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Nota a Trib. Milano, Sez. VI, 4 novembre 2024, n. 9506.

Massima redazionale

In materia di contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio, si è autorevolmente affermato che la relativa questione attiene al merito della causa, ovverosia alla fondatezza della domanda, con la conseguenza che, sul piano dell’onere probatorio, ex art. 2697 c.c., la parte che promuove un giudizio è tenuta non solo a prospettare di essere parte attiva del giudizio, ai fini della legittimazione ad agire, ma deve poi anche provare di essere titolare della posizione giuridica soggettiva che la rende parte[1]. La legittimazione ad agire può, inoltre, secondo i principi affermati dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, essere provata in positivo dall’attore, ma può ritenersi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità.

Nella specifica ipotesi di contestazione della titolarità del credito in capo alla asserita cessionaria, «la parte che agisca affermandosi successore a titolo particolare del creditore originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco cui sia applicabile la speciale disciplina di cui al d.lgs. n. 385 del 1993, art. 58, ha anche l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria legittimazione sostanziale, salvo che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta»[2]. La Cassazione – con una interpretazione ancora più rigorosa della materia in esame – si è spinta oltre sul punto[3], affermando che nemmeno l’avviso di cessione pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ai sensi dell’art. 58, TUB sia sufficiente per provare il negozio traslativo e l’inclusione del credito nell’operazione di trasferimento “in blocco”, contrariamente all’orientamento prevalente presso le Corti di merito; in particolare, secondo la Suprema Corte, la pubblicazione dell’avviso di cessione sulla Gazzetta Ufficiale, sostituendosi al disposto dell’art 1264 c.c., ha quale unico effetto quello di escludere l’efficacia liberatoria del pagamento eseguito dal debitore ceduto al cedente dopo l’adempimento di tale onere pubblicitario.

Al di fuori dello schema stabilito dall’art. 58 TUB, la pubblicazione de quo né incide sul perfezionamento della fattispecie traslativa, né, tantomeno, risolve i conflitti tra cessionari di cui all’art. 1265 c.c. o tra cessionario e creditori del cedente. In altri termini, la norma citata, nella misura in cui stabilisce il momento dal quale il pagamento effettuato dal debitore al cedente non ha efficacia liberatoria, presuppone, senza tuttavia provare, che la cessione ci sia stata e che essa abbia avuto ad oggetto proprio quel particolare credito di cui il cessionario pretende il pagamento.

Facendo applicazione dei principi giurisprudenziali al caso in esame, alla luce della documentazione versata in atti, non può che affermarsi che l’odierna opposta abbia adeguatamente dato prova di essere l’effettiva titolare del credito per cui è causa. È pacifica e documentale che l’univocità del numero di riferimento della pratica, con l’indicazione dello specifico NDG. È, altresì, pacifico e non contestato che la codifica numerica riportata identifichi la posizione dopo che il relativo rapporto è “passato a sofferenza” presso la banca cedente[4].

Fatta questa premessa, si rileva che nell’elenco dei crediti oggetto di cessione, pubblicato mediante verbale di deposito presso il notaio, è indicato il numero NDG riferito alla posizione debitoria per cui è causa. Inoltre, nel caso in esame, a conferma della successione della cessionaria nei crediti vantati e monitoriamente azionati, parte opposta ha prodotto la dichiarazione della banca cedente, che ribadisce che il credito vantato nei confronti della società e relativo alla pratica sia stato effettivamente acquistato pro soluto in forza del contratto di cessione. In tal modo, la cessionaria si è conformata all’orientamento della Corte di Cassazione, che ha precisato come il cessionario potrà in ogni caso raggiungere la prova documentale necessaria, attraverso la produzione in giudizio di una dichiarazione ricognitiva della cessione, rilasciata da parte del creditore cedente[5]. Inoltre, la banca cedente intervenendo nel presente giudizio ha rafforzato la dichiarazione di avvenuta cessione prodotta dalla cessionaria, avendo ribadito in sede di costituzione in giudizio di avere ceduto la posizione a sofferenza, avente ad oggetto il credito nascente dalle linee di credito di cui al contratto di mutuo e successivi atti di erogazione e quietanza stipulati dall’opponente. A tale dichiarazione la Suprema Corte ha attributo significato probatorio parificabile al possesso del titolo su cui l’esecuzione è basata, elemento che, nell’ambito dei rapporti normalmente intercorrenti fra soggetti bancari, non può che giustificarsi con l’avvenuto trasferimento della posizione creditoria; a supporto di tale orientamento giurisprudenziale vi è l’intento di eliminare la farraginosità del sistema a beneficio di una procedura snella e semplificata di cessione di crediti in blocco conformemente alle intenzioni del legislatore.

Risulta, pertanto, superflua e meramente dilatoria la richiesta di esibizione del contratto di cessione atteso che il fatto dell’esistenza della stipula del contratto di cessione oltre a non essere contestato risulta documentato dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e dalla dichiarazione della cedente.

Peraltro, la contestazione della mancata dimostrazione dell’inclusione del credito azionato nell’ambito della cessione in blocco è stata superata dalla documentazione prodotta rispetto alla quale la produzione del contratto di cessione dei crediti non avrebbe avuto efficacia probatoria dirimente in quanto all’interno del contratto di cessione sono elencati criteri identificativi dei crediti oggetto della cessione, ma non sono elencati i singoli crediti ceduti. Tali argomentazioni giustificano il rigetto dell’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c. del contratto di cessione dei crediti ribadita anche all’udienza di discussione orale ai sensi dell’art. 281sexies c.p.c..

Per quanto sopra esposto deve essere ritenuta infondata l’eccezione di carenza di legittimazione sostanziale attiva della società opposta in ordine alla titolarità del credito fatto valere con il decreto ingiuntivo opposto.

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Parte opponente eccepisce la nullità del contratto di finanziamento e dei successivi contratti per la presenza di clausole vessatorie ed abusive. In particolare, l’art. 1 del contratto di mutuo il calcolo degli interessi è “vessatorio, abusivo oltre che usurario”. Inoltre, l’opponente contesta la vessatorietà delle clausole richiamate dall’art. 2 del medesimo contratto, le quali risultano prive di apposita sottoscrizione.

L’eccezione è infondata.

A ben vedere, infatti, l’ambito di applicazione delle disposizioni contenute nelle Sezioni da I a IV del Capo, relativo ai “diritti dei consumatori nei contratti”, del Codice del Consumo, va ricostruito attraverso un’operazione ermeneutica che tiene conto non solo di quanto previsto dall’art. 46 cod. cons., ma anche delle definizioni dettate dall’art. 45 cod. cons. e, per sottrazione, del regime di esclusione di cui al successivo art. 47 cod. cons. In ogni caso, sotto il profilo soggettivo, l’art. 46 cod. cons. si applica soltanto con riferimento ai rapporti conclusi tra consumatore e professionista, in proprio o tramite soggetto che agisca in suo nome o per suo conto. Va, comunque, escluso lo status di consumatore nel caso di contraente che agisca nell’ambito della propria attività professionale, anche qualora gli atti giuridici posti in essere con costituiscano esercizio della professione, purché risultino comunque necessari o utili al compimento dell’attività professionale medesima.

Ebbene, nel contratto di mutuo stipulato, la società mutuataria, nelle premesse, dichiarava: “ai sensi e per gli effetti degli artt. 1469 bis e ss. c.c. e 121 TUB che il presente finanziamento viene da essa richiesto nella qualità di “Società Immobiliare” e, quindi, per scopi inerenti l’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale svolta”.

Tale dichiarazione, quindi, esclude l’applicabilità della disciplina dettata dagli artt. 33 e ss. del codice del consumo – invocata dall’opponente per affermare l’invalidità delle clausole contrattuali, considerato che l’attore non riveste la qualifica di consumatore, ma al contrario è una società che agisce nell’ambito della propria attività professionale.

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L’eccezione di nullità del contratto, per superamento della soglia legale del tasso di interesse e per anatocismo, è infondata in quanto deve ritenersi affetta da insanabile genericità. Parte opponente non ha fornito alcuna indicazione specifica in ordine ai modi, ai tempi e alla misura in cui si sarebbe verificato in concreto il superamento del tasso soglia con riferimento al rapporto oggetto di causa. Deve sul punto trovare applicazione il condiviso principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la contestazione della natura usuraria dei tassi avrebbe dovuto comportare, da parte dell’opponente, la necessità di indicare in sede di merito la pattuizione originaria, le somme pagate ogni anno a titolo di interessi e non solo l’aliquota, il tutto in rapporto al capitale oggetto del finanziamento. Tra l’altro, solo dal confronto tra quanto è stato pagato e quanto si sarebbe dovuto pagare applicando un tasso di interesse legale si può arrivare a comprendere se vi sia stata o meno applicazione di un tasso usurario[6].

Da ultimo, anche le Sezioni unite hanno confermato che “l’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 2697 c.c. si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto»[7].

Applicando, dunque, i suddetti principi al caso di specie, è agevole rilevare come l’odierno opponente, nell’atto introduttivo del giudizio e nei successivi scritti, non abbia assolto in modo analitico ed esaustivo all’onere di dedurre le allegazioni in fatto del superamento della soglia usura e dell’effetto anatocistico prodotto a cui ha fatto riferimento soltanto nelle conclusioni dell’atto di citazione e non ha in alcun modo allegato circostanze di fatto nel corpo dell’atto introduttivo, né, tantomeno, le ha specificate e chiarite nella memoria ex art. 171ter, n. 1, c.p.c. deputata alla precisazione delle domande ed eccezioni già proposte.

Per tali ragioni è stata ritenuta superflua la CTU contabile richiesta da parte opponente.

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Parte opponente ha eccepito l’indeterminatezza del tasso di interesse con conseguente nullità parziale del contratto di mutuo a causa della discrasia tra il tasso di interesse nominale (del 5,60%), indicato nel contratto di mutuo, e quello determinato dal “piano di ammortamento ricalcolato” (pari al 5,678%), oltre alla “truffa contrattuale nota come truffa “Euribor””, avente ad oggetto i contratti di mutuo conclusi fra il 29.9.2005 ed il 30.5.2008, fra cui rientra il contratto di mutuo in esame (in quanto stipulato il 15.4.2008).

Ebbene, quanto al primo profilo, il Tribunale meneghino ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni, per escludere qualsiasi correlazione fra la divergenza ed il fenomeno anatocistico e per escludere la nullità del contratto. Come già chiarito in controversie analoghe, il tasso annuo nominale è il tasso puro applicato ad un finanziamento, indicando “il reale prezzo del servizio ricevuto, cioè il prezzo della disponibilità di una somma di denaro per un certo intervallo di tempo. Esso non tiene conto degli oneri aggiuntivi e accessori connessi all’operazione e nemmeno degli interessi ottenuti da eventuali capitalizzazioni infrannuali. Lo stesso, in sostanza, non corrisponde al tasso d’interesse realmente applicato al finanziamento, bensì, al tasso effettivo periodale moltiplicato per il numero di periodi espresso in termini annui, così come applicato nelle operazioni di finanziamento dagli intermediari finanziari. Riguardo alla discrasia tra i due indici, la stessa si spiega poiché, laddove i pagamenti siano previsti con periodicità infrannuale, la quantificazione degli interessi verrà calcolata tenendo conto di quanto pagato a tale titolo in precedenza con gli altri versamenti effettuati nell’anno. Le due grandezze, TAE e TAN, non sono dunque alternative tra loro, ma coesistono e non possono essere identiche. Nei contratti di mutuo, infatti, al TAE si perviene dopo aver concordato il TAN e la periodicità delle rate di rimborso. Al riguardo, la giurisprudenza ha rimarcato la distinzione tra il concetto “giuridico” di tasso d’interesse ed il concetto “economico” di costo materiale dell’operazione di prestito (che dipende da una pluralità di fattori, ivi compresa la periodicità delle rate). La differenza tra TAN e TAE è la normale conseguenza del fatto che, nei piani di ammortamento di prestiti e mutui, l’interesse annuale generalmente non viene pagato in un’unica soluzione a fine anno, ma ripartito su ogni rata infrannuale in scadenza; la corresponsione anticipata delle rate rispetto alla scadenza annuale comporta che il costo effettivo da interessi del finanziamento per il contraente non è pari al tasso annuale stabilito da contratto, ma (lievemente) maggiore. Va da sé che, laddove vi sia una tale periodicità della rata, l’eventuale maggiore onere palesato dal tasso effettivo non equivale ad un reale incremento del corrispettivo per l’utilizzatore, ma costituisce un costo contabile per il debitore senza alcuna incidenza sul sinallagma.

Ad ogni modo, la mancata specificazione del TAE nel contratto di certo non rientra nelle ipotesi previste dall’ordinamento quali causa di nullità, né, tantomeno, può ritenersi che in presenza di tutte le altre condizioni economiche pattuite in contratto, abbia reso il tasso corrispettivo indeterminato o indeterminabile in violazione dell’art. 1346 c.c.

Del pari, deve ritenersi infondata la seconda questione, relativa alla inclusione del contratto di mutuo “nella casistica della “Truffa Euribor”, relativamente alla quale parte opponente si limita a richiamare pronunce giurisprudenziali e trasmissioni televisive in cui sarebbe stata affrontata la questione, senza chiarire con riferimento al caso concreto e, quindi, al contratto di mutuo in esame in cosa sia consistita l’asserita truffa.

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La doglianza relativa alla omessa indicazione del piano di ammortamento nel contratto di mutuo ostativa alla conoscenza degli interessi dovuti è del tutto infondata in quanto incompatibile con la specificità del contratto di mutuo stipulato. Il contratto di mutuo in esame era un “finanziamento edilizio” con garanzia ipotecaria concesso “per finanziare la costruzione dell’immobile di cui all’art. 12 nonché per agevolare lo smobilizzo delle unità immobiliari costruite. Nel corso dei lavori la banca addiverrà, fermo l’adempimento delle previste condizioni, a parziali erogazioni in preammortamento… In caso di erogazione in preammortamento dovrà essere corrisposto alla Banca, a partire dalla data dell’effettiva consegna o svincolo della somma mutuata, l’interesse nella misura e con le modalità che verranno stabilite nell’atto di erogazione medesimo. La si riserva la facoltà di effettuare le singole erogazioni parziali mediante la stipulazione di atti pubblici” (art. 3 contratto di mutuo). La banca ha depositato i singoli atti di quietanza delle erogazioni parziali del mutuo con allegati i piani di ammortamento da cui emergono chiaramente sia il riferimento alla tipologia di piano di ammortamento “alla francese” che i tassi applicati con l’indicazione della tipologia di tasso “variabile”, il TAEG e il parametro di indicizzazione.

Le caratteristiche particolari del contratto di mutuo oggetto di causa rendono del tutto infondate le doglianze sollevate da parte opponente relative alla omessa indicazione del piano di ammortamento, considerato che in allegato ai singoli atti di erogazione parziale del mutuo sono stati allegati i piani di ammortamento.

 

 

 

 

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[1] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 16.02.2016, n. 2951.

[2] Cfr. Cass. n. 24798/2020.

[3] Il riferimento è a Cass. n. 22754/2022.

[4] Tale circostanza si evince incontrovertibilmente dalla documentazione contabile rilasciata dalla cedente ed allegata in sede monitoria, debitamente certificata ex art. 50 TUB.

[5] Cfr. Cass. n. 10200/2021.

[6] Cfr. Cass. n. 2311/2018.

[7] Cfr. Cass. n. 15597/2020.

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