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«La Salpêtrière era semplicemente una prigione per donne colpevoli di avere un’opinione.»

La storia è ambientata in un noto manicomio francese, la clinica Salpêtrière, in cui alla fine dell’Ottocento l’illustre neurologo dottor Charcot curava “le pazze” con vari metodi, tra i quali l’ipnosi, dandone pubbliche dimostrazioni ad una limitata cerchia di medici e privilegiati. Tra gli esperimenti attuati nell’ospedale psichiatrico vi era anche il ballo di mezza quaresima, un momento ludico in cui le internate incontravano la borghesia, in uno scambio iniquo di esperienze: da una parte l’euforia di rientrare fugacemente in contatto con la realtà e dall’altra la possibilità di esaminare da vicino una fauna così selvatica e sconosciuta, sebbene praticamente identica a quella che soleva identificarsi come normale.

Non c’erano catene e camicie di forza alla Salpêtrière, eppure il netto distacco con la realtà circostante, la Parigi viva e quotidiana, affiorava sin da subito varcandone la soglia.
Uscirne era impossibile, tanto più perché le internate erano quasi sempre donne scomode per le famiglie che, pur di poterle dimenticare per sempre, ne chiedevano il ricovero in manicomio.

Nel racconto si intrecciano le storie di quattro donne, i cui ruoli si mescolano fino a confondersi, esacerbando la duttilità della natura umana: follia e normalità sono solo due aggettivi che riescono a susseguirsi repentinamente nella descrizione dello stato d’animo di uno stesso soggetto, malato o sano che sia.

Non so se vi sia una morale nel racconto, ma certamente ci sono tanti spunti per riflettere sulla società, sulla sofferenza, sulla condizione dell’uomo sottomesso ai propri simili, constando che storicamente il discrimine tra normalità e bizzarria lo determina chi, in quel frangente, ha un maggiore potere sociale, politico ed economico e che tutto è, pericolosamente, soggetto alla fugacità della moda.

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