12 min read

Nota a App. Napoli, Sez. III, 13 giugno 2025, n. 3048.

Massima redazionale

Come noto, le Sezioni Unite[1], conformandosi alle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea[2], hanno fissato i seguenti principi di diritto:

a) nella fase monitoria il Giudice deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia, con relativo potere di impulso ai fini della richiesta del contratto medesimo, nonché di eventuali chiarimenti, al fine di verificare la sussistenza dell’abusività di clausole a danno del consumatore, con le relative conseguenze;

b) nella fase esecutiva, in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, il Giudice avrà il dovere – da esercitarsi sino al momento della vendita o dell’assegnazione del bene o del credito – di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo e di avvisare il debitore esecutato che entro 40 giorni potrà proporre opposizione, ai sensi dell’art. 650 c.p.c., per far accertare (solo ed esclusivamente) l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo.

La pronuncia impone, pertanto, sia ai Giudici della cognizione per la fase monitoria sia ai Giudici dell’esecuzione l’esame delle clausole contenute nei contratti stipulati con il consumatore, peraltro riguardanti trasversalmente un numero indeterminato di materie (diritto bancario, vendita di beni di consumo, appalti, somministrazione, ecc.).

Discende, dunque, la necessità del controllo officioso da parte del Giudice del monitorio della vessatorietà della clausole poste a fondamento del credito preteso contro un consumatore, al fine di conformarsi al diritto eurounitario ed evitare così la pronuncia di titoli che – se non opposti – causino la sospensione del processo esecutivo con avvio di opposizione tardiva, con grave compromissione degli obiettivi di speditezza e razionalità della giurisdizione, a tacere di possibili profili risarcitori e disciplinari. È futile evidenziare che simile verifica compete anche (e a maggior ragione) al Giudice dell’opposizione tempestivamente proposta dal debitore/consumatore/mutuatario.

Ebbene, ciò premesso, non può revocarsi in dubbio che anche la clausola che prevede interessi di mora da ritardo nel pagamento di obbligazioni pecuniarie ad un tasso manifestamente eccessivo debba essere ricompresa nel novero delle c.d. clausole abusive: si tratta, difatti, di una frequente declinazione pratica della clausola penale. In punto di determinazione di quale sia il tasso di mora convenzionale “manifestamente eccessivo”, premesso che ai sensi dell’art. 4 Direttiva n. 93/13/CEE “il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende”, si sono registrati nella giurisprudenza di merito plurimi orientamenti, per lo più univocamente diretti alla individuazione di parametri in base ai quali acclarare l’eccessiva misura del tasso di mora. Sotto tale profilo, si è rilevata una apprezzabile convergenza sul fatto che possa reputarsi “manifestamente eccessivo” il tasso di mora convenzionale pari o superiore al tasso di cui al d. lgs 231/2002. Pur tuttavia, il tasso da ultimo richiamato è stato fatto proprio dal legislatore a far data dal 2014, con la modifica dell’art. 1284 c.c., il cui quarto comma prevede che “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”. Ed allora, se il tasso dei cc.dd. “interessi europei”, come vengono comunemente definiti quelli divisati dal D. Lgs. n. 231/2002, è stato assunto a parametro di “interesse legale”, sia pure con riferimento ai frutti maturati nelle more del contenzioso, torna estremamente difficile parametrare la misura eccessiva del tasso di mora con la verifica comparativa di detto saggio di interesse. Inoltre, occorre considerare (ed è l’argomentazione più pregnante) che per i contratti bancari, soprattutto quelli aventi ad oggetto (come nel caso di specie) crediti al consumo, i tassi corrispettivi sono generalmente superiori al tasso di cui al D. Lgs. n. 231/2002[3].

Ad avviso del Collegio, la previsione di un tasso di mora parametrato al limite massimo del tasso soglia di cui alla L. n. 108/1996 non può ritenersi indice di garanzia per escludere l’abusività della clausola relativa agli interessi moratori, sì da esonerare il predisponente dalla specifica trattazione della misura nel contraddittorio con il consumatore. È ben nota la differente ratio che ha ispirato il legislatore europeo nella predisposizione delle guarentigie a presidio della tutela civilistica del consumatore, quale contraente debole, e quella del legislatore nazionale nella predisposizione di misure preventive/repressive dell’illecito penale, qual è il reato di usura.

Nel caso di specie, dunque, a risentire della abusività della clausola relativa agli interessi di mora (art. 5), oltre alla differenza tra interessi corrispettivi ed interessi mora, è la misura di questi ultimi nel loro complesso, fissata in percentuali prossime al 20%, a risultare inficiata, secondo i criteri ermeneutici convenzionalmente orientati. A precludere l’applicabilità della disciplina di tutela del consumatore, la Corte di legittimità ha precisato essere invero necessario che ricorra il presupposto oggettivo della trattativa ex art. 34, comma 4, cod. cons., la cui sussistenza è pertanto da considerarsi un prius logico rispetto alla verifica della sussistenza del significativo squilibrio in cui riposa l’abusività della clausola o del contratto, spettando al “professionista” dare la prova del fatto positivo del prodromico svolgimento di una trattativa dotata dei caratteri essenziali suoi propri, quale fatto impeditivo della relativa applicazione[4].

Si è, al riguardo, sottolineato[5] che in presenza di accordo frutto (in tutto o in parte) di trattativa, l’accertamento giudiziale in ordine all’abusività delle clausole contrattuali rimane viceversa (in tutto o in parte) precluso, quand’anche l’assetto di interessi realizzato dalle parti risulti significativamente squilibrato a danno del consumatore, la preclusione discendendo in tal caso non già dalla non vessatorietà della clausola, o del contratto fatti oggetto di specifica trattativa, bensì dalla inconfigurabilità della loro unilaterale predisposizione ed imposizione, quali (possibili) fonti di abuso nella vicenda di formazione del contratto; e che per potersi considerare preclusa l’applicazione della disciplina di tutela del consumatore in questione la trattativa deve non solo essersi storicamente svolta, ma altresì risultare caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà ed effettività.

Quanto agli effetti della declaratoria di nullità della clausola, è da precisare che le Sezioni Unite[6], muovendo dal principio che il prezzo del denaro va comunque preservato, hanno fatto salvo, anche nell’ipotesi di mora usuraria, l’interesse corrispettivo, se rispettoso della soglia dell’usura. Secondo, invece, la CGUE in ipotesi di nullità parziale di singola clausola abusiva, il Giudice non procede a sostituzione della clausola abusiva con eterointegrazione in ragione della ratio deterrente della nullità[7]. La Corte di Giustizia ha statuito che “quanto alle conseguenze da trarre dalla constatazione del carattere abusivo di una disposizione di un contratto che vincola un consumatore ad un professionista, dal tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, risulta che i giudici nazionali sono tenuti unicamente ad escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti dei consumatori, senza essere autorizzati a rivedere il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto sia giuridicamente possibile”. Il giudice sovrannazionale spiega la ratio sottesa alla direttiva europea, ovvero “di fatto, se il giudice nazionale potesse rivedere il contenuto delle clausole abusive, una tale facoltà potrebbe compromettere la realizzazione dell’obiettivo di lungo termine di cui all’articolo 7 della direttiva 93/13. Infatti tale facoltà contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive, dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti”.

Tuttavia, è ancora vivace il dibattito, sia dottrinario che giurisprudenziale, inerente alla tematica degli effetti della declaratoria di nullità della clausola abusiva relativa agli interessi di mora.

Accertata, infatti, la nullità del patto, si possono ipotizzare diverse soluzioni:

  • una “pura” obliterazione della clausola, con il corollario della esclusione di qualsivoglia diritto agli interessi;
  • l’operatività, in sostituzione del patto nullo, della disciplina dispositiva derogata (abusivamente) dal patto sugli interessi, reputando a tale stregua dovuti interessi nella misura legale;
  • infine, si può affidare al giudice il compito di ricostruire un regolamento alternativo non abusivo – ma non necessariamente modulato sulla disciplina legale dispositiva – correggendo il contratto.

La Corte Europea sembra essere orientata per la nuda caducazione, dal momento che solo la pura obliterazione del patto sarebbe realmente idonea a privare di “forza vincolante” la clausola vessatoria; sicché il contratto depurato della clausola abusiva dovrebbe conservarsi “in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive”, anche se non sono mancati interventi che sembrerebbero militare – in casi particolari – alla integrazione c.d. dispositiva[8].

È evidente che tali considerazioni non valgono invece nel caso in cui la clausola abusiva (e pertanto nulla) sia quella che determina il tasso degli interessi moratori, perché il contratto è allora perfettamente suscettibile di sussistere senza tale clausola, restando vincolante per il resto (come previsto dall’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE).

Non sono mancati in giurisprudenza interventi che in simili fattispecie hanno fatto ricorso all’art. 1224 c.c.[9]. A ben vedere, l’applicazione della disposizione codicistica da ultimo richiamata conduce, ad avviso del Collegio napoletano, a una situazione diversa da quella che si creerebbe a seguito dell’applicazione dell’art. 1384 c.c. In quest’ultimo caso, infatti, a seguito della riduzione dell’ammontare eccessivo della clausola penale sugli interessi moratori gli stessi continuano ad essere dovuti sebbene in misura inferiore a quanto pattuito; con l’applicazione dell’art. 1224 c.c., invece, si ottiene l’effetto pratico di estendere al periodo di mora il tasso degli interessi legali. In altri termini, applicando l’art. 1384 c.c., effettivamente si priverebbe la clausola penale abusiva della sanzione deterrente della nullità protettiva, poiché gli interessi moratori in quanto tali continuano ad essere dovuti sebbene in misura inferiore a quella pattuita. Nel secondo caso, invece, il professionista che inserisca nel contratto tassi di interessi moratori sproporzionati resta sempre esposto al rischio di perdere per tutta la durata dell’inadempimento del debitore il diritto a percepire il tasso degli interessi moratori abusivamente inseriti nel contratto.

Del resto, l’applicazione dell’art. 33, comma 2, lett. f), cod. cons., con gli effetti previsti al successivo art. 36, comma 1, non comporta formalmente alcuna sostituzione (vietata dalla direttiva 93/13 che prevede come conseguenza la “non vincolatività”) di clausole contrattuali, come diversamente avviene nell’ipotesi di cui all’art. 1384 c.c. Nel contempo, anche la possibilità per la banca di esigere dopo la mora il pagamento di interessi nella misura concordata per gli interessi corrispettivi rischierebbe di far privare di efficacia deterrente la sanzione di nullità della clausola abusiva. Come pure, cancellare totalmente l’obbligo di pagamento degli interessi moratori nel caso in cui risultino eccessivi e sproporzionati rischierebbe per creare un inverso squilibrio tra le parti, favorendo l’inadempimento nelle obbligazioni pecuniarie, con conseguente sconvolgimento del sistema del credito, portando non ad una modifica conformativa del rapporto di credito, ma ad un capovolgimento del sistema degli incentivi e disincentivi che regolano il sistema creditizio.

Di conseguenza, all’esito della declaratoria di nullità della clausola abusiva inerente la misura del tasso di mora, la Corte territoriale reputa legittimo il ricorso all’art. 1224, in combinato disposto di cui al quarto comma dell’art. 1284 c.c., pervenendo a considerare come non dovuti gli interessi moratori, con loro sostituzione non mediante il riferimento agli interessi corrispettivi pattuiti nel contratto, ma con la misura degli interessi legali, secondo il modello previsto, ad altri fini, dall’art. 125-bis, comma 7, TUB. Invero, l’obbligazione derivante dall’art. 1224 c.c., non solo non ha fondamento nel contratto, essendo evidentemente una obbligazione ex lege, ma non ha la propria causa nella volontà delle parti di predeterminare la misura del risarcimento che deve compensare il sacrifico imposto al creditore dall’inadempimento del debitore – essendo l’effetto giuridico di tale manifestazione di volontà completamente eliminato – ma ha la propria causa sostanziale nella considerazione che il sacrificio imposto al creditore deluso non può essere riparato in misura inferiore al tasso legale ancorato ai richiamati indici normativi.

 

 

 

 

 

____________________________________________________

[1] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., n. 9479/2023.

[2] Il riferimento è a CGUE, 17.05.2022, C-693/19 e C 831/19.

[3] Nel finanziamento dedotto in lite, il TAN sarebbe pari all’11,92%, così determinato, ex post, moltiplicando la singola rata (€ 133,00) per 60 mesi previsti per la restituzione della somma mutuata, pari, in linea capitale, ad € 5.000,00.

[4] Cfr. Cass. n. 14410/2024.

[5] Cfr. Cass. n. 25914/2019.

[6] Cfr. Cass. n. 19597/2020.

[7] Cfr. CGUE, 14.06.2012, C-618/10; CGUE, 18.11.2021, C-212/20; CGUE, 12.01.2023, C-395/2023.

[8] Trattasi della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea pubblicata il 30 aprile 2014 (causa C-26/13, Árpad Kásler e Hajnalka Káslerné Rábai contro OTP Jelzálogbank Zrt), la quale ha affermato il seguente principio di diritto: “L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, ove un contratto concluso tra un professionista e un consumatore non può sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva, tale disposizione non osta a una regola di diritto nazionale che permette al giudice nazionale di ovviare alla nullità della suddetta clausola sostituendo a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva”. La ratio decidendi del principio di diritto enunciato dalla Corte di Giustizia si riferisce dichiaratamente all’ipotesi in cui il contratto di finanziamento non possa sussistere dopo l’eliminazione di una clausola abusiva (nel caso di specie, quest’ultima atteneva alla determinazione degli interessi corrispettivi e alla conseguente quantificazione dell’importo delle rate dovute dal soggetto finanziato). In tale fattispecie, “se … non fosse consentito sostituire a una clausola abusiva una disposizione di natura suppletiva, obbligando il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme, il consumatore potrebbe essere esposto a conseguenze particolarmente dannose talché il carattere dissuasivo risultante dall’annullamento del contratto rischierebbe di essere compromesso. … Infatti, un annullamento del genere ha in via di principio per conseguenza di rendere immediatamente esigibile l’importo del residuo prestito dovuto in proporzioni che potrebbero eccedere le capacità finanziarie del consumatore e, pertanto, tende a penalizzare quest’ultimo piuttosto che il mutuante il quale non sarebbe di conseguenza dissuaso dall’inserire siffatte clausole nei contratti da esso proposti”.

[9] La richiamata pronuncia di legittimità n. 14410/2024 aveva ad oggetto lo scrutinio della sentenza resa dalla Corte d’Appello di Milano n. 2147/2020, con la quale, dichiarata la nullità della clausola inerente agli interessi di mora, si è ritenuto applicabile l’art. 1224 c.c.

Seguici sui social: