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Nota a Trib. Firenze, Sez. III, 6 giugno 2025, n. 1942.

Massima redazionale

Parte opponente ha dedotto che la clausola floor prevista nel contratto di mutuo sia indeterminata e vessatoria e determinerebbe un significativo squilibrio di diritti ed obblighi tra la banca ed il cliente.

Per la Corte fiorentina tale clausola appare pienamente valida in quanto chiaramente determinata, meritevole di tutela e non vessatoria. Occorre, infatti, ricordare che è stato chiarito nella giurisprudenza di merito, che «la clausola floor costituisce una tecnica di determinazione convenzionale del tasso di interesse, inserita in un contratto di mutuo, la cui causa rimane il trasferimento di una somma di denaro e la sua remunerazione. La pattuizione sul tasso di interesse attraverso la clausola floor è dunque finalizzata a proteggere l’intermediario da una discesa dei tassi, con la sola finalità di garantire alla banca una remuneratività ritenuta ‘minima’ al finanziamento concesso, quale prezzo del proprio servizio. Ciò detto, l’inserimento all’interno di un contratto di mutuo di una clausola floor, con la quale viene introdotto un limite percentuale al di sotto del quale gli interessi dovuti non possono scendere, non comporta alcuna violazione dell’art. 1346 c.c., … l’oggetto del contratto rimane pertanto possibile, lecito e determinato»[1]. È stato, altresì, precisato che la clausola floor è funzionale al soddisfacimento della necessità dell’intermediario finanziario di ricavare, con la concessione del finanziamento, un lucro minimo predeterminato, in un periodo storico connotato dall’abbassamento dei tassi; è stato evidenziato che la stessa previsione comporta dei vantaggi anche per il cliente, in quanto all’inserimento della clausola floor in contratto si accompagna normalmente, quale contropartita per il finanziato, uno spread inferiore rispetto a quelli offerti nei contratti di finanziamento che contemplano meccanismi di indicizzazione puri[2]. In ragione di ciò, il ricorso a detta clausola è stato ritenuto pienamente legittimo anche in alcune pronunce dell’ABF[3]. Né, tantomeno, può dirsi che tale clausola sia vessatoria. L’art. 33 cod. cons., riprendendo l’art. 3 della Direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, prevede che nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. L’art. 34 cod. cons. stabilisce, per quanto qui interessa, che «1. La vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende. 2. La valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile». Ancora più chiaramente, all’art. 42 della Direttiva è previsto che «La valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile». Orbene, poiché, come detto, la clausola de qua costituisce una tecnica di determinazione convenzionale del tasso di interesse e, dunque, attiene all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, atteso che la stessa è individuata nel contratto in modo chiaro e comprensibile e tenuto conto che, come detto, sotto tale aspetto, non è suscettibile di sindacato, pur nella necessaria interpretazione restrittiva che a tale previsione va data, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia 30.4.2014 C-26/13 (nella quale in motivazione viene precisato che «… poiché l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 sancisce un’eccezione al meccanismo di controllo nel merito delle clausole abusive quale previsto nell’ambito del sistema di tutela dei consumatori attuato da tale direttiva, occorre dare un’interpretazione restrittiva alla disposizione in parola»), non si può che concludere che detta clausola non è vessatoria. Né certamente può dirsi che tale clausola sia qualificabile come strumento finanziario al quale debba applicarsi la relativa disciplina. Infatti, la giurisprudenza è pressoché costante nell’escludere che la clausola floor inserita in un contratto puramente bancario (quale è un mutuo) possa essere classificata quale contratto derivato, non avendo quale finalità quella di realizzare un investimento, di gestire un rischio di cambio o di speculare sul tasso di cambio di una valuta estera[4].

 

 

 

 

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[1] Cfr. Trib. Ravenna, Sez. I, 30.12.2020, n. 988.

[2] Cfr. Trib. Pordenone, 24.04.2020, n. 222; Trib. Rimini, Sez. I, 06.11.2020, n. 721; Trib. Ravenna, Sez. I, 30.12.2020, n. 988; Trib. Bologna, 06.03.2018, n. 20222.

[3] Cfr. ABF, Collegio di Napoli, n. 305/2012; ABF, Collegio di Napoli, n. 4191/2015.

[4] Cfr. ex multis Trib. Bologna, Sez. III, 31.01.2018, n. 20087; Trib. Lanciano, 04.04.2018, n. 142; Trib. Trento, 06.07.2017; Trib. Monza, 08.02.2017, n. 196.

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