento anche in forme diverse da quella scritta[3].
Con riferimento all’esito della profilatura di parte ricorrente, oltre alla circostanza per cui la dichiarata conoscenza di strumenti finanziari complessi (quali obbligazioni convertibili, strutturate e subordinate) non sia suffragata da alcun elemento attestativo di una concreta operatività su tali strumenti finanziari, l’ACF rileva la compilazione congiunta dei questionari, conseguendone l’inidoneità degli stessi a restituire il profilo di rischio di un singolo investitore. Tale modus operandi è stato, invero, censurato a più riprese dalla giurisprudenza arbitrale, che ha già avuto modo di rilevare, in presenza di fattispecie analoghe, come l’attività di somministrazione del questionario debba svolgersi nel rispetto delle “Guidelines on certain aspects of the MiFID suitability requirements”, pubblicate dall’ESMA, il 6 luglio 2012, secondo cui viene consentito agli «intermediari di concordare con le persone interessate chi dovrebbe essere oggetto di profilatura», nel senso che un tale accordo non possa che essere il risultato di una specifica negoziazione condotta tra le parti, non essendo bastevole la sottoscrizione di un modulo contenente le condizioni generali di contratto. Pertanto, in mancanza di un accordo e di procedure che presentino i suindicati connotati, l’intermediario non può che essere chiamato a profilare tutti i cointestatari e a svolgere la relativa valutazione di adeguatezza/appropriatezza, tenendo conto comunque del profilo “più conservativo”[4].
Sulla profilatura oggettiva delle azioni della Banca, «non può che suscitare quantomeno forti perplessità in termini di ragionevolezza, non solo in considerazione del fatto che trattavasi, comunque, di capitale di rischio ma, e soprattutto, per la loro natura di strumenti illiquidi»[5]. Tali perplessità a fortiori insorgono in considerazione della successiva riprofilatura, con cui l’Intermediario ha successivamente riconosciuto ai propri titoli azionari un profilo di “rischio medio”. Anche in questo caso, il Collegio ha già rilevato che una tale valutazione «non può che suscitare quantomeno forti perplessità in termini di ragionevolezza, non solo in considerazione del fatto che trattavasi, comunque, di capitale di rischio ma, e soprattutto, per la loro natura di strumenti illiquidi, che in quanto tali espongono il risparmiatore non solo al rischio di possibile perdita prospettica dell’intero capitale investito ma anche a quello ben più concreto di trovarsi nella condizione di non poter liquidare l’investimento in tempi ragionevoli. Il che, a ben vedere, è ciò che è accaduto nel caso di specie»[6].
Le operazioni di investimento attenzionate debbono considerarsi complessivamente inadeguate anche in ragione dell’eccesso di concentrazione di strumenti finanziari emessi dalla Banca nel dossier titoli del ricorrente. In fattispecie non dissimili, l’ACF si è espresso nel senso di ritenere come sia «di chiara evidenza che un dossier titoli composto per la sua interezza di titoli illiquidi è – potrebbe dirsi – di per sé strutturalmente inadeguato»[7].
Con riguardo alla Comunicazione Consob n. 9019104/2009, deve preliminarmente rilevarsi come la Banca, non considerando illiquidi i propri titoli, abbia implicitamente riconosciuto di non aver rispettato i più stringenti obblighi ivi presenti. In tal senso, con argomentazione non nuova, se è vero che la liquidità, sì come, per converso, l’illiquidità, di uno strumento finanziario sia una situazione di fatto e che, dunque, sia ben possibile, con riferimento a un medesimo strumento finanziario, che quella situazione si modifichi nel corso del tempo (sicché uno strumento prima liquido diventi illiquido, o viceversa), è del pari circostanza veritiera quella per cui, in presenza di una situazione di fatto in cui il titolo sia da tempo pacificamente illiquido, debba essere preciso onere dell’intermediario fornire una prova adeguata del fatto contrario, ovverosia della circostanza per cui alla data dell’operazione di investimento esistesse l’asserita condizione di liquidità. Poiché, nella specie, l’intermediario si è limitato ad allegare genericamente che al momento degli investimenti le azioni fossero classificabili come liquide, senza, pur tuttavia, addurre alcuna prova dell’effettivo grado di liquidità a quella data, deve ritenersi accertato anche l’ulteriore inadempimento del resistente ai propri specifici obblighi di informazione[8].
Da ultimo, l’intermediario non ha fornito elementi atti a dimostrare di aver assolto i propri obblighi informativi, se non in modo meramente formalistico. A tal riguardo, la formale sottoscrizione di dichiarazioni attestanti la presa visione di documentazione informativa predisposta dall’emittente è insufficiente a far ritenere adeguatamente assolti gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario collocatore.
Qui la decisione.
[1] Cfr. Cass. 30 novembre 2017, n. 28816.
[2] Cfr. ACF, 7 agosto 2019, n. 1803.
[3] Cfr. ACF, 3 ottobre 2019, n. 1900.
[4] Cfr. ex multis ACF, 27 febbraio 2020, n. 2285.
[5] Cfr. ex multis ACF, 10 aprile 2020, n. 2458.
[6] Cfr. ex multis ACF, 20 marzo 2020, n. 2342.
[7] Cfr. ACF, 6 novembre 2020, n. 3079.
[8] Cfr. ACF, 10 aprile 2020, n. 2454.
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