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Nota a App. Lecce, 1 marzo 2022.

di Antonio Zurlo

 

Con la recente sentenza in oggetto, la Corte d’Appello leccese affronta l’inveterata (e, allo stato, ancora controversa) questione dilemmatica afferente al profilo applicativo dei principi dettati dalle Sezioni Unite, con il noto pronunciamento del 2010, in tema di rimesse e prescrizione; segnatamente, se l’accertamento della natura solutoria o, per converso, meramente ripristinatoria della rimessa in conto corrente debba essere condotta in ragione delle originarie annotazioni in contabilità esposte dalla Banca negli estratti conto (c.d. saldo banca), ovvero se, alternativamente, debba essere operata sui saldi già depurati dagli addebiti  riconosciuti come illegittimi (c.d. saldo ricalcolato).

In seno alla giurisprudenza di legittimità si è registrato una sorta di revirement. Invero, dopo un lungo tempo di preferenza per la prima delle due prefate modalità ricostruttive, motivata dal fatto che l’individuazione delle rimesse solutorie, condotta sui saldi già depurati, implicasse una contraddizione logica (pretendendo di escludere le annotazioni indebite oggetto della domanda ripetitoria, rispetto alla quale la prescrizione era stata eccepita), è stato inaugurato un nuovo orientamento, con tre pronunciamenti, nel biennio 2020-2021[1]. Difatti, più nello specifico,  la Suprema Corte, nella sentenza n. 9141/2020, ha precisato che «In tema di apertura di credito in conto corrente, ove il cliente agisca in giudizio per la ripetizione di importi relativi ad interessi non dovuti per nullità delle clausole anatocistiche e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, al fine di verificare se un versamento abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente rideterminare il reale saldo passivo del conto, verificando poi se siano stati superati i limiti del concesso affidamento ed il versamento possa perciò qualificarsi come solutorio.».

Lo stesso Collegio ha, infatti, rilevato come sia «evidente che per verificare se un versamento effettuato dal correntista nell’ambito di un rapporto di apertura di credito in conto corrente abbia avuto natura solutoria o solo ripristinatoria, occorre, all’esito della declaratoria di nullità da parte dei giudici di merito delle clausole anatocistiche, previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente determinare il reale passivo del correntista e ciò anche al fine di verificare se quest’ultimo ecceda o meno i limiti del concesso affidamento. L’eventuale prescrizione del diritto alla ripetizione di quanto indebitamente pagato non influisce sulla individuazione delle rimesse solutorie, ma solo sulla possibilità di ottenere la restituzione di quei pagamenti coperti da prescrizione.».

L’impostazione suggerita dalla Suprema Corte segue lo schema delle domande proposte nel procedimento in cui il cliente – correntista abbia svolto domanda di ripetizione dell’indebito, in considerazione della sussistenza di clausole contrattuali affette da nullità, a fronte dell’eccezione di prescrizione formulata dall’Istituto di credito, relativamente alle poste solutorie. Infatti, l’accertamento preliminare da svolgere è quello relativo alla sussistenza di vizi delle clausole contrattuali, che siano, in quanto tali, determinative di addebiti non dovuti, con successiva rideterminazione del dare – avere tra le parti.

Quanto all’eccezione di prescrizione, questa produce l’effetto estintivo del diritto non solo in ragione del decorso del tempo, ma anche in relazione alla valutazione della natura di una posta come solutoria o, viceversa, ripristinataria, sulla base di un’evidenza che non può essere quella solo apparente del conto c.d. banca originario. Infatti, la posta in conto corrente rappresenta una prestazione adempitiva di un contratto, le cui clausole, dichiarate nulle, non possono non riverberare i propri effetti anche sulla detta appostazione contabile e, consequenzialmente, sulla qualificazione della natura della posta, quale solutoria o ripristinatoria. Se così è, occorre effettuare tale verifica e accertare, quindi, se siano state realmente solutorie, non soltanto in quanto così qualificate dalla Banca, ma in concreto, non potendo, perciò, che far riferimento al c.d. saldo ricalcolato.

In altri termini, la Corte territoriale leccese evidenzia come, per individuare le rimesse aventi funzione di pagamento non ci si possa scientemente affidare alla contabilità della Banca e alle sue periodiche risultanze finali, in quanto (spesso) solo apparenti e virtuali, controvertendosi, innanzitutto, sulla validità delle clausole contrattuali e delle prassi contabili applicate, anche contrarie a norme imperative e inderogabili.

Un’indebita registrazione non può modificare la natura legale del saldo, né, tantomeno, si può ritenere che, decorso il decennio, tale saldo possa legittimamente mutare la reale natura delle poste iscritte. L’elemento giuridico scriminante la rimessa solutoria è dato proprio dalla presenza o meno del capitale liquido ed esigibile, che si configura nel capitale erogato oltre il fido, e occorre, pertanto, accertare la reale disponibilità del correntista, epurando il conto dalle poste illegittime. Per il giudice di seconde cure non può neppure condividersi la considerazione per cui, così facendo, non esisterebbe più alcuna pretesa illegittima “a monte” e, quindi, verrebbe sterilizzato il meccanismo prescrittivo, atteso che, così opinando, si prenderebbe le mosse dalla valutazione dell’effetto per decidere e sostenere la bonarietà del metodo.

 

Qui la sentenza.  

[1] Il riferimento è a Cass. n. 9141/2020; Cass. n. 3858/2021; Cass. n. 24941/2021; tutte e tre le pronunce sono annotate sul nostro Portale.

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