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Nota a App. Milano, 5 gennaio 2023, n. 15.

Massima redazionale.

Nel caso di specie, il conto corrente era stato acceso nel 1983, prima dell’entrata in vigore del TUB; pertanto, all’epoca dell’apertura, il contratto di affidamento non doveva avere necessariamente forma scritta, come invece prescritto dall’art. 117 TUB (entrato in vigore nel 1992). Nel giudizio l’esistenza di un affidamento, sin dall’apertura del conto corrente, risulta dimostrata, in primo luogo, dalla documentazione prodotta dalla società ricorrente in primo grado. Invero, negli estratti conto è indicato il tasso per apertura di credito puntualmente applicato dalla Banca in sede di liquidazione degli interessi. La natura affidata del conto è stata, altresì, accertata in concreto dal consulente tecnico d’ufficio, che ha ritenuto la sussistenza di una “serie di plurimi inequivoci elementi” comprovanti “in modo chiaro, preciso e concordante” l’esistenza di affidamenti. In particolare, il CTU ha correttamente desunto la natura affidata del conto dai seguenti elementi fattuali:

  • l’addebito di commissione di massimo scoperto calcolato sul picco dell’utilizzato;
  • il perdurante saldo negativo del conto per decenni senza che vi sia mai stata richiesta di rientro da parte dalla Banca;
  • il sistematico pagamento di assegni con saldo conto in passivo;
  • l’indicazione, nel riepilogo competenze trimestrali, di voci di spesa quali, letteralmente, “Liquidazione trimestrale conti affidati”.

Peraltro, le conclusioni del CTU non sono state oggetto di contestazione da parte del consulente della Banca che, al contrario, nell’ambito della corrispondenza intrattenuta con il CTU, ha riconosciuto l’esistenza di un fido di fatto.

La circostanza che il c/c fosse affidato deve ritenersi, peraltro, pacifica in quanto mai contestata dalla Banca nel corso del giudizio di primo grado. Ne deriva che, anche a prescindere dalle risultanze della CTU, il dato fattuale della concessione di un affidamento deve ritenersi provato ai sensi dell’art. 115 c.p.c.; tale norma impone, infatti, di prescindere da eventuali indagini sulla forma richiesta dal contratto di affidamento bancario, atteso che il giudice “deve astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale, ritenendolo sussistente, in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti”[1].

Si rileva altresì, a ulteriore conferma dell’esistenza di un affidamento, che la stessa difesa della Banca in primo grado allegava la legittimità dell’applicazione delle CMS, affermando che la finalità della medesima fosse da individuarsi nella “remunerazione della prestazione della banca consistente nell’integrale ed immediata messa a disposizione dei fondi di cui ALL’APERTURA DI CREDITO a semplice richiesta del cliente”. È stata quindi lo stesso Istituto a riconoscere l’esistenza di un’apertura di credito, giustificando, proprio in ragione di tali affidamenti, la legittimità degli addebiti di commissioni di massimo scoperto. Appare, dunque, del tutto incoerente e contraddittorio l’impianto difensivo della Banca che, dopo essersi difesa in primo grado affermando la legittimità della CMS, in quanto avente funzione remuneratoria dello sforzo organizzativo della concessione di un’apertura di credito, deduce poi, in sede di appello, l’assenza di aperture di credito.

Del pari incoerente si rivela la difesa della Banca, laddove, nell’ambito del primo motivo di appello, dapprima sostiene la mancanza di prova in ordine alla natura affidata del conto per poi affermare, al fine di contestare l’affermazione del Tribunale secondo cui i limiti del fido dovevano individuarsi nella massima esposizione rinveniente tempo per tempo, che i limiti degli affidamenti concessi erano espressamente indicati nella voce “limiti” della liquidazione trimestrale degli interessi debitori, così confermando implicitamente la sussistenza di un fido.

L’accertata natura affidata del conto corrente per le ragioni di cui sopra non è, tuttavia, di per sé idonea ad escludere l’esistenza di rimesse di natura solutoria, ben potendo, in concreto, essere intervenuti versamenti oltre il limite del fido accordato, qualificabili, dunque, come “solutori”.

Come chiarito dalla nota sentenza della Sezioni Unite[2], si considerano pagamenti solutori non solo i versamenti eseguiti su un conto in passivo cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, ma anche quelli destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’affidamento. Una siffatta evenienza non è, tuttavia, riscontrabile nel caso di specie. Il CTU, sulla base della documentazione versata in atti, ha, infatti, constatato l’assenza di pagamenti di interessi o di competenze di altra natura per sconfini (o extrafido), così escludendo in concreto l’esistenza di rimesse di natura solutoria. Tale conclusione risulta ulteriormente avvalorata dalla circostanza per cui la Banca ha solo sporadicamente applicato doppi tassi debitori nelle liquidazioni degli interessi e, in occasioni di tali sporadiche applicazioni, non ha comunque mai addebitato la “penale conti non affidati”, sebbene contrattualmente prevista, a riprova che non si trattasse di sconfino, bensì di una doppia linea di credito.

Il CTU ha avuto modo di chiarire che l’applicazione, nel caso di specie, di tassi differenti è da ricondurre non già alla presenza di sconfini, quanto piuttosto alla circostanza che sul medesimo conto fossero attive due linee di credito o, comunque, un diverso utilizzo della stessa linea di credito. A ciò si aggiunga che, “non vi è ragionevole certezza che il tasso più elevato si riferisca a saldi di conto corrente fuori fido, in quanto l’apertura di credito potrebbe prevedere tassi differenti a seconda dei livelli di utilizzo del fido e non necessariamente implicare il superamento dello stesso.”[3].

In ogni caso, a prescindere da siffatta questione, le rimesse oggetto di contestazione sarebbero comunque da considerarsi ripristinatorie. Ciò in quanto, come argomentato dal consulente in modo esauriente e condivisibile, al momento in cui si verificarono le presunte rimesse solutorie, l’esposizione netta della correntista, epurata delle poste nulle, rientrava nei limiti del fido concesso, con la conseguenza “quelle che vengono descritte dalla banca come rimesse extrafido (e quindi solutorie) sono in realtà rimesse intrafido (e pertanto ripristinatorie). Né vale sostenere che le rimesse solutorie dovrebbero essere individuate sulla base del saldo risultante dagli estratti conto e non sulla base del saldo rettificato. Come questa stessa Corte ha già avuto modo di chiarire, infatti, per l’individuazione delle rimesse aventi una funzione di pagamento “non ci si può affidare alla contabilità della Banca e alle sue periodiche risultanze finali, in quanto queste sono spesso soltanto apparenti e virtuali […] Occorre prima effettuare una ricostruzione contabile del conto corrente bancario, depurandolo dalle conseguenze contabili di clausole e prassi nulle e inefficaci, con le quali la Banca ha appesantito indebitamente il passivo e/o lo scoperto di conto corrente del cliente e soltanto dopo potrà stabilirsi, in relazione al limite dell’affidamento accordato dalla Banca, se i singoli versamenti eseguiti abbiano avuto una reale ed effettiva natura solutoria.”[4].

Il principio è stato di recente ribadito anche dalla Suprema Corte secondo cui “Per verificare se un versamento effettuato dal correntista nell’ambito di un rapporto di apertura di credito in conto corrente abbia avuto natura solutoria o solo ripristinatoria, occorre, all’esito della declaratoria di nullità̀ da parte dei giudici di merito delle clausole anatocistiche, previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente determinare il reale passivo del correntista e ciò̀ anche al fine di verificare se quest’ultimo ecceda o meno i limiti del concesso affidamento. L’eventuale prescrizione del diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato non influisce sulla individuazione delle rimesse solutorie, ma solo sulla possibilità di ottenere la restituzione di quei pagamenti coperti da prescrizione”[5].

In conclusione, posto che per tutte le ragioni di cui si è dato ampiamente conto il c/c oggetto di causa era certamente affidato e posto, altresì, che il CTU, facendo correttamente applicazione del criterio del saldo rettificato, ha escluso la presenza di rimesse di natura solutoria.

 

 

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[1] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 17.06.2016, n. 12517.

[2] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., n. 24418/2010.

[3] Cfr. App. Milano n. 4998/2019.

[4] Cfr. App. Milano n. 176/2020.

[5] Cfr. Cass. n. 9141/2020.

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