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Nota a Cass. Civ., Sez. I, 26 giugno 2023, n. 17982.

di Valentino Vecchi

Valentino Vecchi & Partners

Tema assai ricorrente nei giudizi che vedono i correntisti agire contro gli istituti di credito onde ottenere la restituzione di interessi e altre competenze pagati alla banca (in tesi) indebitamente concerne l’eventuale prescrizione del diritto attoreo per decorso del termine decennale, questione che assume massima rilevanza allorquando l’accensione del rapporto bancario oggetto delle doglianze attoree è assai risalente.

È noto che per valutare la fondatezza dell’eccezione di prescrizione spiegata dalla banca occorre investigare la natura delle rimesse annotate in conto in epoca antecedente al dies a quo (cosiddetto periodo ultradecennale), atteso che solo quelle assumenti natura solutoria – ossia quelle annotate in conto in costanza di saldo debitore eccedente i limiti dell’affidamento che la banca ha concesso al correntista (ovvero in assenza di fido) – rappresentano pagamenti nell’accezione definita dalla Corte di Cassazione mediante la nota sentenza n.24418/2010 resa a SS.UU..

Di contro, le rimesse annotate in conto in presenza di saldo debitore non eccedente i limiti dell’affidamento hanno unicamente la funzione di ripristinare il limite affidativo di cui il correntista gode.

Dunque, per attribuire natura solutoria ovvero ripristinatoria alle rimesse è necessario, preliminarmente, verificare se il rapporto, nel periodo ultradecennale, era assistito o meno da un’apertura di credito ed eventualmente di quale importo.

In sintesi, ai fini della verifica della fondatezza dell’eccezione di prescrizione, la disputa tra banca e correntista verte sull’esistenza dell’apertura di credito: le banche tendono ad affermare che il rapporto non era assistito (nel periodo ultradecennale) da apertura di credito, talché tutte le rimesse annotate in conto debbano necessariamente qualificarsi come solutorie e, quindi, non più ripetibili. Di converso, i correntisti sono adusi a sostenere la tesi opposta, ovverosia che il rapporto era assistito da un’apertura di credito con la conseguenza che le rimesse annotate in conto in presenza di saldo debitore entro il limite di fido assumono natura ripristinatoria, così sfuggendo alla scure della prescrizione.

In sintesi, le contrapposte tesi ruotano attorno all’esistenza (allegata dal correntista) ovvero all’assenza (asserita dalla banca) dell’apertura di credito per il periodo antecedente al dies a quo del termine prescrizionale.

La questione concernente la prova dell’esistenza di un’apertura di credito è di agevole soluzione in presenza di un regolare contratto avente forma scritta ritualmente versato in atti.

Il tema, di contro, assume connotati di maggiore complessità in assenza di un contratto scritto di apertura di credito.

In siffatte ipotesi, i correntisti sono sempre portatori della tesi secondo cui l’adempimento dell’istituto di credito alle disposizioni di pagamento impartite dal correntista in costanza di un elevato saldo debitore rappresenti la prova dell’esistenza di un contratto di apertura di credito, esistenza avvalorata anche dalla mancata richiesta di rientro da parte della banca e dal ripetersi ricorsivo, frequente e sistematico dell’esecuzione degli ordini di pagamento del correntista, sì da configurarsi una condotta che non possa qualificarsi di mera tolleranza.

Le banche, dal canto loro, sono aduse a sostenere la tesi secondo la quale in assenza di un contratto di apertura di credito avente forma scritta il rapporto debba considerarsi sprovvisto di affidamento. Secondo le banche, dunque, il correntista, in virtù delle regole sul riparto dell’onere probatorio, per contrastare l’eccezione di prescrizione spiegata dallo stesso istituto di credito sarebbe necessariamente tenuto a depositare in giudizio il contratto scritto di apertura di credito, essendo nulli i contratti privi della forma scritta ex art.117, comma primo, TUB.

Il tema è stato approfonditamente trattato dalla Corte di Cassazione mediante l’ordinanza n.17982 del 22.06.2023 in commento.

Gli ermellini, va detto per completezza di analisi, hanno trattato il caso di un rapporto bancario sorto nel 1990, ovverosia in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n.154/1992 (norma poi trasfusa nel TUB), il cui art.3 (poi confluito nell’art.117 TUB) introdusse l’obbligo della forma scritta per i contratti bancari.

Mediante la richiamata ordinanza, gli ermellini hanno chiarito che laddove il contratto di conto corrente (ritualmente depositato in atti nel caso analizzato dal Supremo Consesso) disciplini anche l’apertura di credito (cosa che invero accade soventemente) – ancorché non ne preveda la misura del tasso d’interesse – e sia provato che la condotta assunta dalla banca in merito allo scoperto di conto non possa considerarsi espressione di una mera tolleranza, bensì, di contro, indice di un vero e proprio obbligo di messa a disposizione di fondi a favore del correntista, non occorre che questi esibisca in giudizio la copia del  contratto di apertura di credito.

Al riguardo, la Corte di Cassazione da un lato ha consolidato precedenti orientamenti mediante i quali aveva statuito che la prova dell’esistenza dell’apertura di credito possa darsi per fatti concludenti in presenza di un contratto di conto corrente che disciplini anche le modalità di utilizzo dell’apertura di credito, dall’altro lato ha chiarito che ai sensi dell’art.127, comma secondo, TUB la banca non può eccepire la nullità del contratto di apertura di credito per assenza di forma scritta.

Difatti, la nullità del contratto per assenza di forma scritta è una classica nullità di protezione che può essere fatta valere unicamente dal cliente bancario e mai dall’istituto di credito. Sarebbe difatti paradossale che la banca possa avvantaggiarsi della mancata produzione del contratto scritto di apertura di credito, laddove l’esistenza dell’affidamento è comunque provata.

La Corte ha anche chiarito che la mancata indicazione, nel contratto di conto corrente, del tasso debitore specificamente applicabile all’apertura di credito non determina alcuna nullità del contratto di apertura di credito, trattandosi di circostanza avente rilevanza unicamente ai fini della (in)validità della clausola interessi, che dovrà considerarsi nulla con conseguente applicazione del criterio di eterointegrazione disposto d’art.117, comma sette, TUB.

Gli ermellini poi, rigettando uno specifico motivo di ricorso dell’istituto di credito, hanno inteso precisare che, in siffatti casi, ai saldi debitori debba applicarsi il tasso minimo dei buoni ordinari del tesoro, così risolvendo un’altra annosa questione concernente la corretta interpretazione della lettera a) del settimo comma dell’art.117 TUB.

Resta a questo punto da comprendere come debba esprimersi il giudice del merito laddove il correntista alleghi l’esistenza del contratto di apertura di credito, pur non depositato in atti, in presenza di un rapporto di conto corrente bancario parimenti sprovvisto del contratto scritto.

In tal caso, difatti, non potrebbe assumersi che il contratto di apertura di credito risulti già disciplinato dal contratto di conto corrente. Eppure, negare valenza probatoria ad ulteriori circostanze comprovanti l’esistenza dell’apertura di credito porrebbe comunque il problema – alla luce del principio delle nullità di protezione – della possibilità, da parte la banca, di avvantaggiarsi della mancata esibizione, in giudizio, del contratto di conto corrente e del collegato contratto di apertura di credito.

È assai frequente, difatti, che nei giudizi intrapresi in assenza di qualsiasi documento contrattuale si possa comunque asserire con assoluta certezza che il conto sia stato assistito da apertura di credito, desumendone la sussistenza dall’ulteriore documentazione eventualmente versata in atti quale, ad esempio, gli estratti conto bancari e la visura della centrale rischi.

Difatti, in presenza di saldi debitori di importo elevato e persistenti nonché in assenza di richieste di rientro e contestazioni di posizioni di sofferenza da parte della banca, difficilmente potrebbe discorrersi di semplice tolleranza dell’intermediario, soprattutto se l’esistenza del fido sia comprovata dalle informazioni ricavabili dalla centrale rischi, che, come noto, raccoglie le segnalazioni degli istituti di credito: negare valenza probatoria alle informazioni desumibili dalla centrale rischi equivarrebbe a negare valenza probatoria ad una comunicazione ufficiale di provenienza della stessa banca.

A ciò si aggiunga che molto spesso sull’estratto conto bancario vi è addirittura menzione del fido concesso al correntista.

Occorre dunque chiedersi se dinanzi ad elementi così convergenti possa ravvisarsi il difetto di prova del correntista circa l’esistenza del contratto di apertura di credito sol perché la banca abbia omesso di depositare in atti il contratto di conto corrente contemplante anche la disciplina del rapporto di affidamento.

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