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Nota a App. Roma, Sez. II, 29 novembre 2023, n. 7690.

di Antonio Zurlo

Studio Legale Greco Gigante & Partners

«Principium cuius hinc nobis exordia sumet,

nullam rem e nihilo gigni divinitus umquam.»

Il suo fondamento prenderà per noi l’inizio da questo:

che nulla mai si genera dal nulla per volere divino

(Lucrezio, De rerum natura I, 149-150)

 

La Corte territoriale capitolina richiama, in apertura di ragionamento, la giurisprudenza di legittimità in punto di ripartizione dell’onere probatorio nel caso di azione ex art. 2033 c.c.., in materia di contratti bancari, anche con riguardo alle ipotesi di assenza di contratto scritto, nonché alle istanze formulate ai sensi degli artt. 119 TUB e 210 c.p.c.

Ebbene, la Corte Suprema di Cassazione ha recentemente[1] ribadito, con riguardo alla produzione dei contratti che: «Riaffermato, allora, che deve ritenersi gravante sull’attore, che agisca per l’accertamento del corretto saldo di un conto corrente e per la restituzione di quanto versato in forza di clausole comunque invalide, la prova dell’inesistenza di una giusta causa dell’attribuzione patrimoniale compiuta in favore del convenuto (cfr. ex multis, Cass. n. 37800 del 2022; Cass. n. 29855 del 2022; Cass. n. 14428/21, 11294/20, 33009/19, 30822/18, 7501/12), ancorché si tratti di prova di un fatto negativo, va pure rimarcato che, nelle azioni suddette, colui che agisce allega la dazione senza causa di una somma di danaro non come adempimento di un negozio giuridico ma come spostamento patrimoniale privo di causa, sicché può assolvere l’onere della prova di questo fatto al di fuori dei limiti probatori previsti per i contratti, atteso che detti limiti sono applicabili solo al pagamento dedotto come manifestazione di volontà negoziale e non a quello prospettato come fatto materiale estraneo alla esecuzione di uno specifico rapporto giuridico. 2.8.1. Invero, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, i limiti legali di prova di un contratto per il quale sia richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem – così come i limiti di valore previsti dall’art. 2721 cod. civ. per la prova testimoniale – operano esclusivamente quando il suddetto contratto sia invocato in giudizio come fonte di reciproci diritti ed obblighi tra le parti contraenti, e non anche quando se ne evochi l’esistenza come semplice fatto storico influente sulla decisione del processo (cfr. Cass. n. 5880 del 2021; Cass. n. 3336 del 2015; Cass. n. 566 del 2001), vieppiù allorquando, come concretamente accaduto nella odierna fattispecie, venga prospettata la mancata stipulazione ab origine di qualsivoglia specifica pattuizione circa la debenza di interessi ultralegali (per quelli anatocistici, invece, varrebbe comunque la disciplina di cui all’art. 1283 cod. civ., come interpretato, in ambito di conto corrente bancario, dall’ormai consolidatasi giurisprudenza di legittimità) tra le parti in lite.».

L’appellante ha chiaramente lamentato che l’omessa produzione dei contratti non fosse idonea a impedire l’accertamento richiesto al giudicante. La doglianza non è fondata atteso che la società originaria attrice (odierna appellante) ha atteso la chiusura dei conti per procedere a una rivendicazione fondata su documentazione che la banca non aveva più l’onere di conservare; tanto più, peraltro, che il disposto di cui all’art. 119 TUB fa riferimento alle singole operazioni e non di certo ai contratti.

A ciò si aggiunge che senz’altro gli oneri di diligenza, in capo agli amministratori dell’odierna appellante, avrebbero dovuto condurre quest’ultima alla conservazione di tutte le scritture e di tutti i documenti riferibili a tali rapporti bancari.

Del pari, non risulta fondata la doglianza relativa alla mancata considerazione, da parte del Tribunale, della istanza ex art. 119 TUB, della cui ricezione vi è prova in atti. Sul punto, la Corte Suprema di Cassazione[2] si è occupata funditus dei rapporti tra l’art. 119, comma 4, TUB, norma di carattere sostanziale, e l’art. 210 c.p.c., avente, invece, natura processuale[3], confutando specificamente precedenti argomentazioni[4] e giungendo ad affermare il principio per cui «Il diritto spettante al cliente, a colui che gli succede a qualunque titolo o che subentra nell’amministrazione dei suoi beni, ad ottenere, a proprie spese, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, ivi compresi gli estratti conto, sancito dall’articolo 119, comma 4, del d.lgs. n. 385 del 1993, può essere esercitato in sede giudiziale attraverso l’istanza di cui all’articolo 210 c.p.c., in concorso dei presupposti previsti da tale disposizione, a condizione che detta documentazione sia stata precedentemente richiesta alla banca e quest’ultima, senza giustificazione, non abbia ottemperato». In detta sede si è, peraltro, puntualizzato che «[…] il cliente può, se lo ritiene, e se […] ne ha l’esigenza, chiedere direttamente alla banca, e non per il tramite del giudice, la consegna degli estratti conto dell’ultimo decennio: una volta inoltrata la richiesta, la banca è obbligata ad effettuare la consegna entro il termine previsto. E la norma così congegnata, in difetto di alcuna previsione normativa in tal senso, non impatta affatto né sul riparto degli oneri probatori, né sulla disciplina processuale applicabile. Non è forse superflua qui una ulteriore precisazione, a scanso di pur improbabili equivoci. Quanto precede non sta a significare che il cliente, una volta introdotta la causa in veste di attore, non possa più avvalersi dell’articolo 119, ultimo comma; non può farlo invocando indiscriminatamente l’intervento del giudice, il che stravolgerebbe le regole processuali invece operanti, a meno che la banca non si sia resa inadempiente dell’obbligo che su di essa incombe: ma nulla esclude, viceversa, che il cliente, introdotta la lite (ed al netto dell’osservanza dell’articolo 163, numeri 3 e 4, c.p.c.), possa rivolgersi direttamente alla banca per farsi consegnare la documentazione di cui ha bisogno: si immagini il caso di una istanza avanzata nelle more del secondo termine di cui all’articolo 183, sesto comma, c.p.c.».

Senza soluzione di continuità si è registrato un successivo pronunciamento[5], che ha ulteriormente precisato che «Non è, dunque, necessario – […] – che la richiesta sia avanzata in epoca antecedente all’instaurazione del giudizio nell’ambito del quale l’istanza ex art. 210 cod. proc civ. è proposta, essendo sufficiente, sotto il profilo temporale in esame, che, al momento della formulazione di tale istanza, il cliente abbia chiesto copia della documentazione e che siano decorsi novanta giorni dalla richiesta – tale è il termine assegnato alla banca dall’art. 119, quarto comma, t.u.b. per ottemperare alla richiesta – senza che la banca medesima abbia proceduto alla consegna della documentazione, a meno che non sia dimostrata l’esistenza di idonea giustificazione dell’inadempimento».

Nel caso in esame, non si ritiene si possa applicare alcuno di tali insegnamenti, atteso che la richiesta non riguarda singole operazioni, bensì eventuali e non indicati contratti oltre che gli estratti conto, così invertendo l’onere probatorio che sulla stessa appellante gravava ex art. 2033 c.c.

È, pur tuttavia, necessario ribadire il principio di diritto, già enunciato in seno alla giurisprudenza di legittimità[6], per cui «Nei rapporti di conto corrente bancario, il correntista che agisce in giudizio per la ripetizione dalla banca di danaro che afferma essere stato a costei indebitamente dato nel corso dell’intera durata del rapporto sul presupposto di dedotte nullità di clausole del contratto di conto corrente relative alla misura degli interessi e al massimo scoperto, di applicazione di interessi in misura superiore a quella del tasso soglia dell’usura presunta, per come determinato in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996, nonché di addebiti di danaro non previsti dal contratto, è onerato della prova degli avvenuti pagamenti e della mancanza di una valida causa debendi mediante deposito degli estratti periodici di tale conto corrente riferiti all’intera durata del rapporto; con la conseguenza che, qualora egli depositi solo alcuni di tali estratti periodici di conto corrente, egli, da un lato, non adempie a detto onere per la parte di rapporto non documentata e, dall’altro, l’omissione non costituisce fatto impediente il sollecitato accertamento giudiziale del dare e dell’avere fra le parti del cessato rapporto a partire dal primo saldo (nella specie, a debito) dal cliente documentalmente riscontrato».

A conclusioni sostanzialmente analoghe è pervenuto anche un successivo pronunciamento[7], con cui è stato puntualizzato, del tutto opportunamente, che «l’estratto conto, […], non costituisce l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto. Esso consente di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto e, tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito potrebbe valorizzare, esemplificativamente, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni o, a norma degli artt. 2709 e 2710 c.c., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 e Cass. 25 novembre 2010, n. 23974): e, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati, quello stesso giudice può avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (Cass. 1 giugno 2018, n. 14074, ove il richiamo a Cass. 15 marzo 2016, n. 5091; nel medesimo senso, Cass. 3 dicembre 2018, n. 31187; v. altresì Cass. 2 maggio 2019, n. 11543). Rilevano, altresì, la condotta processuale della controparte ed ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 c.p.c.. Ne deriva che l’incompletezza della serie degli estratti conto si ripercuote comunque sul cliente, gravato dall’onere della prova degli indebiti pagamenti: in quanto, a quel punto, si comincia volta a volta dal “saldo a debito”, risultante dal primo estratto conto disponibile o da quelli intermedi dopo intervalli non coperti; oppure, ove lo deduca la stessa banca, si potrà partire dal cd. “saldo zero”. In mancanza di elementi nei due sensi indicati, dovrà assumersi, come dato di partenza per la rielaborazione delle successive operazioni documentate, il predetto saldo iniziale degli estratti conto acquisiti al giudizio, che, nel quadro delle risultanze di causa, è il dato più sfavorevole allo stesso attore».

Anche alla luce anche dei summenzionati principi, va ribadito che, nel caso in esame, la parte attrice (si badi, onerata dell’allegazione e della prova) ha formulato richieste di carattere indeterminato per tutte le voci oggi riproposte, atteso che non ha chiesto ex art. 119 TUB la documentazione relativa a singole operazioni, né, tantomeno, lo ha fatto con riguardo agli ultimi dieci anni, ma ha allegato un modello che le sarebbe stato consegnato senza precisare alcunché al riguardo, omettendo, quindi, come ogni attenzione e diligenza nella gestione della documentazione (nella sua particolare qualità di imprenditore).

In definitiva, né l’atto introduttivo del giudizio, né, del pari, la perizia di parte, e men che meno l’odierno appello specificano alcunché, con la conseguenza che per tutte le voci rivendicate effettivamente il Tribunale si è espresso in modo del tutto condivisibile; difettando una pista probatoria da seguire, la CTU , in tali condizioni, diventa del tutto esplorativa.

 

 

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[1] V. Cass. n. 8213/2023.

[2] Cfr. Cass. n. 12993/2023.

[3] V. Cass. n. 24641/2021.

[4] Cfr. Cass. n. 11554/2017.

[5] Cfr. Cass. n. 23861/2022.

[6] Cfr. Cass. n. 35979/2022; Cass. n. 7697/2023.

[7] Cfr. Cass. n. 37800/2022; Cass. n. 7697/2023.

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