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Nota a Cass. Civ., Sez. III, 22 marzo 2022, n. 9211.

di Antonio Zurlo

 

Con la recentissima ordinanza in oggetto, la Terza Sezione Civile coglie l’occasione per riproporre quanto statuito dalle Sezioni Unite[1], in tema di leasing finanziario; segnatamente:

  • la disciplina di cui all’art. 1, commi 136-140, l. n. 124/2017 non ha effetti retroattivi, sicché il comma 138 si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge stessa; per i contratti anteriormente risolti resta, per converso, valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente applicazione analogica, a quest’ultima figura, della disciplina dell’art. 1526 c.c., anche ove la risoluzione sia stata seguita dal fallimento dell’utilizzatore (non potendosi applicare analogicamente l’art. 72quaterfall.);
  • tale ultima norma, come noto, prevede che «il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente»;
  • si tratta di «norma imperativa…, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale, presupponendo lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento», non applicabile analogicamente, sebbene espressiva di un generale principio di buona fede contrattuale che (sempre secondo le Sezioni Unite) costituisce indice ermeneutico fruibile anche nell’ipotesi di leasing immobiliare traslativo con clausola penale che regoli il profilo risarcitorio;
  • l’operante art. 1526 c.c., nell’evoluta consapevolezza nomofilattica, comporta, d’altro canto, che «l’equo compenso per l’uso della cosa» debba comprendere la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, senza includere il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante, impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato in applicazione del principio di indifferenza, così da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto.

Ciò posto, l’equo compenso, per l’ipotesi di leasing traslativo, non può escludere il deprezzamento economico che, in ipotesi, subisca anche il cespite immobiliare, poiché riferibile all’uso che, nella variabile temporale, ha fatto il concessionario il quale, con il suo inadempimento, ha non solo impedito al concedente di acquisire le utilità contrattuali previste, ma rilasciato, altresì, il bene con un valore di realizzo inferiore, in relazione alla durata per la quale si sia protratto l’uso stesso, (scaricando sulla controparte questo “costo”, in difformità dalle previsioni contrattuali).

Non si tratta di sovrapporre il piano prettamente risarcitorio con il distinto (seppure inevitabilmente connesso) equo compenso, afferente, in ogni caso all’intervenuta patologia negoziale. È, per contro, necessario considerare, in riferimento all’alterazione dell’equilibrio contrattuale, la circostanza fattuale in virtù della quale il concedente riprenda la disponibilità di un bene che non ha potuto locare medio tempore, né, tantomeno, liquidare (nelle varie forme di mercato compreso lo stesso leasing traslativo) al momento di riaverlo, come avrebbe potuto fare prima del contratto risolto per responsabilità della controparte, in ciò consistendo il “deprezzamento per incommerciabilità del bene”, quale sussistente antecedentemente al negozio non andato a buon fine, distinto dalla “remunerazione del godimento” comunque fruito dall’utilizzatore in costanza di rapporto. In senso contrario, si addiverrebbe a un ripristino dell’equilibrio negoziale rotto, solo quanto al “fattore godimento materiale” e non quanto al “fattore godimento temporale” (con quest’ultimo che potrebbe non esserci nel caso di un bene immobile).

 

Qui l’ordinanza.

[1] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 28.01.2021, n. 2061.

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