Nota a ABF, Collegio di Bari, 1° marzo 2024, n. 2689.
«L’uomo è condannato a essere libero: condannato perché non si è creato da sé stesso,
e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo,
è responsabile di tutto ciò che fa.»
(Jean-Paul Sartre)
«La libertà comporta responsabilità:
ecco perché tutti ne hanno paura.»
(George Bernard Shaw)
La libertà come condanna in quanto da essa discende la responsabilità. Il temibile obbligo di rispondere delle proprie azioni e delle conseguenze delle stesse. Si potrebbe, anzi, dire che l’ampiezza della responsabilità di ciascuno coincida con il proprio spazio di libertà. Le conseguenze dannose di un’azione in tanto possono essere ascritte al soggetto in quanto lo stesso disponeva della libertà necessaria a porre in essere quei comportamenti (commissivi o omissivi che fossero) che – laddove dispiegati – avrebbero impedito il consumarsi delle conseguenze medesime. Ma cosa accade laddove più spazi di libertà si incrocino e resti, dunque, da capire chi sia il soggetto responsabile di una determinata condotta, commissiva o omissiva, ovvero se alla stessa abbiano cooperato/concorso più attori?
A tale domanda risponde, e sia pure in un ambito meno aereo e più terreno (circoscritto alla questione sottoposta al proprio giudizio), Il Collegio di Bari dell’Arbitro Bancario Finanziario con la Decisione N. 2689 del 1° marzo 2024. Questa la materia del contendere per come sintetizzata dal medesimo ABF. “La questione sottoposta al vaglio del Collegio concerne l’accertamento di una eventuale responsabilità della convenuta banca negoziatrice di un assegno bancario emesso all’ordine della ricorrente in data 21/12/2018, per l’importo di € 10.000,00, e dalla medesima portato all’incasso in violazione dell’art. 49, comma 5, del d.lgs. n. 231/2007, poiché privo della clausola di non trasferibilità. In particolare, la ricorrente censura la condotta della banca per avere disposto senza indugio la segnalazione al MEF, da cui è scaturita l’irrogazione della sanzione a suo carico, senza preventivamente accertare la conformità del titolo alle regole che presidiano la circolazione e l’incasso dell’assegno in oggetto”.
Il ricorso, all’esito dell’esame della normativa vigente in materia, viene ritenuto infondato.
L’art. 49 (rubricato “Limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore”), comma 5, del D.Lgs. 231/2007 statuisce che: “Gli assegni bancari e postali emessi per importi pari o superiori a 1.000 euro devono recare l’indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e la clausola di non trasferibilità”.
L’art. 51 del medesimo provvedimento legislativo (rubricato “Obbligo di comunicazione al Ministero dell’economia e delle finanze delle infrazioni di cui al presente Titolo”), al comma 1 prevede che: “I soggetti obbligati che nell’esercizio delle proprie funzioni o nell’espletamento della propria attività hanno notizia di infrazioni alle disposizioni di cui all’articolo 49, commi 1, 5, 6, 7 e 12, […] ne riferiscono entro trenta giorni al Ministero dell’economia e delle finanze per la contestazione e gli altri adempimenti previsti dall’articolo 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689” e al comma 2: “In caso di infrazioni riguardanti assegni bancari, assegni circolari, libretti al portatore o titoli similari, la comunicazione deve essere effettuata dalla banca o da Poste Italiane S.p.A. che li accetta in versamento e dalla banca o da Poste Italiane S.p.A. che ne effettua l’estinzione, salvo che il soggetto tenuto alla comunicazione abbia certezza che la stessa è stata già effettuata dall’altro soggetto obbligato”.
Peraltro, l’omissione di siffatto obbligo di comunicazione da parte degli intermediari è punita ai sensi del disposto dell’art. 63 del medesimo D.Lgs. 231/2007.
“Ebbene, conclude il Collegio decidente, alla stregua dei citati precetti normativi, nella fattispecie l’operato della banca negoziatrice non appare censurabile nella misura in cui ha provveduto a comunicare agli organi competenti l’infrazione riscontrata ottemperando con la diligenza richiesta dall’art. 1176, comma 2, cod. civ., a precisi obblighi di legge e di riservatezza imposti dalla disciplina antiriciclaggio, in relazione a un illecito connotato dal carattere di oggettività (arg. ex art. 3, legge n. 689/1981, norma che stabilisce l’equiparazione del dolo e della colpa) – qual è la violazione dell’art. 49, comma 5, d.lgs. n. 231/2007 – che si configura nel momento stesso in cui l’assegno privo dei necessari requisiti viene portato all’incasso dal prenditore (cfr. ABF Coll.Palermo, Dec. n. 16001/2022[1]). Si osserva inoltre che l’irregolarità di cui all’art. 49 non incide sull’efficacia degli atti; la disciplina antiriciclaggio, infatti, non influenza la normativa civilistica che regola la circolazione e l’incasso degli assegni, i quali restano pagabili in caso di provvista anche in costanza di comunicazione dell’infrazione al Ministero. Ne consegue che una regola di condotta la quale imponga prudenzialmente a carico dell’intermediario ulteriori attività di natura informativa sui doveri o divieti in capo al cliente prenditore in relazione alla fattispecie in esame non è rintracciabile all’interno dell’ordinamento positivo (cfr. ABF Coll. Milano, Dec. n. 11501/2016)[2]”.
Ed anzi – sottolinea il Collegio arbitrale – va valutato come “un assegno trasferibile o privo dell’indicazione del beneficiario è assimilabile, nella sostanza, a un titolo al portatore pagabile a vista a colui che lo esibisce per l’incasso. Ciò lo rende sostanzialmente equiparabile al contante per cui è sottoposto a limitazioni dall’ordinamento con finalità di prevenzione e contrasto del riciclaggio e dell’evasione fiscale, donde l’apposizione del nome del beneficiario e l’utilizzo della clausola di “non trasferibilità” assicurano la piena tracciabilità della transazione sottostante. All’uopo, il Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (cd. legge antiriciclaggio) e successive modificazioni, detta le disposizioni volte a limitare l’utilizzo di denaro contante e a favorire la tracciabilità dei pagamenti prevedendo, inter alia, requisiti stringenti per l’uso degli assegni bancari, con riferimento alla clausola di non trasferibilità connessa all’importo del titolo”.
In altri termini, sulla scorta della vigente normativa e dell’interpretazione arbitrale della stessa, in capo all’intermediario non sussiste nei confronti della clientela alcun obbligo informativo o di controllo in relazione a violazioni della specie. Ed anzi, al contrario, sulla Banca incombe un diverso, se non opposto, obbligo che è quello di provvedere alla tempestiva segnalazione della violazione, pena incorrere – essa stessa – nelle sanzioni stabilite dalla norma[3].
Tornando alla metafora iniziale, si confrontano due libertà che – pur intersecandosi – restano distinte e a differenti ambiti di responsabilità conducono. Da un lato, i doveri che incombono sulla Banca e cui essa deve ispirare la propria condotta in tutte le fasi della propria operatività nei rapporti con i clienti: l’osservanza della correttezza (art. 1175 c.c.) e della diligenza professionale (art. 1176 comma 2 c.c.) (cfr. inter alia, Collegio di Milano, pronuncia n. 2980 del 31/05/2013). Dall’altro, il rispetto di superiori principi di natura pubblicistica (l’articolata normativa antiriciclaggio di cui al D.Lgs. 231/2007 e ss.mm.ii.) che risultano presidiati da ben precisi obblighi segnaletici cui l’intermediario deve attenersi. Sovviene il paradosso filosofico della forza inarrestabile e dell’ostacolo inamovibile. Cosa accade quando una forza inarrestabile incontra un ostacolo inamovibile? Domanda impegnativa. Tanto impegnativa da non avere risposta. All’interno di un medesimo sistema dato, non possono a un tempo esistere una forza e un ostacolo assiomaticamente e rispettivamente inarrestabile e inamovibile. Perché se la forza, davvero fosse inarrestabile, essa non potrebbe essere fermata da alcun ostacolo inamovibile. E per converso, e correlativamente, di fronte a un ostacolo per definizione inamovibile, qualsiasi forza dovrebbe arrestarsi. Nessun sistema coerente può porre a proprio fondamento due postulati o principi che si contraddicono. Assai semplicemente, l’uno dei due dovrà cedere innanzi all’altro[4].
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[1] ABF, Collegio di Palermo, Decisione n. 16001/2022: “La questione sottoposta al Collegio concerne l’accertamento della responsabilità dell’intermediario resistente, quale banca negoziatrice di un assegno emesso in violazione dell’art. 49, comma V, del d. lgs 231/2007, in quanto privo della clausola di non trasferibilità, per non aver rifiutato di incassare il titolo o quantomeno per non avere informato il ricorrente dell’irregolarità. Parte istante lamenta, in particolare, la condotta negligente della Banca che ha proceduto direttamente alla segnalazione al MEF da cui è scaturita l’irrogazione della sanzione a carico del ricorrente, corrisposta dallo stesso e di cui chiede la restituzione. Orbene, sul punto si richiama la normativa di cui al d. lgs 231/2007, che non prevede in capo all’intermediario resistente, quale banca negoziatrice, nessun obbligo di informativa circa l’irregolarità dell’assegno privo della clausola di “non trasferibilità” e conseguentemente una qualche responsabilità. […] Nella sostanza deve ritenersi che, come correttamente rilevato da parte resistente, la violazione della disposizione di cui all’art. 49 del d. lgs 231/2007 si configura nel momento stesso in cui viene emesso e poi portato all’incasso un assegno privo dei previsti requisiti”.
[2] Sul punto, cfr. altresì ABF, Collegio di Milano, Decisione n. 22026/2019 (in cui si richiama la già cennata decisione del collegio meneghino del 2016): “…non può ritenersi che gli obblighi di correttezza e buona fede dell’intermediario possano spingersi sino a ricomprendere anche l’obbligo di una piena informativa sui doveri/divieti posti in capo direttamente al cliente, dovendosi ritenere, in ogni caso, prevalente ed assorbente la violazione di tali doveri incombenti, anzitutto, sul cliente e, di conseguenza, allo stesso imputabile (cfr. anche Coll. Milano, decisione n. 11501 del 2016).
[3] A differente e opposta conclusione perviene ABF, Collegio di Milano, Decisione n. 5400 del 24 marzo 2020. Ma – è d’uopo sottolinearlo – su assai differenti presupposti di fatto. Nel caso di specie, l’assegno – privo dell’indicazione del beneficiario – sarebbe stato avvalorato dall’operatore di sportello con la dicitura “me medesimo”. Circostanza dalla quale sarebbe poi scaturita la segnalazione al MEF da parte dell’intermediario stesso. Il Collegio, rispetto a tale casistica, così argomenta: “Orbene, se da un lato è di tutta evidenza che il titolo in questione non poteva essere negoziato, in quanto non contenente il nominativo del beneficiario, non si può perciò stesso imputare al ricorrente (e presunto beneficiario) di aver presentato il titolo in filiale, in quanto avrebbe dovuto essere immediatamente avvertito dal personale della banca che il titolo in questione non era negoziabile, e ciò in base al principio di buona fede e correttezza cui deve essere improntato il rapporto contrattuale tra banca e cliente. La banca invece, per mano dell’operatore di sportello, e su stessa ammissione dell’intermediario resistente, ha negoziato il titolo, senza minimamente avvisare il ricorrente dell’impossibilità di compiere l’operazione. Una volta negoziato il titolo, l’aver proceduto alla segnalazione all’Autorità Antiriciclaggio costituisce peraltro un venire contra factum proprium da parte dello stesso intermediario, che già ha violato l’obbligo di buona fede e correttezza nei confronti del proprio cliente (quale era, in questo caso, il ricorrente). Al cliente spetta quindi il rimborso della somma oggetto di sanzione per violazione dell’art. 49 del d. lgs. 231/2007”.
[4] La fonte tradizionale della legge di non contraddizione è la Metafisica di Aristotele ove il filosofo espone il medesimo principio sotto tre distinti profili: ontologico, psicologico e logico (Cfr. Wikipedia, principio di non contraddizione):
- ontologico: “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”;
- psicologico: “Nessuno può credere che la stessa cosa possa (allo stesso tempo) essere e non essere”;
- logico (la Lex Contradictoriarum medievale): “Il più certo di tutti i principi di base è che le proposizioni contraddittorie non sono vere simultaneamente.
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