Nota a ABF, Collegio di Milano, 24 aprile 2024, n. 4921.
«Certo, certissimo, anzi probabile.»
(Ennio Flaiano)
Ennio Flaiano aveva un dono straordinario. Ridurre a fulminanti battute inequivocabili verità. Nella vita – e per quel che qui ci interessa, nel diritto – il certo e il certissimo, talvolta e per necessità, “passano” per il probabile[1].
Chiunque agisca in giudizio deve dimostrare la fondatezza delle proprie pretese. Così come, e correlativamente, chi a quella domanda si oppone deve provarne l’infondatezza. L’art. 2697 del codice civile rubricato “Onere della prova” recita: «1. Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. 2. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»[2]. L’ordinamento prevede, altresì, il caso in cui all’accertamento dei fatti si pervenga attraverso quel particolare percorso logico-normativo che va sotto il nome di presunzione. Stabilisce l’art. 2727 del codice civile che «Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae dal fatto noto per risalire a un fatto ignoto»[3]. Per l’appunto il certo (anzi il certissimo) di una decisione giurisprudenziale discendono dalla ricostruzione che il giudice opera per risalire, in assenza di un’indiscutibile certezza storica e fattuale, a un fatto ignoto traendo le mosse del proprio ragionamento da un fatto noto. Il criterio applicato è, pertanto, quello dell’“id quod plerumque accidit”, di quel che nella consuetudine esperienziale è dato riscontrare che accada ed è, dunque, da ritenere che sia accaduto, pur in assenza di prove fattuali incontrovertibili, anche nel caso sottoposto alla propria decisione[4].
Questo, per l’appunto il percorso seguito dal Collegio Arbitrale meneghino nella propria Decisione n. 4921 del 24 aprile 2024. Il motivo del contendere nasce da un prelevamento fraudolento di € 1.000,00 effettuato con carta bancomat rubata al cliente e, quindi, utilizzata per effettuare l’anzidetto prelevamento presso apparato ATM. Il cliente, assumendo che il PIN non fosse conservato unitamente alla carta sottrattagli e disconosciuto il prelevamento, ne chiede il rimborso all’intermediario emittente. L’intermediario emittente chiede il rigetto della domanda sostenendo, tra l’altro che:
- la denuncia di furto, sporta dal cliente, individua cronologicamente l’evento criminoso tra le ore 14:30 e le ore 16:30 del 12/12/2023 a fronte del prelevamento fraudolento effettuato, nella medesima data, alle ore 17:14 con corretta digitazione del PIN e blocco della carta, da parte del cliente, il giorno successivo alle ore 00:19;
- una carta chip (quale quella in dotazione al cliente), ad ogni buon conto, non potrebbe essere utilizzata senza il relativo codice PIN; “pertanto, il ricorrente deve essere quantomeno incorso nell’oggettiva incauta custodia del mezzo di pagamento, con conseguente esclusione di responsabilità dell’intermediario stesso”.
Il ricorrente, dunque, avrebbe tenuto una condotta non improntata a criteri di diligenza, attese anche le circostanze del furto consumato mentre lo zaino ove la carta bancomat risultava custodita era stato lasciato incustodito. L’intermediario, sulla scorta di tali considerazioni, chiede il rigetto della domanda del cliente.
Il Collegio arbitrale – ritenuta la ricostruzione, operata dall’intermediario, rispondente ai fatti sulla base delle evidenze procedurali e informatiche prodotte in atti e stanti le circostanze rappresentate dal medesimo cliente nella denuncia resa ai Carabinieri – riconosce nella condotta del ricorrente gli estremi di un contegno gravemente colpevole, consistente nel non aver conservato con cura lo strumento di pagamento affidatogli. Sostiene l’ABF che “la prova della conservazione del PIN unitamente alla carta (e della sua immediata riferibilità ad essa) è infatti generalmente presuntiva, e secondo l’orientamento consolidato di questo Arbitro va attribuita rilevanza probatoria alla sussistenza del microchip ed al contenuto lasso temporale che intercorre tra il momento del furto ed il primo utilizzo della carta (Coll. Roma, decisioni nn. 33/2015; 2498/2014). Pur non essendo possibile stabilire esattamente quando sia stata sottratta la carta, posto che il ricorrente riferisce di avere lasciato lo zaino in stanza verso le 15:00, deve rilevarsi che l’operazione oggetto di disconoscimento è stata compiuta alle 17:14 […]. La estrazione del PIN contenuto nei chip è operazione teoricamente possibile ma che richiede un laboratorio sofisticato (chimico ed elettronico) e quindi ha un costo molto elevato e comunque tempi piuttosto lunghi: circostanze di fatto presumibilmente incompatibili con la concreta dinamica della presente fattispecie”[5].
Il Collegio, quindi, pervenendo alle proprie conclusioni in forza del disposto di cui all’art. 2729 cod. civ. e applicando una presunzione semplice[6], decide per il rigetto del ricorso.
Va rilevato come pronunce della specie rappresentino un’interessante prospettiva interpretativa rispetto all’obbligo posto in capo agli intermediari dalla norma di cui all’art. 11 del D.Lgs. 27 gennaio 2020, n. 11 che prevede che “… nel caso in cui sia stata eseguita un’operazione di pagamento non autorizzata, il prestatore di servizi di pagamento rimborsa al pagatore l’importo dell’operazione medesima immediatamente e in ogni caso al più tardi entro la fine della giornata operativa successiva a quella in cui prende atto dell’operazione o riceve una comunicazione in merito”. La Banca d’Italia, con propria nota esplicativa[7], chiarisce che “I PSP hanno l’obbligo di rimborsare immediatamente al pagatore l’importo dell’operazione non autorizzata. Ai sensi dell’art. 11, comma 1, del Decreto, il PSP è tenuto a effettuare in favore del pagatore un rimborso integrale (l’importo rimborsato deve essere pari all’intero importo dell’operazione non autorizzata), immediato (il rimborso deve avvenire immediatamente e in ogni caso al più tardi entro la fine della giornata operativa successiva a quella in cui il PSP ha avuto conoscenza dell’operazione non autorizzata) e non svantaggioso (la data valuta dell’accredito del rimborso non deve essere successiva alla data di addebito dell’importo). Rimane ferma la possibilità per il PSP di dimostrare, anche in un momento successivo al rimborso, che l’operazione di pagamento era stata autorizzata; in tal caso, il PSP ha diritto di chiedere direttamente all’utente e ottenere da quest’ultimo la restituzione dell’importo rimborsato (art. 11, commi 1 e 2-bis, del Decreto)”. L’eventuale sospensione del rimborso va comunicata alla medesima Banca d’Italia, fatti salvi i casi in cui il “PSP disponga (immediatamente o al più tardi entro la fine della giornata operativa successiva a quella in cui prende atto dell’operazione disconosciuta o riceve una comunicazione in merito) di elementi idonei a provare il comportamento fraudolento, doloso o gravemente colposo dell’utente e, quindi, a soddisfare l’onere probatorio di cui all’art. 10, comma 2, del Decreto”. In tali casi, si ritiene risultino insussistenti i presupposti normativamente previsti per la sospensione del rimborso e per la relativa segnalazione alla Banca d’Italia.
Ebbene, appare indubbio che i criteri ermeneutici, individuati nella richiamata pronuncia ABF e in quelle analoghe ad essa precedenti o coeve[8], rappresentino un indubbio ausilio nella valutazione dei singoli casi che all’attenzione degli intermediari dovessero venire a porsi, rispetto a tali fattispecie, nella concretezza dell’operatività quotidiana.
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[1] Le opinioni e i pareri contenuti nel presente scritto sono da attribuirsi esclusivamente all’autore e non rappresentano, in alcun modo, posizione e convincimenti dell’Istituto di appartenenza.
[2] Massimo Confortini, Giovanni Guida, Codice Civile Ragionato, Neldiritto Editore, XI Edizione, 2024, Nota ad art. 2697 c.c.: “Lo scopo dell’art. 2697 c.c. è di rendere comunque possibile la decisione del giudice imponendogli di risolvere in senso negativo l’incertezza relativa all’esistenza o inesistenza di un fatto. L’ambito applicativo della norma concerne la situazione che si verifica tutte le volte in cui manca la prova di un fatto rilevante. Tale mancanza può ascriversi al fatto che nessuna prova è stata dedotta o ammessa sul fatto, ovvero alla circostanza che le prove, pur essendo acquisite, non risultano sufficienti a far ritenere quel fatto come accertato”.
[3] Massimo Confortini, Giovanni Guida, op. cit., Nota ad art. 2727 c.c.: “La norma definisce la presunzione come un’argomentazione logica, operata dal giudice o dalla legge per mezzo della quale è possibile inferire l’esistenza o il modo d’essere di un fatto ignoto, partendo dalla conoscenza di un fatto noto. Le presunzioni semplici derivano dal prudente apprezzamento del giudice, le uniche che la dottrina considera mezzi di prova dirette a dedurre da un fatto noto uno ignoto; le presunzioni legali sono previste in termini generali ed astratti dalla legge, che stabilisce le conseguenze che si devono trarre dalla prova dell’esistenza di certi fatti: pertanto, si ritiene esse incidano sul regime di distribuzione dell’onere della prova”.
[4] Cfr. Cassazione civile sez. III, 30/05/2019, (ud. 26/02/2019, dep. 30/05/2019), n.14762: “Ove ricorrano i presupposti per ricorrere alle presunzioni, il giudice, nel risalire dal fatto noto a quello ignoto deve rendere apprezzabile i passaggi logici posti a base del proprio convincimento: al riguardo, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza”.
[5] Cfr. ABF, Collegio di Roma, Decisione 33/2015: “Il Collegio ritiene decisiva la brevità del lasso temporale che intercorre tra il momento del furto (che – secondo quanto dichiara la stessa ricorrente – si colloca tra le 20.30 e le 20.45) ed il primo utilizzo della carta (ore 21.15). Tale utilizzo è avvenuto con la corretta digitazione del PIN, senza presentare anomalie di sorta, come risulta dalle allegazioni dell’intermediario. Da ciò consegue che, verosimilmente, il codice PIN era conservato insieme alla carta bancomat e che, pertanto, rubando la borsa della ricorrente l’autore del furto si è impossessato contestualmente di entrambi (Decisione n. 2498/2014). La circostanza è ulteriormente comprovata dalla perizia tecnica depositata dall’intermediario, da cui emerge che, in caso di carte di pagamento dotate di microchip (come nel caso di specie), il codice PIN non è ricavabile dalla tessera, se non con l’impiego di una strumentazione particolarmente sofisticata e – soprattutto – con un’attività di durata piuttosto lunga, e dunque incompatibile con la brevità sopra rilevata tra furto e primo utilizzo. Per altro verso, dall’esame delle circostanze di fatto allegate dalle parti non emergono elementi dai quali ricavare il convincimento secondo cui l’autore del furto possa essere venuto a conoscenza in altro modo del codice PIN riferibile alla carta di pagamento. A tale comportamento della ricorrente, che si presume negligente, si aggiunge l’imprudenza di aver lasciato la carta bancomat in una borsa esposta all’interno di un locale pubblico. Ne consegue che il comportamento complessivo della ricorrente, sulla base di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti ai sensi dell’art. 2729 c.c., integra gli estremi della colpa grave nell’adempimento dei propri obblighi, legali e contrattuali, attinenti alla conservazione ed alla sicurezza della carta bancomat affidatale e dei codici di accesso per il relativo utilizzo; l’insieme di questi elementi impedisce dunque di trasferire all’intermediario le conseguenze degli utilizzi contestati”.
[6] Art. 2729 c.c. “Presunzioni semplici”: “Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”. Cfr. Codice Civile Esplicato, Edizioni Simone, XXVI Edizione, 2024, Nota ad art. 2729 c.c.: “La presunzione cd semplice costituisce una deduzione compiuta dal giudice per fondare il proprio convincimento in ordine ai fatti non provati e deve essere necessariamente basata su elementi gravi, precisi e concordanti: la gravità va ricollegata al grado di probabilità di sussistenza del fatto ignorato che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto; la precisione postula che l’indizio sia ben determinato nella realtà storica; la concordanza richiede che il fatto ignoto sia, di regola, desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, o convergenti. La giurisprudenza individua presunzioni «super-semplici», prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (che possono essere utilizzate, per esempio, per gli accertamenti fiscali)”.
[7]https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/orientamenti-vigilanza/Nota-esplicativa-sospetti-rimborso.pdf
[8] Cfr. ABF, Collegio di Milano, Decisione N. 4922 del 24 aprile 2024.
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