Nota a Trib. Bari, Sez. IV, 23 ottobre 2024, n. 4284.
Massima redazionale
In relazione al diritto azionato con la domanda di risoluzione, va disattesa l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla Banca in relazione al termine quinquennale, non applicabile alla responsabilità contrattuale, per la quale opera il termine decennale, come più volte ribadito dalla Suprema Corte[1], alla luce della tempestiva interruzione del predetto termine operata con il reclamo.
Ciò premesso, in ordine alla natura dell’investimento, le azioni e le obbligazioni della convenuta rientrano, per pacifica ammissione di entrambe le parti, nella fattispecie delle azioni non quotate in Borsa che, di fatto, per le loro caratteristiche devono essere considerate come titoli con un profilo di rischio alto o, quantomeno, medio-alto ed assimilabili a titoli illiquidi ovvero a titoli per i quali vi è una potenziale difficoltà di liquidazione (ovvero titoli che determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, a condizioni di prezzo significative, ossia tali da garantire buona pluralità di interessi in acquisto e vendita). Tali azioni, infatti, presentano un peculiare rischio di monetizzazione, essendo scambiabili, non già in un mercato regolamentato, bensì tra la stessa banca emittente o direttamente tra i soci-azionisti, con conseguente ben maggiore difficoltà di trasferimento e di recupero delle somme impiegate nell’acquisto. D’altra parte, tale valutazione d’illiquidità prescinde dal rischio in concreto verificatosi ex post o dalla maggiore solidità dell’Istituto all’atto dell’acquisto, dovendo ricondursi all’astratto rischio di criticità del trasferimento, elemento informativo imprescindibile per la ponderata determinazione dell’investitore.
È indiscussa, altresì, la sussistenza di situazione di conflitto di interesse, trattandosi di titoli emessi e collocati dal medesimo istituto di credito. In forza di tali rilievi, relativamente all’operazione del 28.07.2009, disciplinata dal contratto quadro del 1999, parte attrice sino al 2011 non disponeva di profilatura del cliente, essendosi questi rifiutato di fornire informazioni in sede di sottoscrizione del contratto quadro del 1999. Per tali ragioni l’Istituto di credito avrebbe dovuto classificare il cliente con profilo di rischio basso. Non va, del resto, ignorato che l’entrata in vigore del Regolamento Consob n. 16190/2007, conseguente alla Direttiva MiFID, avrebbe reso indubbiamente necessario un rinnovo dell’invito a rilasciare dichiarazioni ed un adeguamento della profilatura, nella specie non verificatosi.
In relazione alle operazioni successive, la Banca ha prodotto i questionari di profilatura MiFID del 2011 e del 2014, nei quali l’attore ha reso le medesime dichiarazioni: i) avere come obiettivo di investimento una “crescita del capitale nel medio-lungo periodo, pur accettando il rischio di perderlo in parte”; ii) accettare la perdita di “una parte media del mio/nostro capitale investito”; iii) avere un reddito annuo “fino a 50.000,00” che rappresenta lo scaglione minimo fra quelli opzionabili; iv) avere una consistenza patrimoniale: “fino a 200.000,00 euro”, che rappresenta lo scaglione più basso fra quelli opzionabili; v) avere conoscenza di tutti gli strumenti finanziari eccetto i derivati; vi) di aver investito precedentemente “anche solo in azioni o fondi azionari”; vii) di effettuate “meno di una operazione a trimestre” in strumenti finanziari. All’esito delle suddette profilature, la Banca ha attribuito all’attore un profilo di rischio “Medio-Alto” come si evince dal contratto quadro del 2011, successivamente mutato in “Medio” a seguito della profilatura del 2014.
Orbene, gli investimenti azionari e obbligazionari, in ragione della natura illiquida dei titoli e della elevata rischiosità, relativa astrattamente anche all’intero capitale, non possono ritenersi compatibili con l’obiettivo dichiarato dal di voler proteggere nel tempo il capitale, rischiandone solo una parte. L’inconciliabilità della scelta con il profilo di rischio del cliente, circostanza che peraltro fa dubitare delle competenze dichiarate e di cui l’Istituto di Credito non poteva non essere consapevole, induce pertanto a ritenere non adeguate le operazioni al profilo dell’investitore, con specifico riferimento agli obiettivi di investimento. Tale criticità della scelta, del resto, non risulta affatto segnalata dalla convenuta, che ha invero richiamato l’attenzione della investitrice, già socia, sulla seconda operazione del 28.12.2012, in ragione dell’eccessiva concentrazione della partecipazione azionaria (maggiore della soglia del 60%) relativa al medesimo emittente, ma non ha giammai specificamente evidenziato, all’atto di tutti gli acquisti, che le azioni, in quanto titoli illiquidi, sia pur astrattamente descritti come tipologia nel documento generale sui rischi per gli investitori, non erano compatibili con il dichiarato profilo di rischio del cliente.
Va osservato, al riguardo, che, secondo le norme dettate dalla c.d. Direttiva MIFID, il rapporto tra la banca e il cliente non deve essere considerato in maniera confliggente, bensì secondo una linea di assistenza e supporto. La pluralità degli obblighi facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie (obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza, obbligo di informazione, obbligo di evidenziare l’inadeguatezza dell’operazione che si va a compiere) convergono verso un fine unitario: segnalare all’investitore la non adeguatezza delle operazioni di acquisto di prodotti finanziari che si accinge a compiere. In ordine alle obbligazioni “28/2/18 7%” acquistate dall’attore, occorre, oltretutto, rilevare che trattasi di obbligazioni convertibili in azioni ordinarie, con facoltà in capo alla Banca di conversione anticipata (facoltà di fatto esercitata in data 01.09. 2014), connaturate dallo stesso profilo di rischio dell’azione corrispondente, ovvero “alto”, diversamente da quanto indicato dalla Banca nel prospetto informativo relativo alle suddette obbligazioni, nel quale riportava un rischio “medio”. Sul punto, va, pertanto, richiamato il condivisibile principio di legittimità secondo cui «in tema di intermediazione nella vendita di strumenti finanziari, gli obblighi di comportamento sanciti dall’art. 21 del d.lgs. n. 58 del 1998 e dalla normativa secondaria contenuta nel reg. n. 11522 del 1998, sorgono sia nella fase che precede la stipulazione del contratto quadro (come quello di consegnare il documento informativo sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari e di acquisire le informazioni sull’investitore circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento e la sua propensione al rischio), sia dopo la sua conclusione (è il caso dell’obbligo d’informazione cd. attiva circa la natura, i rischi e le implicazioni della singola operazione, di astenersi dal porre in esecuzione operazioni inadeguate e di quelli che sono correlati alle situazioni di conflitto di interessi). Tutti i descritti obblighi, finalizzati al rispetto della clausola generale che impone all’intermediario il dovere di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell’interesse del cliente, assumono rilevanza per effetto dei singoli ordini di investimento, che costituiscono negozi autonomi rispetto al contratto quadro originariamente stipulato dall’investitore»[2].
Alla stregua dei richiamati obblighi di informazione attiva nella fase di conclusione dei singoli negozi di acquisto, di segnalazione d’inadeguatezza ed astensione dall’esecuzione, nel caso di specie non osservati, ricorre inadempimento colpevole della convenuta, tale da giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione, ai sensi dell’art.1453 c.c.
Il rilievo, di per sé assorbente, esime dal valutare gli ulteriori addebiti.
Di talché, il Tribunale barese condanna la Banca convenuta alla restituzione della somma investita, non residuando allo stato alcun valore attribuibile alle predette azioni, decurtata di quanto riscosso dei dividendi e cedole percepiti dall’attore[3]. L’accoglimento della sola domanda restitutoria esime dal valutare l’allegazione della convenuta dell’asserita colpa concorrente dell’attore nella causazione del danno.
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[1] Cfr. Cass. n. 8997/2021; Cass. n. 12937/2017.
[2] Cfr. Cass. n.20617/2017.
[3] Con la risoluzione del contratto, infatti, si ingenerano tra le parti reciproci obblighi restitutori, in conseguenza degli effetti retroattivi della risoluzione ex art. 1458 c.c., dovendo l’intermediario restituire il capitale investito e l’investitore i titoli acquistati (cfr. Cass. civ., sez. I, 30.01.2019 n. 2661), secondo le regole dell’indebito oggettivo. Non spetta, invece, la rivalutazione. In proposito, giova considerare che è principio consolidato in giurisprudenza quello per cui «il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta» (tra le altre, Cassazione civile sez. un., 23 marzo 2015, n.5743). Orbene, attesa la natura di debito di valuta dell’obbligazione restitutoria per cui è causa (cfr. Cassazione civile sez. II, 04 giugno 2018, n.14289) e stante la mancata dimostrazione di danni eccedenti l’ammontare degli interessi legali riconosciuti, la domanda proposta è in parte qua infondata e va rigettata.
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