Nota a Trib. Bari, Sez. IV, 30 ottobre 2024, n. 4440.
Massima redazionale
Nella controversia in esame, trova applicazione il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c., vertendosi in tema di responsabilità contrattuale dell’intermediario, per la violazione di norme di condotta afferenti al momento di conferimento degli ordini di borsa[1]. Ciò posto, il dies a quo, posto che l’art. 2935 c.c. dispone che “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere“, si sostanzia, nello specifico, nel momento in cui è stato conferito l’ordine.
Nel merito, la domanda di risoluzione dei singoli ordini di acquisto e di risarcimento danni è fondata.
Il TUF e il successivo regolamento Consob n. 11522/1998 (in seguito abrogato e sostituito dal Reg. n. 16190/2007, pone a carico dell’intermediario finanziario l’obbligo di tutelare l’interesse del cliente, che si concretizza anche nel dovere di segnalare la natura del rischio dell’investimento. In altri termini, la banca intermediaria, prima di effettuare operazioni, ha l’obbligo di fornire all’investitore un’informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali e alla situazione finanziaria del cliente, con la precisazione che, in caso di prodotti finanziari illiquidi, la CONSOB, con Comunicazione n. 9019104 del 2/03/2009, ha posto obblighi di trasparenza rafforzati, attesa la tipologia di titolo ad alto rischio. All’operatività di detta regola non è di ostacolo il fatto che il cliente abbia in precedenza acquistato un altro titolo a rischio, perché ciò non basta a renderlo operatore qualificato.
Accanto agli obblighi di informazione c.d. attiva, gravano sull’intermediario obblighi di informazione c.d. passiva, finalizzati all’acquisizione di notizie sulle possibilità finanziarie del cliente, sulla sua propensione al rischio finanziario, sugli obiettivi di guadagno e rendimento che vorrebbe raggiungere a medio e lungo termine, sulle sue conoscenze in ambito finanziario, in modo da poter delineare il suo profilo di rischio. All’acquisizione di dette notizie, deve seguire, da parte dell’intermediario, la valutazione di adeguatezza/appropriatezza della singola operazione rispetto al profilo di rischio dell’investitore. Le procedure di valutazione di adeguatezza e di appropriatezza hanno diverse funzioni, caratteristiche e un ambito di applicazione differente.
Quando l’intermediario effettua servizi ad alto valore aggiunto come la consulenza in materia di investimenti o la gestione di portafoglio, il livello di approfondimento di conoscenza del cliente deve essere superiore rispetto agli altri servizi. Infatti, l’intermediario deve disporre e ottenere delle informazioni necessarie in merito alle conoscenze ed esperienze del cliente o potenziale cliente in materia di investimenti riguardo al tipo specifico di prodotto o servizio, alla situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento, per essere in grado di raccomandare i servizi di investimento e gli strumenti finanziari adatti. Per tali servizi è previsto il massimo di tutela dell’investitore, ovverosia il questionario MIFID di adeguatezza. In questo caso, laddove l’intermediario non ottenga dal cliente le informazioni richieste, non può effettuare il servizio. Parimenti, l’intermediario non può dar seguito all’operazione, ove la valutazione dia un esito negativo.
L’obbligo per l’intermediario di effettuare la “valutazione di appropriatezza” è relativo ai servizi di investimento diversi dalla consulenza in materia di investimenti o gestione del portafoglio. In questo caso, si ritiene che il contenuto del servizio sia di carattere “secondario”, in quanto non è l’intermediario a proporre uno strumento finanziario ma è lo stesso cliente ad indicare le operazioni da svolgere. Qualora il cliente scelga di non fornire le informazioni richieste dalla impresa di investimento, ovvero, qualora tali informazioni siano insufficienti, l’impresa di investimento, dopo aver avvertito il cliente del fatto che la sua decisione impedirà di determinare se il servizio o prodotto sia “appropriato”, potrà fornire la prestazione, ove richiesta.
Quanto al riparto dell’onere probatorio, l’art. 23, comma 6, TUF stabilisce che “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.
Ebbene, alla luce della riportata normativa, nel caso di specie, la contestazione, sollevata nei confronti della banca, afferente diversi inadempimenti contrattuali, richiede una valutazione complessiva della natura dell’investimento. Le azioni acquistate rientrano, come correttamente evidenziato dal CTU, nella fattispecie delle azioni non quotate e costituiscono, pertanto, titoli ad alto rischio o, quanto meno, medio – alto, assimilabili a titoli illiquidi, ovvero a titoli per i quali vi sono potenziali ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole a condizioni di prezzo significative, tali da garantire buona pluralità di interessi in acquisto e vendita. Le azioni de quibus, in quanto scambiabili, non già in un mercato regolamentato, bensì in un mercato interno, incontrano una ben maggiore difficoltà di trasferimento e di recupero delle somme impiegate nell’acquisto. Tale valutazione di illiquidità prescinde dal rischio in concreto verificatosi ex post o dalla maggiore solidità dell’istituto all’atto dell’acquisto, dovendo ricondursi all’astratto rischio di criticità del trasferimento, elemento informativo imprescindibile per la ponderata valutazione dell’investitore.
Nello specifico, trattandosi di cliente retail, in rapporto al quale la banca operava solitamente in regime di consulenza, sarebbe stato onere di quest’ultima provare che, nella specifica circostanza, avesse svolto servizio diverso dalla consulenza. Di conseguenza, la banca era tenuta a effettuare la valutazione di adeguatezza. D’altra parte, anche ove effettuata, la valutazione di adeguatezza si è sostanziata in report formalistici (“l’operazione risulta adeguata”) senza alcuna comparazione del profilo di rischio del cliente, peraltro nel questionario di profilatura mai indicato in maniera complessiva, e la natura dei prodotti.
Per giunta, dall’esame dei report consulenziali, non risulta alcun avviso circa la natura illiquida dei titoli. Nei detti report, inoltre, è stata data scarsa rilevanza al fatto che i titoli proposti non erano negoziati in mercati regolamentati. L’informativa consulenziale relativa al rischio emittente della società è stata fornita, in linea generale, negli accordi quadro sottoscritti, mancando viceversa nei report consulenziali qualsiasi informazione chiara, sintetica e ben comprensibile al cliente sullo stato di salute della capogruppo.
Quanto all’obbligo informativo passivo, la profilatura del cliente non è stata effettuata correttamente, dato che non sono state acquisite informazioni chiare sul livello di conoscenza in ambito finanziario dell’investitore. Infatti, nella sezione del questionario relativo alla conoscenza, risulta un’unica domanda con un’elencazione di strumenti finanziari, per ciascuno dei quali viene chiesto se il “cliente ha/non ha dimestichezza” con la possibilità di rispondere semplicemente con un SI’ o con un NO. Posto che non è chiaro cosa si intenda con “avere dimestichezza”, va rilevato che le risposte con un sì o un no mal si prestano a cogliere l’effettiva conoscenza degli strumenti finanziari elencati, che potrebbe ricavarsi, ad esempio, con una risposta multipla sul significato stesso degli strumenti o sul loro grado di rischiosità. Una domanda posta in tale maniera rende formale e non sostanziale la verifica delle conoscenze in campo finanziario dell’investitore. Dai questionari in atti, seppure lacunosi, il CTU ha correttamente dedotto che il profilo è quello di un investitore facoltoso, privo di conoscenze ed esperienze in prodotti finanziari, e senza apparenti inclinazioni per attività speculative e/o rischiosi investimenti finanziari, che desidera allocare le proprie risorse finanziarie onde addivenire ad un incremento delle stesse con limite di smobilizzo di massimo 10 anni, inquadrabile in un profilo di rischio medio-basso. Da tutto ciò si evince che le operazioni, considerate singolarmente, di acquisto di azioni ed obbligazioni convertibili non negoziate in un mercato regolamentato, e quindi con una congenita caratteristica di scarsa liquidità, allocabili in un profilo di rischio alto (le azioni) e medio-alto (le obbligazioni convertibili) non sono adeguate ad un profilo medio-basso, quale è quello dell’investitore.
È, altresì, necessario evidenziare che il dossier titoli del è caratterizzato da una progressiva e notevole concentrazione in titoli illiquidi emessi dallo stesso emittente. L’intermediario, nella valutazione di adeguatezza, deve tener conto, non solo delle singole operazioni, ma anche dell’investimento complessivamente effettuato dall’investitore, tenendo in debita considerazione il fatto che un dossier, composto interamente da titoli illiquidi, possa di per sé essere qualificato come strutturalmente inadeguato. Infatti, l’art. 40 Regolamento Consob n. 16190/2007 stabilisce, a proposito della valutazione di adeguatezza, che “una serie di operazioni, ciascuna delle quali è adeguata se considerata isolatamente, può non essere adeguata se avvenga con una frequenza che non è nel miglior interesse del cliente”. Nel caso di specie, sarebbe stata doverosa, da parte dell’intermediario, a fronte di una concentrazione in azioni la valutazione di adeguatezza delle operazioni effettuate dall’investitore, nel loro complesso, tenendo conto del ripetersi di acquisti del medesimo titolo ad alto rischio. Tale valutazione, certamente, avrebbe dato un esito negativo.
L’omissione di informazioni sufficienti è da considerare inadempimento grave, in considerazione dell’asimmetria informativa in cui agiscono le parti contrattuali nei contratti di intermediazione finanziaria e in ragione dell’affidamento che l’investitore non professionale (trattasi di un cliente retail) ripone nell’intermediario e nell’affidabilità delle informazioni da esso fornite.
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[1] Cfr. ex multis Cass. n. 5837/2018.
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