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Nota a App. Perugia, 18 settembre 2024, n. 651.

di Antonio Zurlo

Studio Legale Greco Gigante & Partners

Sulla (il)liquidità dei titoli.

Col primo motivo di appello, si sosteneva l’erroneità della premessa fattuale su cui si fondava la pronuncia di primo grado, ovverosia che i titoli acquistati dalla (segnatamente, azioni della Banca Popolare di Bari) dovessero considerarsi strumenti finanziari illiquidi, laddove, invece, si era di fronte ad un mero “rischio di liquidità”, poi concretizzatosi in un momento successivo all’acquisto. La Banca appellante, a dimostrazione di ciò, rilevava che negli anni 2013-2014 l’emittente Banca Popolare di Bari avesse realizzato utili consistenti (rispettivamente 17 e 21 milioni di euro) e che all’epoca le azioni della erano negoziate con tempistiche medie di smobilizzo di circa 90 giorni.

La prospettata tesi non è meritevole di condivisione, a giudizio della Corte territoriale perugina. Invero, premesso che gli utili, conseguiti nel biennio, non hanno alcun rilievo ai presenti fini, occorre osservare che la liquidità del titolo è data dalla possibilità di trasformare nuovamente lo stesso in denaro liquido ed è del tutto evidente che azioni emesse da banche non quotate presentino delle difficoltà di smobilizzo, visto che la loro vendita è possibile solamente a seguito del riacquisto da parte della società o, al limite, di altri soci. Le azioni de quibus erano, infatti, titoli non quotati nei mercati regolamentati, quindi non avevano un mercato (se non in un sistema interno) né un parametro di confronto (in relazione al loro valore) ed è del tutto consequenziale che vi potessero essere ostacoli o limitazioni -difficoltà in genere- al loro smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, ciò che si era puntualmente verificato.

In base alle definizioni contenute nella Comunicazione CONSOB n. 9019104 (avente a oggetto il dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi), devono considerarsi titoli “illiquidi” quei “prodotti finanziari per i quali non sono disponibili anche per intrinseche condizioni di diritto o di fatto mercati di scambio caratterizzati da adeguati livelli di liquidità e di trasparenza che possano fornire pronti ed oggettivi parametri di riferimento” o ancora quelli che “determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, a condizioni di prezzo significative. Ebbene, per la Corte umbra non v’è dubbio che tali definizioni si attaglino alle azioni per cui è causa, trattandosi di titoli che non erano quotati su mercati di scambio caratterizzati da sufficienti livelli di liquidità e trasparenza.

D’altro canto, non è superfluo rilevare che azioni negoziate in un sistema interno hanno valori puramente teorici, in quanto gli scambi sono assai ridotti, e ciò contribuisce a rendere ancor più difficoltoso il loro smobilizzo perché il prezzo in definitiva è stabilito dall’emittente e non è connotato da intrinseca trasparenza, come per i titoli che sono quotati in mercati regolamentati, dove la quotazione è l’effetto del meccanismo bid/ask spread.

Riassumendo, le azioni BPB, oggetto di contestazione, come più in generale le azioni di banche popolari non quotate in borsa, erano e sono da considerare titoli illiquidi per il fatto di non essere quotati su mercati regolamentati, a prescindere dal concreto rischio di liquidità, che poteva essere legato a situazioni contingenti e transitorie.

Da quanto esposto deriva che la censura inerente all’illiquidità dei titoli acquistati deve essere recisamente respinta.

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Sulla valutazione di adeguatezza.

Con un’ulteriore censura veniva contestata la valutazione di (in)adeguatezza sostenuta dal Tribunale di Terni quanto agli investimenti effettuati, in rapporto alle conoscenze ed al profilo finanziario (di rischio e di obiettivi di investimento). Più nello specifico, Banca appellante valorizzava l’esperienza pregressa del cliente-investitore, sostenendo che l’odierna appellata avesse investito già in passato somme rilevanti in strumenti finanziari (diversi dalle azioni) e aveva una “qualificazione media del suo profilo di rischio”, tanto di aver riferito nel questionario del 2012: – di conoscere le azioni e di avere già investito in azioni e fondi azionari; – di volere la crescita del proprio capitale nel medio-lungo periodo, pur accettando il rischio di perderlo in parte; – di avere un orizzonte temporale di lungo periodo (oltre sei anni); – di avere impegni (debiti-residui) a medio lungo termine inferiori a €.50.000,00; sicché l’investimento effettuato in azioni non poteva che risultare adeguato al profilo di rischio.

In maniera non dissimile dalla precedente censura, la Corte territoriale ritiene non condivisibile la tesi esposta. A tal riguardo, il Collegio osserva che il primo questionario di profilatura era stato somministrato nel marzo 2012, vale a dire solo quattro giorni prima della sottoscrizione della domanda di ammissione a socio, e che non era stato specificato il profilo di rischio, dovendosi, peraltro, sottolineare che alla domanda n. 15 l’appellata aveva risposto dicendo di non avere alcuna competenza specifica in ambito finanziario. Il combinato disposto dei due fattori, dato dalla mancata attribuzione di un profilo di rischio e dalla mancanza di competenza specifica in ambito finanziario, già doveva rendere di per sé impraticabile l’acquisto da parte della di azioni non quotate in mercati regolamentati, come quelle in contestazione.

In ogni caso, nel successivo questionario dell’ottobre 2014, veniva attribuita un’esperienza finanziaria medio bassa ed un profilo di rischio medio; la stessa appellata, peraltro, dichiarava solo redditi da lavoro, inferiori a €.50.000,00, nonché una consistenza complessiva del patrimonio compresa entro €.200.000,00 e di non aver alcuna esperienza specifica in ambito finanziario, avendo investito nell’ultimo anno un importo inferiore ad € 5.000,00, effettuando meno di un’operazione a trimestre. In pratica, aveva un patrimonio ed un reddito da lavoro non sostanziosi e, soprattutto, investiva sporadicamente cifre assai contenute, non avendo esperienze specifiche in ambito finanziario.

All’epoca dei fatti era ancora in vigore la prefata Comunicazione n. 9019104, con l’obiettivo di fornire una protezione rafforzata agli investitori retail. In base al punto 3.4, l’intermediario deve “dotarsi di procedure che consentano agli addetti alla relazione con la clientela l’effettiva valutazione della adeguatezza del prodotto illiquido in relazione ai bisogni del cliente” e, sulla scorta del punto 3.6, “la valutazione di adeguatezza deve essere condotta con particolare cura”; l’intermediario ha, inoltre, l’obbligo di valutare l’adeguatezza con riguardo alla situazione finanziaria del cliente ed ai suoi obiettivi di investimento.

Com’è noto, l’avviso Consob del 03.02.2022 ha revocato la Comunicazione n. 9019104 e la Comunicazione n. 0097996 (afferente alla distribuzione di prodotti finanziari complessi ai clienti retail), non più necessaria con i nuovi regimi di tutela rafforzata, introdotti con il recepimento della Direttiva MIFID II e l’emanazione del Reg. n. 600/2014. In altri termini, l’evoluzione normativa è nel senso di fornire sempre maggiore protezione alla clientela retail – a fronte di condotte opportunistiche degli intermediari. Tanto premesso, con precipuo riferimento al caso di specie, occorre rilevare che:

  • l’investimento complessivo in azioni BPB risultava superiore a un ¼ dell’intera consistenza del patrimonio;
  • l’investimento in azioni della ammontava a una quota assai consistente di tutti gli investimenti finanziari dell’appellata;
  • la profilatura conteneva un elevato tasso di contraddittorietà, considerando le risposte affermative sulla conoscenza di tipologie di strumenti finanziari tipo ETF, ETC, Warrant, covered warrant e certificates (che richiedevano ampie nozioni in materia finanziaria) e la contestuale dichiarazione di non avere “competenze specifiche in ambito finanziario”, quindi di non essere in grado di apprezzare le differenze tra le varie tipologie di investimenti.

In ogni caso, il profilo di rischio (si badi, “medio”) assegnato dalla Banca alla cliente prevedeva “un mix bilanciato tra strumenti di natura obbligazionaria e strumenti più rischiosi; nel momento in cui la Banca aveva venduto azioni BPB, era stata posta in essere una violazione delle proprie stesse indicazioni, che prevedevano un bilanciamento del portafoglio tra “strumenti più rischiosi” e titoli obbligazionari, anche al netto del fatto che laddove il cliente aveva detto di conoscere, tra gli strumenti finanziari, le “azioni” , è lecito presumere che facesse riferimento ad azioni quotate in un mercato regolamentato e non ad azioni non quotate.

In buona sostanza, con la propria condotta la Banca aveva disatteso le linee guida che essa stessa si era data nella profilatura della cliente, fermo restando che detta profilatura conteneva una serie talmente clamorosa di contraddizioni da farla apparire, nella fattispecie, come totalmente inidonea alla valutazione in concreto della cliente medesima e dei suoi obiettivi di investimento. È premura della Corte perugina specificare come tale asserzione non voglia essere equipollente a sostenere che una Banca, con i propri consigli, possa garantire alla propria clientela redditività e sicurezza di tutti gli investimenti effettuati. Come è noto, in tema di investimenti redditività e rischio variano nella stessa direzione, nel senso che con l’aumentare del rischio aumenta anche la redditività e viceversa, perciò il rischio costituisce il costo della redditività e, analogamente, ogni perdita di redditività rappresenta il costo di una riduzione di rischio, ovvero il costo della sicurezza. In altri termini, l’espressione “investimento sicuro” costituisce una sorta di ossimoro, poiché ogni investimento comporta una dose di rischio e laddove si cerchino investimenti redditizi è impensabile che non vi siano rischi per l’investitore. La questione è ben diversa. Il punto è che la Banca ha l’obbligo di valutare i bisogni del cliente in base alle esigenze dello stesso, ai suoi obiettivi d’investimento ed alle sue conoscenze, e non c’è dubbio che vendere dei titoli illiquidi ad un cliente che ha un’esperienza finanziaria “medio-bassa” (così era stata classificata la all’esito del questionario MIFID) significava venir meno ai propri doveri di intermediario, vendendo titoli non adeguati al profilo della cliente.

Né, tantomeno, l’appellante può invocare a supporto della propria tesi il fatto che la cliente, nel biennio successivo agli acquisti contestati, avesse investivo ulteriori e significative somme anche “in titoli obbligazionari” della stessa emittente, perché il fatto rende anche più allarmante la condotta della Banca medesima, dal momento che, invece di consigliare la cliente a diversificare il proprio portafoglio, aveva fatto convogliare quasi tutti i suoi risparmi in azioni o titoli di debito dello stesso gruppo, aumentando a dismisura la rischiosità degli investimenti (visto che, per usare una frusta ma sempre attuale metafora, le uova erano finite tutte in uno stesso paniere).

Tanto premesso, il Collegio umbro ritiene che:

  • l’investimento in azioni non fosse assolutamente adeguato alle conoscenze in strumenti finanziari della cliente, alle sue contenute disponibilità patrimoniali e finanziarie, nonché alla sua propensione al rischio;
  • la Banca stessa avesse previsto per la cliente un bilanciamento del portafoglio tra “strumenti più rischiosi” e titoli obbligazionari, disattendendolo, poi, con la propria condotta;
  • l’inadeguatezza degli investimenti effettuati su azioni della avrebbe dovuto comportare per l’intermediario ulteriori obblighi informativi, ma non risultano, per converso, fornite fattivamente spiegazioni suppletive sulla natura dell’acquisto di titoli illiquidi e sulla compatibilità con la propria (scarsa) conoscenza di tali strumenti finanziari, acquisendo le esecuzioni degli ordini con apposite autorizzazioni in cui venivano esplicitate le avvertenze ricevute[1].

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Sull’inadempimento degli oneri informativi con contratto-quadro, schede di adesione e ordini di acquisto.

Nella specie, l’inadempimento agli obblighi informativi non riguarda i moduli standardizzati, ma deve riguardare le informazioni specifiche relative alle “diverse tipologie di rischio determinate dall’eventuale assunzione della posizione: rischio emittente/controparte, rischio di mercato e rischio di liquidità” (cfr. punto 3.9 della Comunicazione Consob n. 9019104). In buona sostanza, le informazioni contenute nei contratti-quadro, nelle schede di adesione degli azionisti, negli ordini di acquisto o nelle note informative (effettivamente contenenti l’espressione “operazione effettuata in conflitto di interesse”), nulla aggiungevano alle questioni della illiquidità dei titoli ed all’inadeguatezza delle operazioni in discorso.

In precipua considerazione della tipologia delle azioni e, segnatamente, della loro quotazione in mercati non regolamentati, sarebbe stata d’uopo fornire alla cliente anche informazioni specifiche riguardanti il problema dello spread denaro-lettera (e delle sue conseguenze) nella fase di successivo eventuale smobilizzo dell’investimento (cfr. punto 3.4 della citata comunicazione CONSOB): anche in questo caso, di tali ulteriori informazioni non vi è traccia in atti.

In ogni caso, è doveroso rilevare che, data la ritenuta inadeguatezza delle operazioni finanziarie contestate, il primo giudice aveva evidenziato, citando autorevole giurisprudenza, che sarebbe stato onere della Banca fornire prova di aver offerto all’investitore “un’effettiva spiegazione delle ragioni dell’inadeguatezza”, prova che non poteva risolversi nel produrre moduli standardizzati.

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Sulla rilevanza dell’inadempimento informativo.

Il mancato assolvimento all’obbligo informativo ha comportato una forte menomazione del patrimonio conoscitivo della cliente, non resa sufficientemente edotta riguardo all’illiquidità dei titoli acquistati ed alle conseguenti difficoltà di smobilizzo delle azioni, della difficoltà – rectius impossibilità – poi puntualmente verificatasi nel corso del rapporto.

L’inadempimento non è semplicemente grave alla luce di quanto verificatosi in seguito agli acquisti (il prezzo delle azioni acquistate è sceso repentinamente, addivenendo a un valore attualmente irrisorio), quanto per il fatto che l’inosservanza in concreto dell’obbligo informativo aveva orientato l’appellata a comprare titoli illiquidi, che la – nella sua qualità di investitore inesperto e non particolarmente propenso al rischio – non avrebbe mai dovuto inserire nel proprio portafoglio, se non in misura ridotta.

L’inadempimento è, quindi, doppiamente grave, a norma dell’art. 1455 c.c., sia in senso soggettivo (perché ha inciso sull’oggetto del contratto, dato che l’inesperta investitrice ha inserito nel suo portafoglio dei titoli di cui ignorava la reale natura), sia in senso soggettivo (perché è lecito presumere che un piccolo investitore non si sarebbe mai avventurato ad acquistare azioni che non erano quotate in un mercato regolamentato, tanto più considerando l’aleatorietà delle loro quotazioni, data l’assenza di domanda, e le difficoltà di trasformarle all’occorrenza in denaro liquido).

 

 

 

 

 

 

 

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[1] V. Cass. n. 23750/2020.

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