Nota a Trib. Monza, Sez. I, 21 novembre 2022, n. 2342.
Con sentenza del 2342 del 21.11.2022, il Tribunale di Monza ha condannato a risarcire il danno dovuto all’acquisto dei diamanti da investimento.
Si tratta della prima sentenza di condanna nei confronti di una banca diversa da quelle sanzionate con le note delibere dell’AGCM.
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Le circostanze fattuali.
L’attore è stato per anni cliente correntista della Banca Popolare convenuta (poi incorporata in altro Istituto di credito). Nel 1998, un impiegato della Banca, in occasione di un incontro in filiale per decidere come impiegare il proprio capitale, gli suggeriva di acquistare diamanti da investimento, in quanto si trattava di un’operazione sicura e priva di rischi avendo ad oggetto un bene cd. “rifugio” per eccellenza, agevolmente liquidabile, quotato a livello internazionale e certificato dai più autorevoli istituti gemmologici mondiali. Egli, pertanto, facendo esclusivo affidamento su quanto riferitogli dalla Banca e rassicurato dai grafici, dalle quotazioni di mercato rammostrate e dal fatto che lo stesso impiegato che curava normalmente la sua posizione lo aveva assistito durante le operazioni di acquisto, aveva deciso di investire la somma complessiva di Lire 93.295.000,00 (pari ad € 48.182,84) per l’acquisto di otto diamanti. Il predetto impiegato diversi anni dopo gli consegnava un documento datato 17.01.2014, nel quale comparivano il codice investimento e il nome della banca, da cui si evinceva che il suo investimento aveva reso, nel corso degli anni, il 77,64%, passando da € 48.182,84 ad € 85.592,77. Solo in seguito, tramite articoli di giornale e servizi televisivi, si era reso conto che l’investimento in diamanti non era un’operazione sicura e che i valori pubblicati su “IlSole24Ore” – che gli erano stati mostrati – erano valori in realtà fissati dalla stessa società venditrice, mentre l’effettivo valore dei diamanti era notevolmente inferiore rispetto a quello che gli era stato fatto credere.
Parte convenuta sostiene che i propri dipendenti non avessero mai consigliato al cliente-attore di acquistare i diamanti oggetto di causa, né avevano mai assicurato alcun tipo di rendita. E che l’allora Banca Popolare non fosse stata oggetto dell’accertamento dell’AGCM che ha sanzionato altri primari istituti di credito che, in cambio di laute commissioni, avevano spinto i propri clienti ad acquistare diamanti da investimento dalla società IDB ad un prezzo notevolmente maggiore a quello di vendita.
Le questioni di diritto.
La prescrizione. La Banca ha preliminarmente sollevato l’eccezione di prescrizione dell’azione risarcitoria a titolo contrattuale con riguardo a tutti i corrispettivi versati ad IDB relativamente ai contratti di acquisto di diamanti di cui è causa, essendo trascorsi più di dieci anni tra la data di compravendita dei singoli diamanti (dicembre 1998) e la data di notifica dell’atto introduttivo del presente giudizio nei confronti della Banca avvenuta in data 14 settembre 2020.
Il giudice di Monza ha ritenuto che l’inadempimento della Banca fosse riconducibile ad una condotta istantanea realizzata nel momento in cui ha favorito, o comunque consentito, la conclusione del contratto di acquisto dei diamanti, ma che tale inadempimento si è perpetrato per tutto il periodo di durata della gestione dei prodotti da investimento acquistati. Analogamente, il danno, per quanto si fosse verificato già al momento dell’acquisto, si è consolidato solo nel corso del rapporto nel momento in cui si è reso percepibile a seguito delle notizie di stampa e del fallimento della venditrice, allorché l’unica possibilità per l’investitore sarebbe stata quella di vendere i beni sul libero mercato, al di fuori del meccanismo di ricollocazione prospettato all’atto dell’acquisto. Per tali ragioni il Giudice ha respinto l’eccezione di prescrizione.
La natura della responsabilità della Banca. Ai sensi dell’articolo 1856 cod. civ., la banca “risponde secondo le regole del mandato per l’esecuzione di incarichi ricevuti dal correntista o da altro cliente”, ma è tenuta, più in generale, per il fatto che svolge un’attività di servizio organizzata e che comprende, contrattualmente, una molteplicità di prestazioni di servizio, gestorie e di custodia, nell’interesse del cliente, anche al rispetto degli obblighi ricollegabili alle prestazioni principali ed accessorie proprie delle singole tipologie negoziali, nonché del mandato, del deposito e dei precetti di carattere primario come la correttezza e la diligenza, con la precisazione che la diligenza della banca nell’adempimento dei suoi doveri di mandataria deve essere valutata non in base al parametro dell’osservatore medio, ma secondo il maggior grado di attenzione e prudenza richiesto dalla professionalità del servizio espletato, posto che la prestazione inerisce all’esercizio di un’attività professionale.
Secondo il giudice “appare evidente come siffatto specifico dovere di diligenza e correttezza, rapportato al concetto di professionalità, non possa ritenersi meramente ripetitivo della già più rigorosa attenzione richiesta dalle norme comuni al mandatario, cosicché si deve immaginare che il legislatore abbia voluto porre a carico dell’operatore istituzionale nel campo dei servizi bancari un dovere di diligenza e buonafede del tutto peculiari nell’esercizio delle sue incombenze, e soprattutto nei rapporti con il cliente (e non già mero contraente!), la cui connotazione caratteristica è resa manifesta dagli obblighi di collaborazione, informativi, conoscitivi e di protezione verso la clientela e da quelli che attengono alla razionalizzazione della propria organizzazione interna, finalizzati ad assicurare la più ampia tutela della clientela.”
Dunque, la mancata esplicazione da parte dell’intermediario bancario di informazioni protettive, “esaurienti ed appropriate”, relative ai prodotti comunque negoziati suo tramite è idonea a provocare una scelta non consapevole del cliente i cui effetti pregiudizievoli non possono essere ascrivibili alla sua reale volontà. Tale comportamento viola gli artt. 1337 e 1338 cod. civ. (in ordine alle trattative) e l’art. 1375 cod. civ. (relativo alla fase esecutiva del contratto)
Diamanti come strumenti finanziari. Il Giudice, pur non applicando tutte le norme in materia di intermediazione finanziaria, sembra attribuire alla banca una responsabilità molto simile a quella che prevede l’art. 21 del TUF. È la prima volta che una sentenza in tema di diamanti afferma chiaramente: “Il parametro di riferimento per chi opera nel campo dell’offerta dei servizi di investimento e degli strumenti finanziari al fine di valutare se i prodotti da raccomandare alla clientela siano adeguati è dato dalla chiara rappresentazione della reale misura della tolleranza del cliente al rischio e della sua capacità di sostenere eventuali perdite economiche.
Tale dovere, peraltro, opera non solo con riguardo alla fase iniziale del rapporto, ma presuppone che sia costantemente monitorato, nella fase esecutiva, dall’intermediario l’insieme delle informazioni relative alla persistenza dell’adeguatezza dell’operazione rispetto alle caratteristiche personali ed agli obiettivi del cliente, imponendogli di intervenire con opportuni correttivi, ove non già previsti in fase negoziale, al fine di assicurare effettiva protezione alla posizione del cliente nel caso in cui si possa determinare, anche a fronte di eventi anomali sopravvenuti o, comunque, non correttamente valutati o difficilmente valutabili all’origine, una condizione di squilibrio non preventivata.
Nella specie, l’acquisto dei diamanti quale prodotto da investimento non era adeguato già nel momento in cui era stato raccomandato od offerto proprio in quanto non rispondente al miglior interesse del cliente, perché il raggiungimento di quell’effetto positivo prospettato dall’operazione, che avrebbe potuto comprendere anche l’assunzione di un rischio di perdita ma non superiore a quello determinato dalla variabilità del mercato, non era veritiero, posto che tale fattore, per quanto prospettato, avrebbe dovuto essere sempre controllabile tramite quotazioni rese pubbliche, che tuttavia, in realtà, non erano rappresentative del reale valore di mercato delle pietre.”
Quantificazione del danno. Il giudice ritiene che si debba quantificare il danno nella differenza tra il prezzo di acquisto e il valore di attuale realizzo. Si badi che il valore di realizzo è più basso dei listini Rapaport di circa il 30% in quanto rispecchia la cifra che un commerciante di diamanti sarebbe disposto a pagare per acquistare il diamante dall’attore.
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