Nota a Trib. Lecce, 7 settembre 2021, n. 2407.
di Antonio Zurlo
Con la sentenza in oggetto, il Tribunale leccese, in via preliminare, evidenzia come il soggetto impegnato in attività di intermediazione finanziaria, ai sensi del TUF e del Reg. Consob n. 11522/98, sia gravato da un duplice obbligo informativo, integrato, da un lato, dalla necessità di illustrare i rischi dell’operazione e, dall’altro, da quella di acquisire dal cliente le informazioni utili a valutare l’adeguatezza dell’operazione richiesta e dalla conseguente, successiva, astensione dal porre in essere l’operazione ove inadeguata rispetto al profilo del medesimo.
In particolare, il collocatore è tenuto ad acquisire contezza del tipo di prodotto finanziario negoziato e del profilo di rischio da attribuire al cliente, nonché a informare il medesimo in ordine alla tipologia e all’affidabilità dell’investimento, nonché all’adeguatezza dello stesso al suo profilo di rischio; alcuna incidenza rispetto ai prefati obblighi assume la circostanza che l’investimento sia stato proposto dalla Banca o, in maniera non dissimile, che sia stato lo stesso cliente – investitore a ordinare le operazioni da effettuare: invero, l’ambito oggettivo delle disposizioni concernenti le informazioni trova applicazione in tutti i servizi di investimento prestati nei confronti di qualsiasi investitore, che non sia un operatore qualificato, non solo laddove sia ravvisabile una discrezionalità dell’intermediario (come, a titolo esemplificativo, avviene nel caso di contratti di gestione di portafogli di investimento), ma anche ove il servizio prestato dall’intermediario consista nella mera esecuzione degli ordini[1].
Ciò premesso, con precipuo riferimento alla ripartizione dell’onere probatorio, circa l’avvenuto adempimento di tali obblighi, l’art. 23, comma 6, TUF dispone che nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetti ai soggetti abilitati comprovare di aver agito con la specifica diligenza richiesta, gravando sull’investitore la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l’inadempimento, anche sulla base di presunzioni[2]; peraltro, la circostanza che l’ordinante sia un risparmiatore esperto non elide l’obbligo della Banca di fornire (in qualità di intermediario finanziario) informazioni sui titoli da acquistare[3].
Del pari, le attività “informative”, sottese all’adempimento di detti obblighi, trovano la propria collocazione temporale “a monte” dell’acquisto dei titoli (o dei fondi), e non già nel periodo successivo all’acquisto, salvo che sia stato concluso fra intermediario e investitore un contratto di consulenza o di gestione patrimoniale, nel quale l’obbligo periodico di informazione sia connesso all’autonomia di gestione caratterizzante l’operato della Banca. A tal riguardo, il Reg. Consob n. 11522/1998 contempla soltanto l’inoltro dell’informazione al cliente dell’esecuzione dell’operazione, salvo che, in alternativa, nel contratto relativo alla prestazione dei servizi di negoziazione e di ricezione e trasmissione di ordini, non sia previsto un rendiconto mensile. Né si può ritenere che un obbligo di informazione sia comunque riconducibile, nella materia in esame, ai generali doveri di correttezza, buona fede e diligenza; ciò non solo perché la disciplina di dettaglio contenuta nel regolamento riduce naturalmente il campo di applicazione delle clausole generali, ma soprattutto perché, al di fuori di un servizio di consulenza o di gestione patrimoniale, dopo l’erogazione del servizio si è esaurita l’attività dell’intermediario con riferimento all’ordine eseguito[4].
Nel caso di specie, il CTU, nelle proprie osservazioni, ha rilevato che la Banca non avesse comprovato, per alcuna delle operazioni, mediante esibizione di apposita documentazione, l’avvenuto previo adempimento agli obblighi di profilazione e classificazione del cliente e alla connessa verifica dell’adeguatezza degli investimenti ai dati suddetti, limitandosi ad acquisire contezza della natura degli strumenti finanziari negoziati, senza, pur tuttavia, informare adeguatamente l’investitore delle caratteristiche dei medesimi; sul punto, il perito di parte non ha contestato tale dato documentale, ponendo, per contro, l’accento sul significativo grado di esperienza del cliente – investitore, nonché sulla spiccata propensione al rischio, attestata dalla familiarità con strumenti finanziari connotati da un’aleatorietà non contenuta. In tal senso, il CTU, raffrontando il benchmark dei fondi comuni oggetto del disinvestimento con quello dei fondi cui il cliente aveva successivamente aderito, ha ulteriormente evidenziato come la quasi totalità delle operazioni oggetto di contestazione avessero comportato il passaggio a un grado di rischio superiore rispetto a quello pregresso.
Alla stregua di tali risultanze, il giudice leccese non può non accertare che la condotta contrattuale posta in essere dai promotori dell’Istituto sia collidente con i parametri di diligenza riferibili all’operatore qualificato e delineati dalle prefate previsioni normative e regolamentari, conseguendo la sussistenza del diritto al risarcimento del danno subito, in capo al cliente.
Come esplicitato dalla giurisprudenza di legittimità, «nella prestazione del servizio di negoziazione di titoli, qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, il danno risarcibile consiste nell’essere stato posto a carico di detto cliente un rischio, che presumibilmente egli non si sarebbe accollato»[5]; ancora, «sussiste una presunzione dell’esistenza del nesso di causalità, quanto alla avvenuta effettuazione di una scelta non consapevole da parte dell’investitore, i cui effetti pregiudizievoli non possono pertanto essere ascritti alla sua volontà solo se non risulti che, dopo l’acquisto, ma già prima della proposizione di detta domanda, il cliente, avendo avuto la possibilità con l’uso dell’ordinaria diligenza di rendersi autonomamente conto della rischiosità dei titoli acquistati, né sussistendo impedimenti giuridici o di fatto al disinvestimento, li abbia, tuttavia, conservati nel proprio patrimonio»[6].
[1] Il giudice leccese rileva come deponga in tal senso la definizione stessa della nozione di “servizi ed attività di investimento”, di cui all’art. 21 del D.lgs. n. 58/98, data dall’art. 1 comma 5 lett. b) del decreto, che ricomprende i servizi di “esecuzione di ordini per conto dei clienti” aventi ad oggetto strumenti finanziari.
[2] Cfr. Cass. n. 810/16; Cass. n. 18039/12.
[3] Cfr. Cass. n. 10112/21, già annotata in questa Rivista.
[4] Cfr. Cass. n. 2185/13.
[5] Cfr. Cass. n. 29353/18.
[6] Cfr. Cass. n. 29864/2011; Cass. n. 28810/2013; Cass. n. 30902/2017; Cass. n. 10286/2018; Cass. n. 29353/2018.
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Info sull'autore
Associato dello Studio Legale "Greco Gigante & Partners" (https://studiolegalegrecogigante.it/). Cultore della materia di Diritto Privato e di Diritto del Risparmio, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Salento.