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«"Homo sum, humani nihil a me alienum puto": il diritto, in fin dei conti, è una forma d'arte.»

E’ un pamphlet gustoso, agevole e che tratteggia una carrellata di aneddotica, sapientemente articolata, in sette, per quanto brevi, macrosezioni, delle quali il titolo rappresenta l’esempio sublimato. 

La narrazione agile e concreta, sempre accattivante e sorprendente, disseziona il mondo dell’arte, dalla concettualità stessa di valore artistico, sino alla rappresentazione plastica (ma anche canzonatoria) della giustizia, passando per i limiti (più e meno ragionevoli) della censura, l’emulazione, la falsificazione, la truffa e la rapina, ma anche, recuperando un’impronta più giuridica, i meccanismi sottesi alle case d’asta, alla tutela dell’artista, del mecenate, del collezionista e anche, perché no, dell’osservatore, dello spettatore, del semplice fruitore, che col suo sentir comune è sempre stato in grado di orientare l’arte stessa.

In fondo (ma neppure tanto), la proverbiale ubiquità del diritto ben s’attaglia con il mondo dell’arte, con cui ha spesso avuto una relazionalità dialogica, a tratti monologica, tra promozioni, esaltazioni, censure, ostacoli, limitazioni e rideterminazioni periodiche dei parametri espressivi, bilanciamenti: tra opposte libertà, tra confliggenti sensibilità, tra differenti esigenze, sociali, politiche ed economiche.

Se il diritto disciplina, l’arte, dal canto (rectius, tratto) suo, non ha certo taciuto: celebrativa del potere, temporale e/o spirituale, o, per converso, canzonatoria, ha raffigurato, nei secoli, il mondo della giustizia, benda sugli occhi e spada in mano, anche in alcune delle sue più emblematiche implementazioni.

Diritto e arte sono, nella sostanza, più connessi di quanto si possa intuitivamente immaginare; rappresentano facce della stessa medaglia, quella della libertà, per quanto il loro rapporto sia intrinsecamente connaturato da una asimmetria strumentale: è più pericoloso, per tutti, imbavagliare, che caricaturare.

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