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Nota a Cass. Civ., Sez. I, 14 dicembre 2023, n. 34997.

di Antonio Zurlo

Studio Legale Greco Gigante & Partners

«Cuius commoda, eius et incommoda»

(Di chi [sono] i vantaggi, suoi [sono] anche gli svantaggi)

 

Nella specie, la Corte territoriale, dopo aver rilevato che spettava all’appellata dar prova dell’esistenza di un contratto di apertura di credito, ha rilevato che detta prova non poteva essere fornita facendo ricorso alle presunzioni, in quanto «occorre avere la certezza di quale sia il limite dell’affidamento concesso, oltre il quale ogni rimessa [avrebbe] carattere solutorio, con tutte le conseguenze ad esso ricollegate».

Ora, per certo, gli aventi causa della società correntista, subentrati nella posizione di questa, non erano tenuti a dar prova scritta dell’apertura di credito. Come emerge dalla sentenza impugnata i rapporti di conto corrente sorsero nel 1977; in conseguenza, la coeva conclusione di un contratto di apertura di credito non avrebbe dovuto documentarsi per iscritto a pena di nullità: nel regime previgente all’entrata in vigore dell’art. 3 l. n. 154/1992, il quale ha imposto l’obbligo della forma scritta ai contratti relativi alle operazioni e ai servizi bancari, era consentita la conclusione per facta concludentia di un contratto di apertura di credito, alla luce del comportamento rilevante della banca[1].

Nella vigenza del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia del 1993, la nullità per il difetto di forma di cui all’art. 117, comma 1, TUB integra una nullità di protezione, potendo essa operare «soltanto a vantaggio del cliente»[2]: il mancato rispetto dell’obbligo di documentazione dell’accordo è inopponibile al correntista che non abbia inteso far valere il vizio che affligge il negozio.

Non merita, inoltre, condivisione l’affermazione della Corte d’Appello per cui sarebbe preclusa la dimostrazione per presunzioni del contratto di apertura di credito. Le presunzioni semplici sono sicuramente delle prove, essendo significativamente definite alla stregua di «prove indirette» o «prove critiche». L’art. 2725 c.c. è evidentemente inapplicabile ai contratti di apertura di credito conclusi in epoca in cui i medesimi non dovevano stipularsi per iscritto a pena di nullità. Ma non lo è nemmeno nei confronti di quei contratti conclusi nel vigore del testo unico bancario in una forma diversa da quella scritta, ove il cliente della banca decida di non opporre la nullità: poiché la nullità de qua opera «soltanto a vantaggio del cliente», l’obbligo di forma posto ex art. 117, comma 1, la cui inosservanza è sanzionata con la nullità del contratto, non ha modo di operare ove la controparte della banca intenda avvalersi del contratto stesso, con ciò rinunciando ad invocare in giudizio il vizio che affligge il negozio. Né rileva che a norma dell’art. 127, comma 2, TUB la nullità di protezione possa essere rilevata d’ufficio dal giudice. Infatti, se la rilevazione ex officio delle nullità negoziali, intesa come indicazione alle parti di tale vizio, è sempre obbligatoria, purché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata «ragione più liquida», la loro «dichiarazione», ove sia mancata un’espressa domanda della parte pure all’esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa del medesimo vizio, previo suo accertamento: sempre che, però, non vengano in questione (come nel caso in esame) nullità speciali, le quali presuppongono una manifestazione di interesse della parte[3].

Se, dunque, rientra nella disponibilità esclusiva del cliente della banca la scelta se far valere o meno in giudizio un contratto privo del requisito di forma, ciò significa, di riflesso, che al cliente che invochi il detto contratto non si può opporre l’onere di darne prova documentale, onde la conclusione del negozio ben potrà da lui fornirsi attraverso presunzioni, senza incontrare il limite segnato dall’art. 2724, n. 3), c.c., cui rinvia l’art. 2725.

È vero che, secondo la giurisprudenza di legittimtà, l’esistenza di un contratto di apertura di credito bancario non può essere ricavata, per facta concludentia, dalla mera tolleranza di una situazione di scoperto[4] e che, in particolare, una situazione di fatto caratterizzata dallo svolgimento di un conto passivo con adempimenti reiterati, da parte della banca, di ordini di pagamento del correntista (anche in assenza di provvista e nell’ambito dei limiti di rischio dalla stessa banca preventivamente valutati) non dimostra in sé la stipulazione, per fatti concludenti, di un contratto di apertura di credito in conto corrente, con obbligo della banca di eseguire operazioni di credito passive, potendo la suddetta situazione di fatto trovare fondamento in una posizione di mera tolleranza da parte della banca stessa[5]. Ciò non significa, tuttavia, che sia impedita la prova per presunzioni dell’apertura di credito: significa, piuttosto, che una presunzione, quanto all’esistenza dell’apertura di credito, non possa trarsi dalle descritte situazioni. Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale non fa cenno ai limiti interni della prova per presunzioni, limitandosi a escludere, in via generale e astratta, che possa farsi ricorso alla medesima per dimostrare il contratto di apertura di credito.

L’inutilizzabilità della prova per presunzioni non trova fondamento nemmeno del rilievo per cui nella fattispecie occorreva aver certezza quanto al limite dell’affidamento. Poiché (nella prospettiva sopra indicata, ovverosia avendo riguardo alla disciplina anteriore alla l. n. 154/1992 e al regime della nullità di protezione) la pattuizione di un obbligo della banca di eseguire operazioni di credito bancario passive può emergere dallo stesso contegno della stessa nella gestione del conto, la predeterminazione del limite massimo della somma accreditabile non costituisce elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito in conto corrente[6]. A fronte di presunzioni gravi, precise e concordanti quanto al reciproco consenso manifestato dalle parti in ordine alla messa a disposizione della provvista con cui far fronte a scoperti del conto non rileva che le parti abbiano mancato di individuare il limite delle somme che la banca avrebbe temporaneamente accreditato al cliente: lo scoperto che la banca ha in concreto consentito ben può rappresentare espressione della volontà di concedere un’apertura di credito per somma pari a tale valore monetario (resta ovviamente demandato al giudice del merito, e quindi, nel caso in esame, a quello del rinvio, l’accertamento circa l’esistenza di un’effettiva volontà negoziale nel senso sopra indicato).

Non appare da ultimo decisivo il rilievo, secondo cui gli elementi valorizzati dal Tribunale quanto alla prova dell’esistenza di un affidamento (segnatamente, la concessione di castelletti di sconto e di accreditamento) non erano idonei a far presumere la concessione di un’apertura di credito in conto corrente, realizzando essi una funzione diversa da quella propria di quest’ultimo contratto. Si deve osservare, al riguardo, che la verifica circa l’esistenza o meno dell’apertura di credito andava condotta prendendo in considerazione le diverse circostanze da cui essa potesse desumersi.

*****

In conclusione, la Prima Sezione Civile statuisce il principio di diritto per cui:

«In tema di prescrizione del diritto alla ripetizione di somme affluite sul conto corrente, la prova della natura ripristinatoria delle rimesse, di cui è onerato il correntista, come i suoi avente causa, può essere fornita dando riscontro, attraverso presunzioni, della conclusione del contratto di apertura di credito, quando tale contratto sia stato concluso prima dell’entrata in vigore della l. n. 154 del 1992 e del d.lgs. n. 385/1993, o quando, pur operando, per il periodo successivo a quest’ultima disciplina, la nullità del contratto per vizio di forma, il correntista o il suo avente causa non facciano valere, a norma dell’art. 127, comma 2, d.lgs. cit., la nullità stessa».

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[1] Cfr. Cass. 24 giugno 2008, n. 17090.

[2] V. art. 127, comma 2, TUB.

[3] Cfr. Cass. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243; Cass. 13 dicembre 2021, n. 39437.

[4] Cfr. Cass. 28 luglio 1999, n. 8160.

[5] Cfr. Cass. 5 dicembre 1992, n. 12947.

[6] Cfr. Cass. 23 aprile 1996, n. 3842.

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