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Nota a Trib. Viterbo, 16 gennaio 2023.

di Anna Monda

Avvocato

Con la pronuncia in commento il Tribunale di Viterbo si è espresso sulla sentenza resa dal Giudice di Pace di Viterbo, che aveva dichiarato la risoluzione del contratto quadro di investimento e dei successivi ordini di acquisto, con la condanna dell’istituto bancario alla restituzione del capitale investito dal cliente. La Banca, risultata soccombente, infatti, proponeva appello per ottenere il riesame della controversia, lamentando, in primis, l’intervenuta prescrizione del diritto risarcitorio fatto valere da controparte e contestando nel merito l’asserita violazione degli obblighi informativi, nonché l’inadeguatezza degli investimenti proposti.

Il Tribunale di Viterbo, in composizione monocratica e in funzione di giudice d’appello, ha confermato la decisione di primo grado attraverso una serie di argomentazioni che ribadiscono alcuni principi cardine del rapporto tra intermediario finanziario e cliente.

La sentenza, nel suo incipit argomentativo, precisa che «l’astratto richiamo nella sentenza impugnata alla giurisprudenza di legittimità sulla distinzione tra responsabilità precontrattuale e quella ex art 1218 c.c.», relativamente alle condotte inadempitive dell’intermediario, «non impedisce di riconoscere l’ordinario termine decennale di prescrizione rispetto alla domanda di risoluzione fondata sull’inadempimento degli obblighi assunti dalla banca intermediaria con il contratto quadro e con i singoli ordini di investimento». Sul punto giova rammentare che il contratto quadro va distinto dai singoli ordini d’investimento poiché ha ad oggetto la futura prestazione di servizi ed è destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti[1], laddove gli ordini di investimento ne costituiscono il momento esecutivo. Secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. I, 31 agosto 2020, n. 18122), il singolo ordine di acquisto/vendita, pur rappresentando un elemento di attuazione delle obbligazioni contratte nell’accordo quadro, partecipa della natura negoziale di quest’ultimo: si tratta di un “negozio esecutivo” mediante il quale si concreta l’acquisizione di uno strumento finanziario. La risoluzione del contratto-quadro, per inadempimento grave dell’intermediario, determina la caducazione degli ordini a valle in quanto fa venir meno il loro ‘presupposto normativo’, con conseguente obbligo restitutorio delle somme investite (restitutio in integrum)[2].

Alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, conforme ai principi che regolano la distribuzione degli oneri di allegazione e probatori in materia di inadempimento, l’investitore che si ritenga leso da una violazione degli obblighi informativi posta in essere dall’intermediario deve allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, indicando in maniera circostanziata, sia pure sintetica, quelle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrargli; a sua volta l’intermediario ha l’onere di provare che tali informazioni siano state fornite oppure non fossero tra quelle dovute (Cass., 24 marzo 2018, n. 10111; Cass., 28 febbraio 2018, n. 4727; Cass., 18 maggio 2017, n. 12544;  Cass., 29 ottobre 2010, n. 22147). Nel solco di questa posizione ermeneutica, rispetto all’osservanza dell’obbligo ex art 21 d.lgs. 58/1998 (TUF) gravante sull’intermediario, il Tribunale di Viterbo considera insufficiente «il richiamo alla pubblicazione del “prospetto informativo” e alla consegna della “scheda prodotto”, così come all’inoltro dell’estratto conto periodico». In particolare, «non risulta dimostrato che la [cliente] investitrice sia stata effettivamente e concretamente informata sulla natura dell’operazione finanziaria e sui rischi ad essa connessi, con specifico riferimento al carattere “illiquido” del prodotto e alla conseguente difficoltà di smobilizzo. Infatti, non soddisfa tale obbligo “il fornire informazioni generiche e approssimative, ma è necessario soddisfare il bisogno informativo dei destinatari nel caso concreto”». Per evidenziare la preliminare importanza degli obblighi informativi, la sentenza in commento fa un espresso richiamo a Cassazione civile, sez. I, 18 giugno 2018, n. 15936, secondo cui la scarsa adeguatezza dell’investimento non è rilevante se l’intermediario non prova di aver assolto agli obblighi informativi[3].

Il Tribunale di Viterbo, dopo aver appurato l’effettiva e concreta violazione degli obblighi informativi da parte dell’istituto bancario, si sofferma sull’obiettiva inadeguatezza dell’operazione.

La normativa di settore. impone all’intermediario finanziario di svolgere un’apposita valutazione, tesa a verificare la coerenza/adeguatezza del prodotto consigliato o proposto rispetto al profilo di rischio del cliente[4]. A tal fine. l’intermediario deve acquisire informazioni dal cliente in merito alla conoscenza ed esperienza nel settore di investimento rilevante per il tipo di strumento e servizio (età, professione, livello di istruzione, frequenza di investimento, conoscenza dei prodotti finanziari e dei servizi di investimento, volume di investimento, etc.), alla situazione finanziaria (fonte primaria di reddito, capacità reddituale annua, patrimonio mobiliare ed immobiliare posseduto, eventuali debiti e crediti, etc.) e agli obiettivi di investimento (la motivazione dell’investimento – speculativo e crescita del capitale o di sua conservazione –, propensione al rischio, etc.), procedendo alla compilazione del c.d. questionario MiFID, cui seguirà  l’assegnazione di un profilo di rischio. Contestualmente lo stesso intermediario deve aver acquisito la conoscenza delle caratteristiche degli strumenti finanziari offerti, in termini di tipologia, dimensione, oggetto e frequenza, onde vagliarne l’adeguatezza alla classe di appartenenza dello specifico cliente. Invero, nel rapporto intermediario-cliente il flusso informativo ha una struttura bifasica: vi è un momento più statico, con l’acquisizione delle notizie utili a ricostruire la profilatura dell’investitore e a individuare il grado di rischio specifico, e una fase di maggior dinamismo, caratterizzata dalle informazioni che l’intermediario deve rendere al cliente affinché questi addivenga a scelte consapevoli.

Nel caso in esame il Tribunale di Viterbo conviene con il giudice di prime cure sul «giudizio di incoerenza in relazione all’acquisto di azioni non quotate sui mercati regolamentati, in quanto suscettibili di determinare la perdita integrale dell’investimento». Siffatta conclusione muove dalla natura tipologica degli strumenti finanziari qui in evidenza, correttamente riconducibili – per il giudice d’appello – nella categoria del “rischio elevato” in ragione non della «successiva (e perdurante) difficoltà di realizzo (in concreto registrata)», bensì della «difficoltà di smobilizzo a condizioni significative […] entro un lasso di tempo ragionevole, atteso che il prezzo delle azioni non è frutto del mercato ma è determinato dalla società attraverso pareri commissionati ad esperti di settore, il che costituisce un elemento aleatorio e potenzialmente non attendibile». Il carattere assorbente di queste argomentazioni è tale da far degradare a questione meramente incidentale il problema della «dubbia profilatura del cliente come “rischio medio”»: sul punto la sentenza reca solo un brevissimo cenno, benché il comportamento dell’intermediario debba essere ispirato ai principi di diligenza, correttezza e trasparenza, ex art. 21 TUF, nella fase di profilatura del cliente, in modo da pervenire ad un’assegnazione del profilo di rischio che sia esatta e non sovradimensionata

Per il giudice d’appello «è verosimile» imputare la sottostima del rischio e la violazione dei doveri informativi alla ricorrenza in capo all’intermediario finanziario di un conflitto d’interessi, avendo la banca «proposto alla propria clientela azioni emesse da altro istituto di credito appartenente allo stesso gruppo».

 

La conclusione cui perviene il Tribunale di Viterbo è la seguente: «La gravità dell’adempimento, reiterato nel tempo, è idonea a supportare la risoluzione negoziale, con conseguente effetto reciprocamente restitutorio (del “capitale investito” al cliente, così come dei “titoli azionari oggetto di acquisto” in favore della banca)».

Confermando l’operatività del rimedio caducatorio, unitamente alla tutela reintegratoria, il giudice d’appello considera anche «inconferente ogni riferimento mosso [dall’appellante] al risarcimento del danno e alla sua corretta quantificazione». Questa precisazione va pur sempre letta in relazione alle doglianze mosse dall’appellante perché, come affermato dalla prevalente giurisprudenza, il comportamento inadempitivo dell’intermediario finanziario dà luogo a responsabilità contrattuale e conseguentemente all’obbligo di risarcimento del danno cagionato ex art 1223 ss. c.c., (Cfr. sent. n. 26724 e n. 26725 delle Sezioni Unite del 19 dicembre 2007). In tal caso il quantum debeatur è commisurato alle perdite subite dall’investitore per le operazioni erronee/svantaggiose, frutto della condotta violativa dell’intermediario, con l’aggiunta di un’ulteriore voce di danno, quantunque l’investitore provi che, in assenza della violazione dell’intermediario, avrebbe investito il proprio denaro in modo più produttivo (Tribunale Roma, 17 maggio 2012, n. 10091).

 

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[1] Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità sin dal 2007, il contratto quadro è riconducibile al mandato civilistico. Sul piano del contenuto ricomprende tipicamente una serie di elementi volti, da un lato, ad individuare i servizi forniti, le loro caratteristiche, la durata e, dall’altro, a normare gli atti futuri attuativi del rapporto di intermediazione.

[2] Se l’art. 1458 c.c. esclude in via di principio l’efficacia retroattiva della risoluzione nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nella fattispecie del contratto quadro gli ordini di acquisto/vendita sono da considerarsi atti negoziali distinti da esso, che, tuttavia, risultandone normativamente e funzionalmente collegati (collegamento unilaterale e necessario), vengono travolti dalla sua caducazione.

[3] Più dettagliatamente, Cassazione civile, sez. I. 18 giugno 2018, n. 15936 ha statuito che “in materia di servizi di investimento mobiliare, l’intermediario finanziario è tenuto a fornire al cliente una dettagliata informazione preventiva circa i titoli mobiliari e, segnatamente, con particolare riferimento alla natura di essi ed ai caratteri propri dell’emittente, ricorrendo un inadempimento sanzionabile ogni qualvolta detti obblighi informativi non siano integrati e restando irrilevante, a tal fine, ogni valutazione di adeguatezza dell’investimento”.

[4] Un primo riferimento è all’art. 29 del Regolamento Intermediari del 1998 nel sistema pre-MiFID. Ulteriore riferimento è alle norme di derivazione europea, che hanno riscritto a livello nazionale molte disposizioni regolatrici della materia: il “pacchetto” MiFID I, con la Direttiva CE 2004/39 (I livello), implementata dalla Direttiva CE 2006/73 (II livello), recepito nel nostro ordinamento attraverso il d.lgs., 17 settembre 2007, n. 164;  il “pacchetto” MiFID II, con la Direttiva UE 2014/65, come modificata dalla Direttiva 1034/2016/UE, e il Regolamento UE 2014/600, cd. MiFIR, come modificato dal Regolamento n. 1033/2016, con recepimento in Italia della disciplina non self-executing tramite il d.lgs., 3 agosto 2017, n. 129.

L’adeguamento del nostro ordinamento alla normativa sovranazionale ha richiesto interventi robusti, come si evince dalle articolate modifiche apportate nel tempo al d.lgs. 58/1998 (TUF), nonché dai principali regolamenti di attuazione dello stesso.

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