Nota a Cass. Civ., Sez. II, 17 ottobre 2023, n. 28827.
Con l’ordinanza n. 28827 del 17/10/2023, la Corte di Cassazione ha avuto modo di ritornare ad esprimersi in tema di garanzia nel contratto di vendita di un bene di consumo, precisando entro quali limiti temporali il venditore si possa ritenere responsabile per il difetto di conformità del bene venduto e quali siano gli oneri probatori a carico dell’acquirente.
Il fatto.
La questione sottoposta al vaglio dei Giudici di legittimità è sorta in seguito alla decisione di un consumatore di citare in giudizio la concessionaria da cui aveva acquistato un’autovettura usata, denunciando il vizio di conformità del veicolo e richiedendo “la risoluzione del contratto di vendita per inadempimento della venditrice, con restituzione del prezzo” e la condanna della convenuta al risarcimento dei danni.
Più nel dettaglio, l’attore denunciava che il veicolo, dopo un anno dall’acquisto, si era guastato e, portata la vettura presso un’officina autorizzata, veniva riscontrata “la rottura del turbocompressore e degli ammortizzatori”; successivamente, “trascorsi cinque mesi circa, l’autovettura si guastava ancora e la stessa officina autorizzata (…) riscontrava la rottura della scatola dello sterzo (…); in tale occasione, veniva anche comunicato all’attore che il numero di Km indicato dal display” dell’automobile, “era di gran lunga inferiore a quello effettivamente percorso dall’autovettura”.
Costituitasi in giudizio, la società convenuta chiedeva ed otteneva di chiamare in garanzia il precedente proprietario del veicolo, che, però, rimaneva contumace.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello accoglievano le domande dell’acquirente.
In particolare, la Corte d’Appello adita aveva evidenziato che “la responsabilità della venditrice trovava fondamento nella proposta di acquisto dell’autovettura” formulata dalla concessionaria e “che non potesse trovare applicazione la clausola che riduceva ad un anno la garanzia, stante la presunzione di vessatorietà della stessa ex art. 33 del Codice del consumo, non specificamente sottoscritta dal consumatore. Né era stata dimostrata l’eccepita decadenza dalla garanzia, non prevedendo l’art. 132 d.lgs. n. 206 del 2005 l’obbligo di una denuncia scritta (…) per cui i vizi lamentati erano presumibilmente da ascrivere non già ad usura del veicolo ovvero a cattiva manutenzione da parte dell’acquirente, ma al numero di chilometri effettivamente percorsi pari a 250.000 km anziché ai 114.000 km indicati nel display”. Non veniva accolta dalla Corte territoriale neanche la domanda in manleva poiché “non essere stato dimostrato colui che aveva effettivamente manomesso il contachilometri della autovettura in questione”.
Avverso tale pronuncia, la società venditrice propone ricorso per Corte di Cassazione, cui ha resistito con controricorso l’acquirente, mentre il terzo chiamato in garanzia è rimasto contumace.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati tutti e tre i motivi proposti e ha rigettato il ricorso.
La decisione della Suprema Corte.
In particolare, col primo motivo, la ricorrente aveva lamentato “la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., precisamente degli artt. 33, 34 e 36 del Codice del Consumo e 1341 c.c., per avere considerato applicabile la presunzione di vessatorietà di cui all’art. 33, comma 2 d.lgs. n. 206/2005 relativamente alla clausola di riduzione della durata della garanzia di conformità del bene venduto (ad un anno, anziché due), oggetto di specifica trattativa di cui, a detta della Corte distrettuale, non era stata fornita prova”.
Secondo la società ricorrente, difatti, “il bene oggetto di garanzia era un bene usato per il quale lo stesso Codice del Consumo, all’art. 134 comma 2, statuisce che le parti possono limitare la durata della tutela di cui all’art. 1519 comma primo, c.c. ad un periodo in ogni caso non inferiore ad un anno”. Tale riduzione di garanzia veniva concordata con l’acquirente del veicolo, “prima dell’acquisto del bene, con la stessa proposta di acquisto (…), che veniva regolarmente sottoscritta dallo stesso; ed ancora, l’acquirente era consapevole di avere acquistato un’auto “nello stato e nelle condizioni in cui si trova, come vista e piaciuta”, come si evince dalla fattura di acquisto (…), per cui nessun inadempimento vi è stato da parte della venditrice, che ha consegnato l’auto perfettamente funzionante e conforme al contratto di vendita.
Sempre secondo la ricorrente, “il lasso di tempo intercorso tra la data di acquisto e il momento in cui i difetti si sono manifestati (comunque, ben oltre l’anno dall’acquisto) non poteva automaticamente far presumere che gli stessi fossero imputabili ad un difetto di conformità del bene, solo perché il Giudice di prime cure aveva considerato componenti essenziali tali parti, trattandosi, in ogni caso, di un veicolo usato, che veniva acquistato nella piena accettazione dello stato in cui si trovava in quel momento (…). Quanto, invece, alla difformità tra il numero di Km indicato dal display” dell’autovettura e quelli effettivamente percorsi “non è stato dimostrato che i guasti si siano verificati a causa della differenza del chilometraggio indicato”.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha rigettato tale assunto.
L’iter argomentativo dei giudici di legittimità parte dall’inquadramento sistematico della fattispecie nell’alveo della vendita dei beni di consumo, per poi addentrarsi nel suo corretto inquadramento normativo, delimitando i confini applicativi delle norme codicistiche di riferimento rispetto alla normativa speciale di cui al codice del consumo, alla luce anche della normativa e della giurisprudenza europea.
In primo luogo, gli Ermellini hanno ritenuto che la fattispecie sottoposta al vaglio di legittimità sia stata correttamente inquadrata dalla Corte territoriale “nell’alveo della vendita di beni di consumo e ciò avuto riguardo al principio secondo cui il giudice nazionale, investito di una controversia cui si applica la Dir. n. 1999/44/CE (…), è tenuto, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto o possa disporne su semplice domanda di chiarimenti, a verificare se l’acquirente possa essere qualificato come “consumatore’, anche se questi non ne abbia espressamente rivendicato la qualità.
Sul rapporto tra normativa codicistica e normativa speciale.
Successivamente, appurato che le parti in causa rivestivano le qualità soggettive richieste dalla legge per l’applicazione della disciplina in discorso, gli Ermellini hanno ribadito il principio – già espresso in più occasione dalla Suprema Corte -, secondo cui “in tema di vendita di beni di consumo, si applica innanzitutto la disciplina del codice del consumo (art. 128 e ss.), a fronte della deduzione di una fattispecie che rientri nelle relative previsioni (iura novit curia facta sunt probanda), potendosi applicare la disciplina del codice civile in materia di compravendita solo per quanto non previsto dalla normativa speciale., attesa la chiara preferenza del legislatore per la normativa speciale ed il conseguente ruolo “sussidiario” assegnato alla disciplina codicistica [1]”.
Tale conclusione, secondo i Giudici di Piazza Cavour, “è supportata, sul piano normativo dal dettato dell’art. 135, secondo comma, cod. cons. – secondo il testo vigente ratione temporis, posto che il capo dedicato alla vendita di beni di consumo, di cui agli artt. 128-135 della disciplina consumeristica, risente, allo stato, delle modifiche apportate dall’art. 1, primo comma, del d.lgs. 4 novembre 2021, n. 170, che, ai sensi del suo art. 2, primo comma, hanno efficacia a decorrere dal 10 gennaio 2022 -, il quale prevede che, in tema di contratto di vendita, le disposizioni del codice civile si applicano “per quanto non previsto dal presente titolo” [2]; ancora di più dal disposto dell’art. 1469-bis c.c., secondo cui le disposizioni del titolo secondo del libro quarto del codice civile, dedicato ai contratti in generale, si applicano ai contratti del consumatore “ove non derogate dal codice del consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore“.
Pertanto, prosegue la Suprema Corte, “poiché nella motivazione della sentenza impugnata si fa riferimento ad un acquisto di automobile usata da un concessionario da parte di una persona fisica per uso personale, correttamente ha trovato applicazione la speciale disciplina dettata per la vendita di beni di consumo – più favorevole al consumatore, nella prospettiva di sanare la fisiologica asimmetria che ricorre rispetto al professionista -, normativa applicabile d’ufficio dal giudice, in forza del brocardo latino da mihi factum, dabo tibi ius”.
Ne consegue, che, in applicazione “dell’art. 132, secondo e terzo comma, cod. cons. – secondo la versione vigente ratione temporis [3] – il Giudice del gravame è tenuto ad accertare che il vizio sia stato denunciato entro due mesi dalla scoperta e applicare la presunzione circa l’esistenza del difetto alla data della consegna, a meno che tale ipotesi sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità. Previsione che ben si raccorda con l’art. 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/44, che deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una norma nazionale, la quale preveda che il consumatore, per usufruire dei diritti che gli spettano in forza di tale direttiva, debba denunciare tempestivamente al venditore il difetto di conformità, a condizione che tale consumatore, per procedere a detta denuncia, disponga di un termine non inferiore a due mesi a decorrere dalla data in cui ha constatato tale difetto, che la denuncia cui occorre procedere verta solo sull’esistenza di detto difetto e che essa non sia assoggettata a regole relative alla prova”[4].
Alla luce di tale ricostruzione e tenuto conto delle argomentazioni rassegnate nella sentenza impugnata, la Suprema Corte ha ritenuto evidente la sussistenza di “tutti i presupposti per affermare la responsabilità del venditore e ciò per avere l’acquirente allegato e dimostrato uno specifico difetto di conformità”. Infatti secondo i giudici di legittimità, risulta dimostrato che l’acquirente “ha denunciato il vizio di conformità della vettura acquistata, la ben maggiore vetustà del bene rispetto a quella apparente e desumibile dal chilometraggio percorso, quale asserita causa scatenante dei ripetuti guasti del mezzo (rottura del turbocompressore e degli ammortizzatori, con successiva rottura della scatola dello sterzo) – prontamente denunciati dallo stesso (…), oltre che dimostrati dal tenore della deposizione del teste – per cui doveva ritenersi integrata la nozione di difetto di conformità che può trarsi dall’art. 129 secondo comma, cod. cons., sempre secondo la versione vigente ratione temporis” [5].
Quindi, secondo gli Ermellini, il Giudice di secondo grado, “nel dare atto che l’acquirente aveva tempestivamente denunciato il difetto di conformità nei tempi previsti dalla scoperta del vizio e comunque entro il biennio dall’acquisto, non provata dalla società ricorrente la specifica trattativa sulla pattuizione di un termine di garanzia inferiore (un anno), trattandosi di clausola pacificamente vessatoria, per la quale occorreva una prova rigorosa, ai sensi dell’art. 36, prima e secondo comma d.lgs. n. 206/2005”, ha fatto buon governo dei principi espressi della Suprema Corte”. ergo, “la sentenza non è incorsa in alcuna delle violazioni di legge denunciate”.
Sulla “natura presunta” della responsabilità da prodotto difettoso.
La Corte di Cassazione, inoltre, ha ritenuto privo di pregio anche il secondo motivo con il quale la ricorrente lamentava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 132, comma 2 del Codice del Consumo e 1495 c.c., “per avere considerato adempiuto nei termini di legge l’obbligo di denuncia dei vizi del bene da parte del compratore”.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, “dal combinato disposto degli artt. 129 e ss. del summenzionato codice si desume che il venditore è responsabile nei riguardi del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene allorché tale difetto si palesi entro il termine di due anni dalla predetta consegna”. Inoltre, “il difetto di conformità consente al consumatore di esperire i vari rimedi contemplati all’art.130 cit., i quali sono graduati, per volontà dello stesso legislatore, secondo un ben preciso ordine: egli potrà in primo luogo proporre al proprio dante causa la riparazione ovvero la sostituzione del bene e, solo in secondo luogo, nonché alle condizioni contemplate dal comma 7, potrà richiedere una congrua riduzione del prezzo oppure la risoluzione del contratto”. Resta fermo, naturalmente, che “per poter usufruire dei diritti citati, il consumatore ha l’onere di denunciare al venditore il difetto di conformità nel termine di due mesi decorrente dalla data della scoperta di quest’ultimo.
È stato altresì precisato che “il Codice del Consumo prevede una presunzione a favore del consumatore, inserita nell’art.132 terzo comma, a norma del quale si presume che i difetti di conformità, che si manifestino entro sei mesi dalla consegna del bene, siano sussistenti già a tale data. Superato il suddetto termine, trova nuovamente applicazione la disciplina generale posta in materia di onere della prova posta dall’art. 2697 c.c.: ciò implica che il consumatore che agisce in giudizio sia tenuto a fornire la prova che il difetto fosse presente ab origine nel bene, poiché il vizio ben potrebbe qualificarsi come sopravvenuto e dipendere conseguentemente da cause del tutto indipendenti dalla non conformità del prodotto.
Corollario di questo principio è che il consumatore deve provare l’inesatto adempimento, mentre è onere del venditore provare, anche attraverso presunzioni, di aver consegnato una cosa conforme alle caratteristiche del tipo ordinariamente prodotto, ovvero la regolarità del processo di fabbricazione o di realizzazione del bene; solo ove detta prova sia stata fornita, spetta al compratore di dimostrare l’esistenza di un vizio o di un difetto intrinseco della cosa ascrivibile al venditore” [6].
Del resto, proprio il quadro normativo appena illustrato, ha portato la giurisprudenza di legittimità “a ritenere che la responsabilità da prodotto difettoso abbia natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall’accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell’esistenza di un difetto del prodotto”. Ne consegue che “incombe (…) sul soggetto danneggiato he – ai sensi dell’art. 120 del d.lgs. n. 206 del 2005 (c.d. codice del consumo), come già previsto dall’8 del d.P.R. n. 224 del 1988 – la prova del collegamento causale non già tra prodotto e danno, bensì tra difetto e danno e, una volta fornita tale prova, incombe sul produttore – a norma dell’art. 118 dello stesso codice – la corrispondente prova liberatoria, consistente nella dimostrazione che il difetto non esisteva nel momento in cui il prodotto veniva posto in circolazione, o che all’epoca non era riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche [7].
D’altra parte, come sottolineano gli Ermellini, “è evidente che il venditore, a differenza del consumatore, può avvalersi più facilmente di mezzi organizzativi e delle competenze tecniche che consentono di effettuare la necessaria diagnosi del problema al fine di appurare l’esistenza del vizio”.
Ecco quindi perché “a carico del consumatore grava l’onere di denunciare il difetto di conformità attraverso la tempestiva comunicazione dell’esistenza del difetto di conformità, senza che occorra la prova di tale difetto o che ne venga indicata la causa”.
A conferma delle proprie conclusioni, i giudici di Pizza Cavour hanno richiamato sia la disciplina prevista dalla direttiva europea n. 1999/44/CE sulle garanzie dei beni di consumo, di cui il Codice del consumo costituisce la legge di trasposizione in Italia, sia la sentenza della Corte di giustizia 4 giugno 2015, causa c497/13 (nota come il caso Faber) [8].”.
Sulla denuncia del difetto di conformità e sull’onere della prova del consumatore.
Quanto all’onere della prova gravante sul consumatore per la denuncia del difetto di conformità, la pronuncia precisa come “tale onere debba essere limitato al mero obbligo di denuncia, senza necessità di produrre una prova dell’esistenza del difetto o di indicare la causa precisa del medesimo. Si ricorda, infatti, in proposito che la Direttiva 1999/44 consente agli Stati membri di prevedere che il consumatore, per fruire dei suoi diritti, debba denunciare al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui lo ha constatato. Secondo i lavori preparatori della Direttiva, tale possibilità mira a soddisfare l’esigenza di rafforzare la certezza del diritto, incoraggiando l’acquirente ad adoperare una «certa diligenza, tenendo conto degli interessi del venditore», «senza istituire un obbligo rigoroso di effettuare di effettuare un’ispezione meticolosa del bene» [9].
Per quanto concerne la forma della denuncia, viene ribadito il principio secondo cui “la denunzia dei vizi da parte del compratore, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1495 c.c., può essere fatta, in difetto di una espressa previsione di forma, con qualunque mezzo che in concreto si riveli idoneo a portare a conoscenza del venditore i vizi riscontrati” [10].
Infine, non ha trovato accoglimento neanche il terzo e ultimo motivo del ricorso col quale veniva dedotta “la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c in relazione all’art. 132 n. 4 c.p.c per motivazione apparente nella parte relativa alla domanda di manleva” proposta nei confronti del precedente proprietario del veicolo.
Ergo, sulla base di tutte le considerazioni innanzi espresse, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del resistente.
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[1] Cfr.: Cass. 30 giugno 2020 n. 13148 e Cass. 30 maggio 2019 n. 14775. In senso conforme si vedano anche le più recenti: Cass. Civ., Sez. II, 7 febbraio 2022, n. 3695 (e il relativa nota “Difetto di conformità e onere della prova”, a cura dell’avv. Francesca D’Avino, pubblicato su https://www.dirittodelrisparmio.it/2022/09/20/difetto-di-conformita-e-onere-della-prova/) e Cass. Civ., Sez. II, 4 luglio 2022, n. 21084 (e la relativa nota “Difetto di conformità: disciplina consumeristica e semplificazione probatoria, sempre pubblicata su https://www.dirittodelrisparmio.it/2022/07/05/).
[2] Il D.lgs n. 170/2021, in attuazione della Direttiva UE 2019/771, ha introdotto una serie di modifiche al Codice del Consumo, destinate ad applicarsi a tutti i contratti di vendita (dunque anche online) tra un consumatore e un venditore conclusi dopo il 1° gennaio 2022. L’intero Capo I del titolo III della Parte IV del Codice del Consumo, contenente gli articoli da 128 a 134 riguardanti appunto la garanzia legale di conformità, è sostituito dai nuovi articoli da 128 a 135 septies. Una delle novità più rilevanti è rappresentata dall’eliminazione dell’obbligo per il consumatore di denunciare i vizi entro due mesi dalla scoperta. Si segnala, inoltre, la direttiva 1999/44/CE è stata abrogata e sostituita dalla direttiva (UE) 2019/771 a far data dal 1° gennaio 2022.
[3] L’art. 132 cod. consumo nella previgente versione, prevedeva: “1. Il venditore è responsabile, a norma dell’articolo 130, quando il difetto di conformità si manifesta entro il termine di due anni dalla consegna del bene. 2. Il consumatore decade dai diritti previsti dall’articolo 130, comma 2, se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto. La denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del difetto o lo ha occultato. 3. Salvo prova contraria, si presume che i difetti di conformità che si manifestano entro sei mesi dalla consegna del bene esistessero già a tale data, a meno che tale ipotesi sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità. 4. L’azione diretta a far valere i difetti non dolosamente occultati dal venditore sì prescrive, in ogni caso, nel termine di ventisei mesi dalla consegna del bene; il consumatore, che sia convenuto per l’esecuzione del contratto, può tuttavia far valere sempre i diritti di cui all’articolo 130, comma 2, purché’ il difetto di conformità sia stato denunciato entro due mesi dalla scoperta e prima della scadenza del termine di cui al periodo precedente”. Tale disposizione è stata interamente modificata dall’art. art. 1, comma 1, del D.Lgs. 4 novembre 2021, n. 170. Il D.Lgs. 4 novembre 2021, n. 170 ha disposto (con l’art. 2, comma 1) che la modifica acquista efficacia a decorrere dal 1° gennaio 2022 e si applica ai contratti conclusi successivamente a tale data. Attualmente, la norma in parola dispone “1. I rimedi di cui all’articolo 135 bis si estendono ai casi di impedimento o limitazione d’uso del bene venduto in conformità a quanto previsto dagli articoli 129 e 130, conseguenti ad una restrizione derivante dalla violazione di diritti dei terzi, in particolare di diritti di proprietà intellettuale, fatte salve altre disposizioni previste dall’ordinamento giuridico in tema di nullità, annullamento o altre ipotesi di scioglimento del contratto”.
[4] Per un approfondimento sull’argomento si vedano, tra i tanti: Macario, Brevi considerazioni sull’attuazione della direttiva in tema di garanzie nella vendita di beni di consumo, in Contr. e impr./Eur., 2001, 151 e Pagliantini, Contratti di vendita di beni: armonizzazione massima, parziale e temperata della Dir. UE 2019/771, in Giur. it., 2020, 223.
[5] Per una ‘spiegazione’ dell’art. 129 Cod. Consumo, si veda: https://www.brocardi.it/codice-del-consumo/parte-iv/titolo-iii/capo-i/art129.html; in dottrina v., per tutti, S. Patti, Commento all’art. 129 – I, in C.M. Bianca (a cura di), La vendita dei beni di consumo. Artt. 128-135, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Padova, 2006, p. 75.
[6] Cfr.: Cass. 21 settembre 2017 n. 21927; Cass. n. 20110/2013 cit.
[7] Cfr.: Cass. 20 novembre 2018, n.29828; Cass. 20 novembre 2018 n.29828.
[8] Si veda: Corte di giustizia, sent. della 4 giugno 2015, causa c497/13 Froukje Faber contro Autobedrijf Hazet Ochten BV (nota come il caso Faber) dove i giudici di Lussemburgo evidenziano che “come emerge dalla formulazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/44, letto in combinato disposto con il suo considerando 19, e dalla finalità perseguita da tale disposizione, l’onere fatto gravare sul consumatore non può spingersi oltre quello consistente nel denunciare al venditore l’esistenza di un difetto di conformità. Quanto al contenuto di tale informazione, in questa fase non si può esigere che il consumatore produca la prova che effettivamente un difetto di conformità colpisce il bene che ha acquistato. Tenuto conto dell’inferiorità in cui egli versa rispetto al venditore per quanto riguarda le informazioni sulle qualità di tale bene e sullo stato in cui esso è stato venduto, il consumatore non può neppure essere obbligato ad indicare la causa precisa di detto difetto di conformità. Per contro, affinché l’informazione possa essere utile per il venditore, essa dovrebbe contenere una serie di indicazioni, il cui grado di precisione varierà inevitabilmente in funzione delle circostanze specifiche di ciascun caso di specie, vertenti sulla natura del bene in oggetto, sul tenore del corrispondente contratto di vendita e sulle concrete manifestazioni del difetto di conformità lamentato” (cfr. punti 62 e 63 della sentenza). Inoltre, come ricorda la Cassazione, in detta pronuncia “la Corte di Giustizia fornisce una serie di ragguagli sull’interpretazione della Direttiva 1999/44/CE, sulla vendita e sulle garanzie dei beni di consumo, in particolare per quanto riguarda l’ambito di applicazione dell’art. 5 della medesima sulle modalità di denuncia del difetto di conformità da parte dell’acquirente del bene di consumo. I giudici di Lussemburgo, innanzitutto, confermano che, data la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si fonda la tutela che l’art. 5, par. 3, garantisce ai consumatori, tale disposizione debba considerarsi una norma equivalente a una norma nazionale di ordine pubblico, con possibilità del giudice di avvalersene applicandola anche d’ufficio”.
La Corte di giustizia si era però espressa in tal senso anche in precedenza, cfr.: Corte giust. Ue, Sez. I, 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones, punti da 52 a 54, dove si possono trovare citati anche ulteriori riferimenti giurisprudenziali.
[9] È interessante osservare che la Direttiva UE 2019/771 lasciava liberi gli Stati membri di mantenere o introdurre il termine di decadenza di almeno due mesi, ma è stato proprio il Legislatore italiano, forse con l’intento di uniformarsi a quanto già previsto da altri Stati membri, ad eliminare detto termine.
[10] Cfr.: Cass. sent. n. 5142 del 3 aprile 2003; Cass., Sez. Un., sent. n. 328 del 15 gennaio 1991.
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Info sull'autore
Laureata presso Università degli studi di Cagliari, avvocata, iscritta presso l’ordine degli avvocati di Oristano, con pluriennale esperienza nell’ambito del diritto bancario e finanziario (sia nella difesa attiva e passiva degli Istituti di Credito sia, attualmente, nella difesa stragiudiziale e giudiziale degli utenti bancari). Si occupa di contenzioso civile, con un focus particolare nelle cause di diritto bancario e finanziario, diritto dei consumatori, crisi d'impresa e sovraindebitamento, procedure esecutive, diritto del lavoro, diritto di famiglia, responsabilità professionale, usucapioni, locazioni e diritto successorio ed ereditario e recupero crediti. Advisor e legale nelle procedure di sovraindebitamento e di gestione della crisi d’impresa e abilitata come Gestore della Crisi da sovraindebitamento.