Nota a Trib. Napoli, Sez. II, 9 febbraio 2023.
Il provvedimento di Banca d’Italia n. 55/2005 costituisce una prova privilegiata dell’esistenza di una intesa anticoncorrenziale. Nel caso di specie, per tutti i motivi analiticamente ivi esposti, deve concludersi che lo schema contrattuale di fideiussione omnibus elaborato dall’ABI nel 2003 contiene disposizioni illecite, che violano l’art. 2, comma 2, lett. a) l. n. 287/1990. Le clausole lesive della concorrenza sono precisamente quelle contenute negli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI.
Ciò posto, deve prendersi atto della sentenza delle Sezioni Unite Civili[1], ove è stato affermato che «i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) e art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della Legge succitata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti». Ne consegue che sono nulle le omologhe clausole contenute nelle fideiussioni stipulate, che hanno dato attuazione all’intesa anticoncorrenziale conclusa “a monte” tra le banche. Il rapporto di “derivazione” tra l’intesa anticoncorrenziale e il contratto per cui è causa trova riscontro probatorio non solo nella conformità del testo, ma anche nella contiguità temporale tra le condotte anticoncorrenziali accertate dall’ABI e le fideiussioni rilasciate nel 2006, non essendo per converso stata fornita alcuna prova contraria da parte della Banca opposta rispetto alla cennata prova privilegiata.
Per il principio della conservazione degli atti, valutato l’oggetto e il contenuto complessivo della fideiussione, non può ritenersi provata l’esistenza della condizione posta dall’art. 1419 c.c.: non risulta, cioè, che le parti non avrebbero concluso la fideiussione senza le clausole nn. 2, 6 e 8 (non vi è prova che la banca avrebbe preferito non avere nessuna fideiussione piuttosto che avere una fideiussione priva di quelle tre clausole; non vi è prova che il garante non avrebbe rilasciato la fideiussione senza le tre clausole il cui contenuto era favorevole alla controparte).
Parte opponente ha eccepito che, in conseguenza della invalidità della clausola 6 (che derogava alla previsione normativa contenuta nell’art. 1957 c.c.), la fideiussione avesse perso efficacia, in quanto la Banca non aveva provveduto a escutere il debitore entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione. L’eccezione è fondata. È documentato (e non contestato) che l’obbligazione è scaduta il 21.05.2019, mentre l’Istituto ha agito nei confronti della debitrice principale, mediante notifica del precetto, solo il 4.3.2021. La violazione del termine previsto dall’art. 1957 c.c. comporta ex lege la perdita di efficacia della fideiussione.
Sul significato del termine “istanze” contenuto nell’art. 1957 c.c., l’orientamento della giurisprudenza è ormai consolidato: la norma che impone al creditore di proporre e di coltivare la sua istanza contro il debitore entro sei mesi dalla scadenza per l’adempimento dell’obbligazione garantita dal fideiussore (a pena di decadenza dal suo diritto verso quest’ultimo) tende a far sì che il creditore stesso prenda sollecite e serie iniziative contro il debitore principale per recuperare il proprio credito, in modo che la posizione del garante non resti indefinitamente sospesa. Il termine “istanza” si riferisce ai vari mezzi di tutela giurisdizionale del diritto di credito, in via di cognizione o di esecuzione, che possano ritenersi esperibili al fine di conseguire il pagamento, indipendentemente dal loro esito e dalla loro idoneità a sortire il risultato sperato; l’invio di una raccomandata di diffida o anche di un precetto non seguito da esecuzione non costituisce “istanza” ai fini dell’art. 1957 c.c.
Il decreto ingiuntivo va pertanto integralmente revocato.
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[1] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., 30.12.2021, n. 41994.
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