13 min read

Nota a Cass. Civ., Sez. III, 23 maggio 2025, n. 13844.

di Antonio Zurlo

Studio Legale Greco Gigante & Partners

«Causa mali est ipse clamabit»

I primi due gradi di giudizio.

Gli eredi di una signora deceduta per carcinoma polmonare, sviluppatosi a seguito del protratto uso di sigarette, per oltre quarant’anni, convenivano in giudizio l’Azienda produttrice, affinché ne fosse accertata la responsabilità per il decesso, non avendo mai informato i consumatori dell’alta nocività delle sigarette, nonostante sin dal 1950 la letteratura scientifica avesse messo in relazione il carcinoma polmonare con il fumo attivo, e fosse condannata al risarcimento del danno morale loro spettante per la perdita della de cuius.

Il Tribunale di Potenza, in accoglimento della domanda attorea, dichiarava la responsabilità della Società convenuta, ritenendo, in particolare:

  1. a) la produzione e vendita di tabacco attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., con conseguente onere in capo alla convenuta di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, a prescindere dalla sussistenza di un obbligo giuridico di informare sulla nocività del fumo;
  2. b) la sussistenza del nesso di causalità tra produzione e vendita di sigarette senza informazioni sui rischi per la salute dei consumatori e lo specifico evento dannoso cui i medesimi risultavano esposti, essendo il carcinoma polmonare una conseguenza normale ed ordinaria del fumo, rientrante nell’ambito delle linee di normale sviluppo della serie causale, secondo un criterio di probabilità scientifica;
  3. c) la sussistenza di un concorso di colpa nella misura del 50% della consumatrice deceduta stante l’utilizzazione protratta nel tempo delle sigarette da parte della medesima, non essendo i danni da fumo del tutto ignoti e purtuttavia essendovi una diffusa consapevolezza “solo generica” degli effetti nocivi del fumo, essendo stata nella specie la consapevolezza specifica acquisita da parte della vittima quando ormai la sua salute era irrimediabilmente compromessa.

La Corte d’Appello, all’esito del gravame interposto dall’Azienda produttrice, rigettava l’originaria domanda di risarcimento danni, ritenendo che la causa prossima di rilievo, costituita nella specie dalla libera scelta della vittima di fumare nonostante la consapevolezza dei danni che avrebbero potuto derivargliene, escluda la configurabilità del nesso di causalità tra la condotta e il danno derivato dalla pratica del fumo.

 

Il motivo di ricorso.

Avverso la suindicata sentenza gli eredi proponevano ricorso per cassazione, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2050 e 2043 c.c., considerando:

i) che la danneggiata aveva trascorso la sua vita in un piccolo comune, non era solita leggere riviste e quotidiani, guardava i più popolari programmi televisivi e frequentava con assiduità il cinema parrocchiale;

ii) che l’esistenza del nesso di causalità fra l’attività di produzione e commercializzazione dei tabacchi lavorati ed i danni per cui è causa è da ravvisare proprio nell’atto del fumare, costituente «la realizzazione delle scopo tipico per il quale esiste l’industria del tabacco», per cui il costo del danno è da imputare al soggetto che si trovava, prima del suo verificarsi, nella situazione maggiormente idonea ad evitarlo, non potendo ciò pretendersi dal tabagista, assuefattosi al consumo di nicotina;

iii) che nella specie la vittima ha acquisito la necessaria consapevolezza specifica dei danni da fumo, come accertato dall’espletata C.T.U., solamente allorquando la sua salute era già irreversibilmente compromessa;

iv) che l’applicazione del principio “della causa prossima di rilievo” postula la prova, mancante nella specie, della piena consapevolezza del danneggiato di poter interrompere con il suo facere il nesso eziologico tra il fumo della sigaretta e l’evento dannoso.

Di tal guisa, la Corte di merito aveva erroneamente escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta della produttrice odierna ricorrente e quella mantenuta dalla vittima per ben trent’anni, considerando quest’ultima quale unica responsabile in ragione della ravvisata sua libertà di autodeterminarsi ed esporsi a pratica pericolosa, atteso che la defunta aveva una consapevolezza solo generica e non specifica degli effetti nocivi del fumo, in difetto di idonea informazione specifica al riguardo che l’avrebbe certamente dissuasa. Lamentano l’avere il produttore immesso sul mercato un prodotto “fisiologicamente” dannoso per la salute, senza invero preoccuparsi dei rischi per la salute dei fumatori.

 

La decisione della Cassazione: il nesso eziologico e la condotta del danneggiato.

A giudizio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il motivo è fondato e meritevole di accoglimento.

Difatti, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare, il nesso causale è elemento costitutivo dell’illecito (anche contrattuale) e rientra tra i compiti del giudice individuare, tra le possibili concause, gli antecedenti in concreto rilevanti per la verificazione del danno, mediante l’adozione di un criterio di selezione la cui scelta è censurabile in sede di legittimità laddove operata in violazione degli artt. 40 e 41 c.p. e 1227, comma 1, c.c. La valutazione delle conseguenze derivanti dall’adottato criterio di selezione si risolve, invece, in un mero accertamento di fatto, come tale sottratto al sindacato di legittimità in presenza di congrua motivazione[1].

Nella specie, la Corte di merito ha ravvisato la sussistenza di «un atto di volizione libero, consapevole ed autonomo» della vittima, «soggetto dotato di capacità di agire», prescindendo da qualsivoglia considerazione in ordine all’accertamento di un’eventuale responsabilità ex artt. 2043 e 2050 c.c. dell’Azienda produttrice.  In altri termini, la Corte territoriale ha implicitamente applicato il principio secondo cui se la condotta della vittima si inserisce in una serie causale avviata da altri, concorrendo alla produzione dell’evento dannoso, il suo apporto non vale ad interrompere quella serie in quanto non è possibile distinguere fra cause mediate o immediate, dirette o indirette, precedenti o successive e si deve riconoscere a tutte la medesima efficacia; l’interruzione si verifica, invece, se la condotta della vittima, pur inserendosi nella serie causale già avviata, dia vita ad un’altra serie causale rispetto alla prima, idonea da sola a produrre l’evento dannoso, che sul piano giuridico assorbe ogni diversa serie causale e la riduce al ruolo di semplice occasione[2].

Sempre la Corte di Cassazione ha, sotto altro profilo, affermato che l’individuazione del fatto interruttivo del nesso causale non è esclusivamente «quello dell’atipicità ed eccezionalità della serie causale sopravvenuta», aderendo all’idea che la condotta del danneggiato possa rilevare causalmente anche quando sia oggettivamente colposa. Il fatto del danneggiato e il caso fortuito sono ontologicamente distinti, in quanto quest’ultimo appartiene alla categoria dei fatti giuridici, senza intermediazione di alcun elemento soggettivo; la condotta del danneggiato, per converso, è caratterizzata dalla colpa[3]: non è richiesto che essa sia «autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile», ma è sufficiente che sia «oggettivamente colposa», dovendo la colpa intendersi come «oggettiva inosservanza di normale cautela correlata alla situazione di rischio percepibile con l’ordinaria diligenza»[4].

Detta inosservanza si concretizza «non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo  giuridico, ma anche di violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica, la quale può sostanziarsi in un comportamento, coevo o successivo al fatto illecito ovvero ad esso antecedente, purché legato da nesso eziologico con l’evento medesimo, ed estrinsecarsi con riferimento al danno-conseguenza della condotta di inadempimento o della condotta realizzante il fatto ingiusto e anche direttamente rispetto alla condotta costituente l’illecito, ovverosia giocare ed essere apprezzata come concausa della condotta di inadempimento stesso o di quella determinativa del fatto ingiusto, id est come concausa delle relative condotte illecite»[5].

Né, tantomeno, può trascurarsi il dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., fonte di una pretesa nei rapporti della vita di relazione all’adozione di un comportamento volto alla salvaguardia dell’utilità altrui nei limiti dell’apprezzabile sacrificio[6].

Sempre in termini generali va ribadito che la riconducibilità dell’evento dannoso ad una delle serie causali astrattamente idonea a cagionarlo non è naturalisticamente esclusa dal fatto umano (in assenza della suddetta serie causale non si sarebbe verificato il danno), bensì è giuridicamente ricondotta al principio di cui all’art. 41 c.p., atteso che il comportamento della vittima si pone in termini di causa sopravvenuta che esclude il rapporto di causalità quando è stato da solo sufficiente a determinare l’evento (art. 41, 2° comma, c.p.), in tal modo degradando il ruolo delle cause preesistenti a mera occasione del danno, e si pone in relazione causale con l’evento di danno non interrompendolo bensì più correttamente degradando al rango di mera occasione le cause preesistenti e deprivandole della loro efficienza in punto di causalità materiale, ma senza cancellarne l’efficienza naturalistica.

Orbene, l’attività di produzione e commercializzazione di derivati del tabacco è certamente, dal punto di vista naturalistico, causa del danno, ma può non esserlo laddove la condotta oggettivamente colposa della vittima assuma il ruolo di causa sopravvenuta dotata di efficienza causale esclusiva, neutralizzante l’apporto eziologico dell’attività dell’esercente, degradato al ruolo di mera occasione dell’evento dannoso.

La condotta del danneggiato può, in astratto, assumere invero rilievo causale meramente concorrente o esclusivo. In entrambe le ipotesi la specificazione della colpa del danneggiato rileva quale «puntualizzazione del grado di prevenibilità e prevedibilità oggettive, che normalmente deve attendersi da chi si espone al rischio»[7].

Con precipuo riferimento all’accertamento del nesso causale, è stato evidenziato che «un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della “condicio sine qua non”): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento  in cui si produce l’evento causante, non appaiono del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno» e che occorre riconoscere «rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili, in base alle leggi generali di copertura proprie delle scienze esatte applicate ai fenomeni naturali, in tal senso giustificandosi il nesso funzionale causa-conseguenza secondo un giudizio di probabilità scientifica, ovvero – in assenza di tali leggi – in base alla valutazione dei dati di esperienza e della rilevazione della intensità delle frequenze statistiche degli accadimenti, che consentano di desumere, per via induttiva, la esistenza del nesso eziologico»[8], al netto della assenza di coincidenza dei criteri di accertamento del nesso eziologico in sede civile ( preponderanza dell’evidenza ) ed in sede penale ( oltre ogni ragionevole dubbio ).

Nell’impugnata sentenza, la Corte territoriale non ha correttamente applicato tali principi di diritto al caso di specie, essendosi limitata ad estrapolare la scelta di fumare dalle serie causali che hanno prodotto l’evento dannoso, senza enunciare le ragioni per cui ha ritenuto che l’attività di produzione e di commercializzazione del tabacco non abbia nella specie avuto efficienza causale alcuna nella determinazione dell’evento, relegando implicitamente tale azione a mero antefatto occasionale, inidoneo ad innescare la sequenza causale sfociata nell’evento lesivo (art. 40 c.p.)[9].

 

(segue): la pericolosità dell’attività e il difetto di specifica informativa.

In particolare, tenuto conto che all’Azienda produttrice era stato imputato di non avere informato adeguatamente la danneggiata della nocività del fumo, al fine di verificare la colpa della vittima nella causazione del danno e accertarne l’efficienza causale esclusiva ovvero concorrente, la Corte di merito avrebbe dovuto, dapprima, valutare se l’evento dannoso si sarebbe verosimilmente verificato ove uno dei due soggetti coinvolti avesse mantenuto la condotta alternativa corretta, per poi ripetere l’operazione a parti invertite[10], avendo l’obbligo di apprezzare ogni fattore causale rilevante al fine di stabilire la relativa incidenza (con)causale nella determinazione dell’evento lesivo[11].

La Corte di Cassazione ha già avuto modo di porre in rilievo che «ove l’attività considerata sia quella della produzione finalizzata al commercio e quindi all’uso da parte del consumatore, è ovvio che, se quell’attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo, tale attività debba per sua natura definirsi pericolosa, tanto più  se il pericolo invocato sia quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo»; laddove l’attività abbia ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e al consumo, la caratteristica della “pericolosità” può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal punto che ess sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo[12] (realizzandosi una sorta di “reificazione della pericolosità”).

Orbene, la Corte territoriale, proprio in ragione della qualificazione come pericolosa dell’attività di produzione e commercio del tabacco, non avrebbe dovuto limitarsi a ritenere la scelta del consumatore una causa prossima di rilievo, in quanto la condotta del danneggiato non solo va valutata diversamente, a seconda della pericolosità dell’attività, ma anche perché la disciplina delle attività pericolose richiede una prova liberatoria specifica e particolarmente rigorosa, non coincidente con quella del caso fortuito[13].

Dalla de cuius si sarebbe potuto esigere una diversa condotta (ovverosia, non fumare, fumare meno, non aspirare il fumo, adottare altre cautele), solo laddove informata del rischio specifico cui risultava esposta, in ragione del consumo di sigarette, si fosse ciononostante a esso consapevolmente e volontariamente indotta.

La tesi dei ricorrenti era incentrata sulla circostanza per cui, nel 1965, quando la de cuius aveva iniziato a fumare, non avesse la consapevolezza della correlazione tra il fumo di sigarette e il cancro, al netto della considerazione del giudice di prime cure per cui la nocività del fumo dovesse intendersi «fatto socialmente notorio». La questione controversa non è se vi fosse una generica consapevolezza sociale e personale della vittima in ordine alla nocività del fumo, bensì se quest’ultima fosse specificamente stata informata e consapevole della cancerogenicità delle sigarette. Sul punto, il Collegio rileva come la prima concreta misura di dissuasione diretta, in conseguenza della raggiunta certezza dalla comunità scientifica che il fumo fosse alla base delle numerose forme di cancro e di un numero indefinito di altre gravi patologie, è stata la legge n. 428/1990.

Di talché, la nocività del fumo era fatto socialmente noto sin dagli anni Settanta; differentemente, la correlazione specifica tra fumo e cancro (e altre gravi patologie) era ignota: l’asimmetria informativa è stata colmata solo negli anni Novanta, con l’introduzione dell’obbligo, in capo all’esercente un’attività pericolosa, di comprovare di aver adottato ogni misura atta a evitare il danno.

In definitiva, solo a fronte della conoscenza o effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica del fumo può, infatti, configurarsi un concorso di colpa del consumatore-fumatore.

*****

L’ordinanza della Terza Sezione Civile fa sovvenire Niklas Luhmann e la sua distinzione tra rischio e pericolo: un osservatore percepisce un “rischio”, nel caso in cui un potenziale danno futuro dipende da sue decisioni; ove non sussista un rapporto di dipendenza tra l’incertezza e le sue cause si configura, invece, una situazione di “pericolo”, ovverosia una condizione in cui il danno (potenziale) è subordinato a decisioni altrui. È proprio l’eziologia il discrimen che consente di differenziare le due concettualità: tra il pericolo di fumare, risarcibile, e il solo rischio sotteso al vizio.  

 

 

 

 

________________________________________________

[1] Cfr. Cass. 07.12.2005, n. 26997; Cass. 24.05.2017, n. 13096; Cass. 08.04.2020, n. 7760.

[2] V. Cass. 06.04.2006, n. 8096; Cass. 22.10.2013, n. 23915; Cass. 22.02.2021, n. 4662.

[3] V. Cass. 27.04.2023, n. 11152.

[4] Cfr. Cass. 01.02.2018, n. 2483.

[5] Cfr. Cass. 07.01.2025, n. 258; Cass. 15.03.2006, n. 5677; Cass., Sez. un., 21.11.2011, n. 24406.

[6] Cfr. Cass. 24.01.2024, n. 2376.

[7] Cfr. Cass. 27.01.2025, n. 1902.

[8] Cfr. Cass. 10.05.2000 n. 5962; Cass. 22.10.2003, n. 15789; Cass. 19.07.2005, n. 15183; Cass. 22.10.2013, n. 23915; Cass. 12.11.2024, n. 29229.

[9] V. Cass. 24.05.2017, n. 13096.

[10] V. Cass. 04.09.2024, n. 23804; Cass. 09.05.2024, n. 12676.

[11] Cfr. Cass. 29.09.2017, n. 22801.

[12] Cfr. Cass. 17.12.2009, n. 26516.

[13] Cfr. Cass. 13.05.2003, n. 7298.

Seguici sui social: