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Nota a Trib. Taranto, Sez. II, 24 settembre 2024, n. 2347.

Massima redazionale

Sul mutuo condizionato.

Con riferimento alla domanda con cui gli opponenti lamentano l’inidoneità del contratto di finanziamento fondiario quale titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c., il giudice tarantino richiama l’insegnamento costante della Corte di Cassazione, alla stregua del quale per accertare se un contratto di mutuo possa essere utilizzato quale titolo esecutivo occorre verificare, attraverso la sua interpretazione integrata con quanto previsto nell’atto di erogazione e quietanza, se esso contenga pattuizioni volte a trasmettere con immediatezza la disponibilità giuridica della somma mutuata, e che entrambi gli atti, di mutuo ed erogazione, rispettino i requisiti di forma imposti dalla legge[1].

In particolare, ai fini dell’art. 474 c.p.c., oltre alla stipula tra le parti di un valido contratto di mutuo, è necessario tener conto di tutte le ulteriori pattuizioni negoziali e di tutto quanto convenuto negli atti pubblici fatti valere come titolo esecutivo, verificando se dal complesso di tutto quanto convenuto negli stessi risulti o meno l’esistenza di una obbligazione attuale di pagamento di una somma di danaro a carico della parte debitrice intimata[2]. Nel caso di specie, il contratto di finanziamento fondiario in atti, all’art. 1, rubricato “Concessione ed erogazione del finanziamento”, prevede contestualmente alla stipulazione del contratto l’erogazione alla parte mutuataria dell’importo di € 800.000,00 mediante accreditamento sul conto corrente intestato alla stessa, oltre all’erogazione della residua somma di € 500.000,00, su richiesta della parte mutuataria, in una o più soluzioni, in relazione allo stato di avanzamento dei lavori delle opere finanziate. Nel successivo atto pubblico ricognitivo e modificativo del finanziamento sottoscritto, inoltre, si rinviene la previsione dell’art. 1, ai sensi del quale «la Società “ Parte_1 […], si riconosce debitrice nei confronti della “Banca […]” dell’importo complessivo di euro 1.265.900,00 (un milioneduecentosessantacinquemilanovecento virgola zero zero) ad essa mutuato in virtù del contratto di finanziamento di cui in premessa ed effettivamente erogato […] e la stessa, pertanto, ne rilascia ampia e liberatoria quietanza». Sul punto, è opportuno richiamare quanto affermato dalla sentenza n. 6083/2015 della Corte di Cassazione: «è titolo per l’esecuzione anche l’atto redatto da notaio che contenga un negozio unilaterale che si tratti sia di dichiarazione di volontà che dichiarazione di scienza, purché avente ad oggetto un’obbligazione di somma di denaro relativa ad un credito certo e liquido. In particolare, va affermata la natura di titolo esecutivo dell’atto pubblico redatto da notaio che contenga, come nel caso di specie, una ricognizione di debito, con riconoscimento unilaterale di un’obbligazione restitutoria esistente al momento della dichiarazione e determinata nell’ammontare». Alla stregua dei principi generali del nostro diritto delle obbligazioni, l’efficacia vincolante di tale ricognizione di debito potrebbe venir meno solo laddove il debitore/dichiarante provi giudizialmente che il rapporto fondamentale non sia in realtà mai sorto, o sia invalido o estinto, oppure che esista una condizione o altro elemento che possa comunque incidere sull’obbligazione oggetto del riconoscimento: nel caso in esame, è invece, incontestata tra le parti l’avvenuta traditio delle somme oggetto di finanziamento in favore e la contestuale origine della sua obbligazione restitutoria. Aderendo ai richiamati orientamenti giurisprudenziali della Suprema Corte, deve, pertanto, concludersi che il contratto di finanziamento oggetto della presente controversia, unitamente al successivo atto ricognitivo e modificativo, può considerarsi valido titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474, comma 2, n. 3), c.p.c., risultando provata, dall’esame del complesso della documentazione in atti, l’esistenza di una obbligazione restitutoria della Società mutuataria nei confronti della Banca, ovvero l’esistenza in capo a quest’ultima di un diritto certo, liquido ed esigibile portato da atti notarili.

L’eccezione degli opponenti, pertanto, non può trovare accoglimento.

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Sulla responsabilità della Banca nella fase delle trattative.

Sul punto, il Tribunale pugliese si pone senza soluzione di continuità con la giurisprudenza di legittimità, che ha precisato come «la responsabilità precontrattuale per violazione dell’art. 1337 cod. civ. presuppone anzitutto che tra le parti siano intercorse trattative giunte ad uno stadio tale da giustificare oggettivamente l’affidamento nella conclusione del contratto, inoltre che una delle parti abbia interrotto le trattative, eludendo le ragionevoli aspettative dell’altra, la quale, avendo confidato nella conclusione finale del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunciare ad occasioni più favorevoli, ed infine che il recesso sia stato determinato, se non da malafede, almeno da colpa, e non sia quindi assistito da un giusto motivo»[3]; «qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte, non grava su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull’altra parte l’onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede e correttezza postulati dalla norma de qua»[4].

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Sulla indicazione dell’ISC.

L’indicatore sintetico di costo (ISC), come noto, non è un tasso propriamente detto, ma un mero indice del costo complessivo del finanziamento, avente lo scopo di mettere il cliente in grado di percepire immediatamente l’entità della controprestazione effettivamente dovuta già prima di accedere al credito, sicché la sua eventuale non esatta indicazione non comporta, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, quanto piuttosto un’erronea rappresentazione di tale informazione.

Pertanto, stante il suo valore sintetico, l’ISC non rientra nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni la cui erronea indicazione è sanzionata dall’art. 117 TUB mediante la sostituzione dei tassi d’interesse normativamente stabiliti a quelli pattuiti[5]. Infatti, alla dedotta divergenza tra contrattuale e ISC effettivo non può seguire l’applicazione della previsione sanzionatoria dettata dall’art. 117, comma 6, TUB: questo perché la fattispecie oggetto della presente controversia non può rientrare in alcuna delle due categorie previste da detta disposizione, e segnatamente non nella prima, in quanto non vi è alcun rinvio agli usi, e nemmeno nella seconda in quanto il TAEG/ISC (che rappresenta il costo totale del finanziamento) non può essere classificato né come prezzo, né come tasso, né come condizione[6], ma esprime in termini percentuali il costo complessivo del finanziamento[7].

A ciò, il giudice tarantino aggiunge che, nel caso di specie, i documenti di sintesi allegati al contratto di finanziamento e al successivo atto ricognitivo e modificativo riportano in modo specifica e puntuale l’indicazione dei tassi corrispettivi e moratori, nonché delle commissioni e spese derivanti dal finanziamento, conformemente a quanto previsto dall’art. 3, sez. terza, capitolo 1, titolo X, delle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia. Pertanto, i contratti da questo angolo visuale risultano del tutto conforme al contenuto negoziale minimo ivi previsto.

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Sulla clausola floor.

Per ciò che concerne la contestazione relativa all’illegittima applicazione di un tasso floor, deve rilevarsi che, nel contratto in esame, non risulta la previsione di una clausola di questo tipo. L’art. 2 del contratto di finanziamento, in particolare, prevede un tasso di interesse «inizialmente stabilito ed accettato nella misura del 5,257% […] nominale annuo, pagabile in via posticipata, pari all’Euribor 3 (tre) mesi (tasso 365 giorni) riferito alla media percentuale del mese precedente a quello di stipula, maggiorato di uno spread di 3,80 […] punti percentuali su base annua […]». Tra l’altro, una clausola come quella richiamata, che prevede l’indicizzazione del tasso di interesse sulla base di un parametro variabile (segnatamente, l’Euribor), oltre alla previsione di uno spread fisso al di sotto del quale il saggio contrattuale non può scendere, non comporta uno squilibrio tra le parti, anche alla luce del recente insegnamento delle Sezioni Unite, secondo cui «costituisce un puro artificio la tesi (…) secondo cui la previsione di un tasso minimo dovuto dal cliente, inserita in un contratto di finanziamento a tasso indicizzato, costituirebbe un’inconsapevole vendita da parte del cliente al finanziatore di una option floor, e dunque un contratto derivato». Secondo le dette Sezioni Unite, infatti, «la previsione per cui, anche nel caso di fluttuazione dell’indice di riferimento per la determinazione degli interessi, il debitore sia comunque tenuto al pagamento di un saggio di interessi minimo, non è che una clausola condizionale, in cui l’evento condizionante è la fluttuazione dell’indice di riferimento al di sotto di una certa soglia, e l’evento condizionato la misura del saggio: dunque un patto lecito e consentito dall’art. 1353 c.c.»[8].

 

 

 

 

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[1] Cfr. Cass. n. 6174/2020; Cass. n. 17194/2015.

[2] In tal senso, Cass. n. 8889/2024.

[3] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 25.09.2023, n. 27262.

[4] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 25.09.2023, n. 27262.

[5] V., da ultimo, Cass. Civ., Sez. I, 09.12.2021, n. 39169.

[6] V. App. Venezia, Sez. I, 1° giugno 2022, n. 1369.

[7] V. Trib. Napoli, 12.02.2021; Trib. Roma, 19.04.2017.

[8] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 23.02.2023, n. 5657; Cass. n. 5151/2024.

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