11 min read

Nota a App. Perugia, 10 dicembre 2024, n. 846.

Massima redazionale

In via preliminare, la Corte d’Appello di Perugia richiama gli arresti della giurisprudenza di legittimità, per cui «Muovendo dal rilievo per cui nei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento l’intermediario finanziario ha l’obbligo di fornire all’investitore un’informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, la Corte ha osservato che al riscontro dell’inadempimento degli obblighi di corretta informazione consegue l’accertamento in via presuntiva del nesso di causalità tra il detto inadempimento e il danno patito dall’investitore: presunzione che spetta all’intermediario superare, dimostrando che il pregiudizio si sarebbe comunque concretizzato quand’anche l’investitore avesse ricevuto le informazioni omesse. La presunzione di sussistenza del nesso causale così delineata, pur suscettibile di prova contraria, scaturisce dalla funzione assegnata dal sistema normativo all’obbligo informativo gravante sull’intermediario, che è preordinato al riequilibrio dell’asimmetria strutturale del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell’investitore, al fine di consentirgli una scelta di investimento realmente consapevole. Si tratta di una conclusione basata sul rilievo per cui la previsione di una presunzione legale può derivare, in modo implicito ma inequivocabile, da una disposizione normativa, ma anche da un complesso sistematico di disposizioni di legge, che la implichino in modo logicamente e giuridicamente necessario. L’assunzione di questa presunzione del nesso di causalità si pone in linea di continuità con la giurisprudenza di questa Corte che ha evidenziato, da tempo, a partire da Cass. 29 dicembre 2011, n. 29864, cit., il principio (ribadito, più di recente da Cass. 27 aprile 2018, n. 10286, cit. e da Cass. 14 novembre 2018, n. 29353, cit.) secondo cui nella prestazione del servizio di negoziazione di titoli, qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, il danno risarcibile consiste ‘nell’essere stato posto a carico di detto cliente un rischio, che presumibilmente egli non si sarebbe accollato’: danno che può essere poi liquidato in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento dell’acquisto e quello degli stessi al momento della domanda risarcitoria.»[1]: con il che dev’essere accolta la prospettazione della secondo cui, a fronte di condotte violative dei doveri di informazione e diligenza gravanti sulla banca, non era tenuta a dimostrare anche la sussistenza del nesso causale tra le stesse ed il danno, nesso che, appunto, si presume, salvo prova contraria da parte dell’istituto, che nella specie non è stata mai fornita.

Per il resto, l’art. 21 TUF prevede una serie di doveri a carico dell’intermediario, tra i quali debbono richiamarsi quelli di cui ai commi 1 e 2 della disposizione, secondo cui «Nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati; b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e Pt_1 operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati».

Orbene, si rileva che, nel caso di specie, la Banca non risulta aver assolto “con diligenza, correttezza e trasparenza” ai propri doveri di profilatura e di informazione nei confronti dell’odierna appellante.

In primo luogo, va premessa la natura dei titoli BPB: come già osservato di recente da questa stessa Corte[2], con riguardo ad un caso in cui, come nella specie, si era dedotta la violazione dei doveri informativi in relazione a un investimento in azioni BPB, «occorre osservare che la liquidità del titolo è data dalla possibilità di trasformare nuovamente lo stesso in denaro liquido ed è del tutto evidente che azioni emesse da banche non quotate presentino delle difficoltà di smobilizzo, visto che la loro vendita è possibile solamente a seguito del riacquisto da parte della società o, al limite, di altri soci. Le azioni della BPB erano infatti titoli non quotati nei mercati regolamentati quindi non avevano un mercato (se non in un sistema interno) né un parametro di confronto (in relazione al loro valore) ed è del tutto conseguenziale che vi potessero essere ostacoli o limitazioni – difficoltà in genere – al loro smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, ciò che si era puntualmente verificato. In base alle definizioni contenute nella comunicazione n. 9019104 (dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi) adottata dalla il 2.3.2009, devono considerarsi titoli “illiquidi” quei “prodotti finanziari per i quali non sono disponibili, anche per intrinseche condizioni di diritto o di fatto, mercati di scambio caratterizzati da adeguati livelli di liquidità e di trasparenza che possano fornire pronti ed oggettivi parametri di riferimento” o ancora quelli che “determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, a condizioni di prezzo significative”. Non v’è dubbio che tali definizioni si attaglino alle azioni BPB per cui è causa, trattandosi di titoli che non erano quotati su mercati di scambio caratterizzati da sufficienti livelli di liquidità e trasparenza. Tra l’altro non è superfluo rilevare che azioni negoziate in un sistema interno hanno valori puramente teorici, in quanto gli scambi sono assai ridotti, e ciò contribuisce a rendere ancor più difficoltoso il loro smobilizzo perché il prezzo in definitiva è stabilito dall’emittente e non è connotato da intrinseca trasparenza, come per i titoli che sono quotati in mercati regolamentati, dove la quotazione è l’effetto del meccanismo bid/ask spread».

Le azioni BPB erano dunque titoli illiquidi e non titoli ove potevano esservi difficoltà di liquidazione, queste ultime potendo dipendere da particolari andamenti del mercato o da altre cause contingenti, magari anche attinenti a temporanee situazioni della società emittente, laddove l’estrema, difficoltà di smobilizzo delle azioni BPB era strutturalmente insita nelle loro caratteristiche date, in via permanente e non in relazione a situazioni contingenti, dalla evidenziata circostanza per cui sarebbe stato possibile rivenderle solo in ragione del loro riacquisto da parte della stessa BPB o di suoi soci.

Una tale caratteristica di queste azioni non emergeva dal prospetto informativo, che reca peraltro indicazioni sulle caratteristiche generali degli investimenti, e nemmeno dalla “scheda prodotto”, ossia dall’informativa sintetica relativa, nello specifico, alle azioni BPB, consegnata alla cliente. Invero, quanto al rischio di liquidità di tali titoli si legge che «In sede di disinvestimento, non essendo disponibile un mercato di scambi regolamentato, si potrebbero incontrare difficoltà a trovare una controparte disposta ad acquisire le azioni che si intendono vendere»; ma, come si comprende, una tale indicazione non rende ragione del fatto che, per quanto su evidenziato, non si trattava di possibili difficoltà (sempre ipotizzabili in qualunque investimento, come detto, in riferimento a situazioni contingenti) ma di rilevanti probabilità (che è concetto distinto rispetto alla mera possibilità) di incontrare difficoltà nello smobilizzo dei titoli; né tale indicazione specificava che, in sostanza, tali azioni avrebbero potuto essere riacquistate solo dalla stessa BPB o da suoi soci, facendo invece generico riferimento ad “una controparte”, così di fatto ingenerando nell’investitrice l’affidamento circa la prevedibile esistenza di un certo numero, indeterminato, di controparti. Dunque, nemmeno tale indicazione poteva aver assolto correttamente agli obblighi informativi che la aveva in relazione a prodotti illiquidi.

Ciò posto, deve osservarsi come i doveri informativi della banca risultino tanto più stringenti quanto meno l’investitore sia soggetto esperto nella materia ed in grado quindi di effettuare valutazioni di rischio corrette: e qui emerge l’ulteriore inadempimento ai suoi doveri, con particolare riguardo alla profilazione della cliente ritenuta una “imprenditrice”. Al riguardo, deve premettersi che, secondo quanto affermato dall’Orientamento del 25.06.2012 e dalla Comunicazione n. 120845516 del 25/10/2012, «l’intermediario dovrebbe adottare misure ragionevoli per garantire che le informazioni raccolte sui clienti siano affidabili e, in particolare, non dovrebbe fare indebito affidamento sulle autovalutazioni dei clienti in relazione alle loro conoscenza, esperienze e situazione finanziaria». In altri termini, giacché l’intermediario è soggetto esperto, e cura professionalmente le attività di investimento, lo stesso non può limitarsi a recepire in maniera acritica le risposte che l’investitore dà ai questionari che sottopone, né, tantomeno, le autovalutazioni dell’investitore circa le sue esperienze e competenze, ma, per converso, proprio alla luce delle elevate competenze, deve valutare se le risposte e le valutazioni del singolo investitore possano considerarsi credibili e veritiere.

Naturalmente ciò non significa che anche l’investitore non debba assumersi la responsabilità delle proprie dichiarazioni in base al principio di autoresponsabilità che deve informare la condotta di ogni consociato, ma spetta anche all’intermediario valutare correttamente se il singolo investitore sia in grado, almeno tendenzialmente, o meno di rendersi conto fino in fondo della portata delle proprie dichiarazioni: laddove, ad esempio, si tratti di un investitore di lungo corso o di un esperto in valori mobiliari o anche, eventualmente, di un soggetto laureato in economia, il dovere dell’intermediario di valutare criticamente le sue dichiarazioni sarà certamente minimo potendosi in tali casi presumere che l’investitore sia pienamente consapevole di quanto dichiara e debba assumersene pertanto tutte le responsabilità; ma il dovere dell’intermediario va aumentando, per così dire, man mano che si passi da categorie di investitori che possano (in base agli elementi in possesso della banca) considerarsi esperti a categorie di investitori che abbiano minori, o poche, o minime, competenze in materia, laddove in tale ultimo caso ritiene la Corte che l’intermediario debba sempre effettuare un’autonoma valutazione critica della veridicità e/o attendibilità delle risposte date dall’investitore al questionario di profilatura.

Ebbene, nel caso esaminato, la cliente aveva, all’epoca dell’investimento oggetto di contestazione, solo 22 anni e, dopo aver svolto solo un lavoro di banconista presso la pizzeria del fratello, e disponendo di un rilevante risarcimento per l’invalidità subita a seguito di un incidente, aveva acquistato una tabacchiera con l’aiuto del padre; quanto al titolo di studio, aveva conseguito il diploma di ragioniera e non aveva proseguito gli studi. Orbene, a fronte di tali caratteristiche, il dipendente della Banca l’aveva considerata un’imprenditrice, pur essendo agevole osservare che il concetto di “imprenditore” non si possa identificare nella gestione (peraltro iniziale) di una piccola tabaccheria, implicando ben altre competenze ed esperienze di maggior durata. Ancor più ingiustificabile è il credito dato, in modo a dir poco acritico, alle risposte della giovane quando, munita solo di un diploma di ragioneria ed avendo svolto i lavori su indicati, aveva risposto alle domande n.12 e 13 del questionario, affermando di conoscere le seguenti tipologie di strumenti finanziari/servizi di investimento ossia “Fondi comuni, SICAV, ETF, ETC, polizze Index Linked/Unit linked, Gestioni patrimoniali” ed ancora “Warrant, Covered warrant, certificates: ci si domanda dove potesse aver acquisito simili conoscenze, certamente non riconducibili al diploma di ragioneria, trattandosi di specifiche competenze che tutt’al più potrebbero ritenersi riferibili, come già detto, ad un laureato in economia. Peraltro, le risposte erano in parte anche contraddittorie posto che, da un lato, aveva dichiarato di conoscere i Covered Warrant o i Certificates, che sono sostanzialmente dei derivati in quanto sono valutabili in base all’andamento di altri asset, ma, dall’altra, aveva dichiarato, rispondendo alla domanda n. 14, di non conoscere cosa fossero i derivati. Tutte risposte improbabili e contraddittorie, che la Banca era certamente in condizioni di considerare tali, ma che aveva, invece, avallato, utilizzandole poi per la profilatura del livello di rischio attribuito alla cliente.

A giudizio del Collegio umbro è, dunque, evidente la negligenza nell’attività di profilatura.

Deve poi tenersi conto al riguardo anche delle risposte dalla stessa fornite alle domande n. 1 e 5 del questionario, laddove l’odierna appellante aveva affermato di voler effettuare degli investimenti con l’obiettivo di “proteggere nel tempo il capitale investito e ricevere flussi di cassa periodici (cedole, dividendi . . .) anche contenuti, costanti e prevedibili e, al tempo stesso, aveva affermato di essere disposta ad accettare solo la perdita di “una piccola parte del mio/nostro capitale investito: l’illiquidità delle azioni BPB non poteva considerarsi strumento idoneo a proteggere nel tempo il capitale investito e a comportare perdite solo di una piccola parte di esso, giacché, per i motivi su già evidenziati in punto di elevata rischiosità dei titoli illiquidi, la perdita anche significativa del capitale investito stanti soprattutto le notevoli difficoltà di smobilizzo delle azioni in questione, era circostanza prevedibile già all’atto dell’investimento.

Tenuto conto del profilo effettivo della cliente e della oggettiva illiquidità delle azioni BPB, con conseguente inquadrabilità di tali prodotti nella categoria degli investimenti ad alto rischio, la Banca non avrebbe dovuto proporre a un soggetto giovane e inesperto l’acquisto di un rilevante numero di azioni BPB del valore, molto elevato. Di conseguenza, deve disporsi la risoluzione di tale acquisto con condanna dell’appellata alla restituzione dell’importo impegnato, maggiorato degli interessi a decorrere dalla domanda e sino al saldo; l’appellante, invece, dovrà restituire alla le azioni BPB in suo possesso.

 

 

 

 

______________________________________________________________________

[1] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, n. 18293/2023.

[2] Cfr. App. Perugia, 16 settembre 2024.

Seguici sui social: