Nota a Cass. Civ., Sez. I, 3 luglio 2024, n. 18227.
Con la presente ordinanza la Prima Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di usura sopravvenuta e conto corrente.
Nel ripercorrere brevemente i fatti, una società in qualità di correntista, e il suo garante-fideiussore, convenivano in giudizio un istituto bancario al fine di accertare, previa statuizione sulle nullità contrattuali, il dare e avere di un rapporto di conto corrente assistito da un’apertura di credito, oltre che la condanna della banca alla restituzione delle somme indebitamente percepite.
La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso della ricorrente società, il quale si componeva di quattro motivi.
Con il primo motivo la ricorrente lamentava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 e 1325 c.c., e art. 117, primo e terzo comma, del D. Lgs. n. 385/1993 (c.d., e d’ora in poi, T.U.B.)[1]; infatti, secondo la stessa, la Corte territoriale aveva omessa di rilevare l’inesistenza del titolo, tramite il quale erano stati effettuati gli addebiti contestati: le clausole, su cui si basavano gli addebiti, sarebbero state nulle e inosservanti anche delle norme imperative perché non documentate da un contratto scritto. Inoltre, ha osservato la società ricorrente che l’onere della prova dei fati costitutivi del diritto è di competenza di chi fa valere quel diritto, e non di chi invece agisce per quest’ultimo.
Tuttavia, la Suprema Corte, trattandosi di un contratto concluso per iscritto, ha statuito che trova applicazione il principio per il quale è il cliente che agisca per ottenere “la restituzione delle somme indebitamente versate in presenza di clausole nulle ad essere onerato di provare l’inesistenza della causa giustificativa dei pagamenti effettuati mediante la produzione del contratto” che contiene tali clausole, senza possibilità di invocare il c.d. principio della vicinanza della prova, al fine di spostare l’onere in capo all’ente creditizio, tenendo conto che tale principio non troverà applicazione quando ciascuna delle parti, di regola, acquisirà la disponibilità del documento al momento della sua sottoscrizione[2].
Inoltre, l’assunto della ricorrente si scontra, a parere della secondo la corte di legittimità, con il rilievo per il quale chi allega di aver effettuato un pagamento dovuto in parte, e proponga l’azione di indebito oggettivo, nei confronti dell’accipiens, per la somma eccedente versata, ha l’onere di provare che la causa giustificativa del pagamento sia inesistente per la parte che si è assunto non dovuta[3]. E tale regola opera anche nel caso di azioni di accertamento negativo, nelle quali è sempre la parte attrice in giudizio ad essere onerata della prova[4].
La parte ricorrente, inoltre, con il secondo mezzo, ha opposto la violazione e falsa applicazione dell’art. 119 T.U.B. ritenendo che, con istanza ex art. 119 T.U.B., l’onere probatorio in capo al correntista non si fosse assolto, e venendo anche dedotto che il limite decennale, indicato in tale norma, non si dovrebbe estendere al contratto e alla documentazione contabile relativa al rapporto. Secondo la corte d’appello, infatti, la richiesta ex art. 119 t.u.b., era stata formulata “in data prossima all’instaurarsi del giudizio da non potersi considerare che sulla base della stessa la parte avesse ottemperato all’onere probatorio; e che l’stanza non poteva essere accolta riguardo documenti che erano collocati nel periodo oltre i dieci anni anteriori alla formulazione della richiesta”.
Per la giurisprudenza di legittimità, la decisione si regge su una duplice ratio: il diritto del cliente ad ottenere una copia della documentazione delle operazioni effettuate, ai sensi dell’art. 119, quarto comma, T.U.B[5]., avente una natura sostanziale e un fondamento negli obblighi di buona fede in executivis, si riferisce anche ai rapporti derivanti da contratti che sono stati stipulati prima dell’entrata in vigore del testo unico bancario, e riguarda, altresì, tutta la documentazione negoziale, comprendendo anche gli estratti conto a prescindere dalla comunicazione di essi periodi, tuttavia copre solo le operazioni degli ultimi dieci anni, operando, al di fuori di tale limite, il generale onere di conservazione della documentazione rappresentativa dei diritti, gravante indifferentemente su tutte le parti[6]. Il non accoglimento per tale ratio decidendi rende inoltre inammissibile, per un sopravvenuto difetto di interesse, anche le deduzioni sollevate per l’altra ragione, in quanto nono potrebbero condurre, stante la definitività della prima censura alla cassazione della decisione[7].
Per quanto concernente l’istanza di esibizione, si è ritenuto che non fosse ammissibile, perché non poteva supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico dell’istante, che doveva avere la disponibilità del documento contrattuale, poiché concluso per iscritto. Per la Corte di legittimità ciò non è contraddittorio: l’ordine di esibizione, infatti, subordinato alle condizioni molteplici di ammissibilità ex artt. 118, 119 c.p.c. e 94 disp. att., costituisce uno strumento residuale istruttorio, da utilizzar solo in caso di impossibile acquisizione della prova dei fatti con altri mezzi e non per supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico dell’istante; è una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il cui mancato esercizio non potrà mai costituire oggetto di ricorso per cassazione per una violazione di norma di diritto[8].
Con il terzo motivo – che è quello di maggior interesse e pertinente – la censura della ricorrente riguardava la violazione degli artt. 644 primo comma, c.p. e dell’art. 1 primo comma, del D.L. n. 394/2000[9], e dell’art. 1 della l. n. 108/1996, concernente il tema dell’usurarietà del rapporto contrattuale, esclusa invece dalla Corte d’Appello.
La disciplina del decreto legge, stabilisce la Suprema Corte, non deve applicarsi solo ai rapporti di mutuo, ma a tutte le fattispecie negoziali che possano contenere pattuizioni di interessi usurari, salvo che il rapporto contrattuale non si sia esaurito anteriormente alla data di entrata in vigore della L. 108/1996, e dunque non vi si sottrae il rapporto di conto corrente.
Nel caso di specie, l’inapplicabilità di tale disciplina potrebbe trovare fondamento ove fosse riscontrata una modifica delle condizioni contrattuali, intervenuta nella vigenza della citata L. 108/1996, la quale abbia potuto determinare una esorbitanza del Tasso Effettivo globale (TEG) rispetto al tasso soglia. A norma dell’art. 118, secondo comma, T.U.B.[10], la modifica unilaterale delle “condizioni contrattuale comunicata espressamente al cliente si intende approvata ove il cliente non receda senza spese dal contratto” nel termine ivi previsto, deve ritenersi che la norma configuri un negozio concluso per fatti concludenti tipizzati legalmente (1) la comunicazione della banca; 2) l’inerzia del cliente) avente ad oggetto la modifica del preesistente rapporto contrattuale. Infatti, i comportamenti concludenti assumono rilevanza sia perché una consuetudine generale o un uso contrattuale attribuiscono un particolare significato al comportamento omissivo, sia perché la legge recepisce il senso che viene comunemente attribuito a questo, cosicché l’illazione che si trae dal silenzio poggia sul processo di tipizzazione; tra gli esempi, le ipotesi definiti dagli artt. 1237, secondo comma; 1399, quarto comma, c.c.; 1712, secondo comma c.c.). E, senza dubbio, rientrato tra tali comportamenti concludenti anche quelli dell’art. 118, secondo comma del testo unico bancario. Dunque, non si può parlare di usura sopravvenuta, in presenza dell’esercizio dello ius variandi, giacché “il superamento del tasso soglia si determina per effetto dell’intervento di una nuova volontà negoziale, ancorché tipizzata”. E sul punto della modifica del tasso accorsa nel corso del rapporto la Corte ha stabilito che il ricorso non ne fornisce nessuna indicazione.
La ricorrente, nell’ultimo punto, ha lamentato, in violazione dell’art. 134, n. 2, c.p.c. e art. 111, sesto comma, Cost., che la corte territoriale avrebbe reso una motivazione contraddittoria ed apparente, in quanto questa ha ritenuto inattendibile – di concerto con il giudizio di primo grado – la verifica dell’usura da parte del consulente di parte ricorrente, rilevando che l’accertamento non era basato sulle modalità di calcolo indicate nelle Istruzioni di Bankitalia; inoltre, da condividere il rilievo del primo grado riguardo l’aver disatteso l’accertamento del c.t.u. sul superamento del tasso soglia in quanto neanche egli si era conformato alle Istruzioni della Banca d’Italia. A parere degli Ermellini la motivazione non può ritenersi né contradditoria, né apparente, la quale, quest’ultima, viene a configurarsi quando, seppur graficamente visibile, tuttavia non renda percepibile il fondamento decisionale, poiché reca delle argomentazioni obiettivamente poco idonee a far seguire il ragionamento del giudice per la formazione del convincimento, non essendo compito dell’interprete di integrare con più ipotetiche congetture[11].
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[1] L’art. 117 T.U.B., primo e terzo comma, recita così: “1. I contratti sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti. […] 3. Nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo”.
[2] Cfr. Cass., 13 dicembre 2019, n. 33009
[3] Cfr. Cass., 23 novembre 2022, n. 34427; Cass., 12 giugno 2020, n. 11294.
[4] Cfr. Cass., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12307
[5] Il quale dispone: “[…] 4. Le modifiche o la sostituzione dell’indice di riferimento per le quali non siano state osservate le prescrizioni del presente articolo sono inefficaci. In caso di inefficacia, si applica l’indice sostitutivo definito ai sensi del regolamento (UE) 2016/1011. Ove non sia definito tale indice, si applica il tasso previsto dall’articolo 117, comma 7, lettera a), o, per i contratti di credito di cui al Capo II, dall’articolo 125 bis, comma 7, lettera a). 5. I commi 2, 3 e 4 si applicano ai contratti aventi a oggetto operazioni e servizi disciplinati ai sensi del presente Titolo, anche ove diversi da quelli di cui all’articolo 3, paragrafo 1, numero 18), del regolamento (UE) 2016/1011. Non si applica l’articolo 118”.
[6] Cfr. Cass., 29 novembre 2022, n. 35039
[7] Cfr. Cass. 11 maggio 2018, n. 11493; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108
[8] Cfr. Cass., 3 novembre 2021, n. 31251
[9] L’art. 1, primo comma, del D.L. n. 394/2000: “1. Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.
[10] L’art. 118, secondo comma, T.U.B., così statuisce: “[…] 2. Qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali deve essere comunicata espressamente al cliente secondo modalità contenenti in modo evidenziato la formula: “Proposta di modifica unilaterale del contratto”, con preavviso minimo di due mesi, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente. Nei rapporti al portatore la comunicazione è effettuata secondo le modalità stabilite dal CICR. La modifica si intende approvata ove il cliente non receda, senza spese, dal contratto entro la data prevista per la sua applicazione. In tale caso, in sede di liquidazione del rapporto, il cliente ha diritto all’applicazione delle condizioni precedentemente praticate”.
[11] Cfr., sul tema, Cass. civ., Sez. Un., 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. civ., 1 marzo 2022, n. 6758; Cass. civ., 23 maggio 2019, n. 13977.
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Info sull'autore
Laureato in Giurisprudenza, presso l'Università Roma Tre, con una tesi in diritto privato, sulla fideiussione del socio, del consumatore e del familiare. Ha svolto la pratica forense, occupandosi principalmente di diritto civile e diritto amministrativo, in uno studio legale a Roma. Ha conseguito il Master di secondo livello in "Diritto d'impresa" presso la Luiss School of Law - Università Luiss Guido Carli. Collabora con riviste giuridiche online.