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Nota a Cass. Civ., Sez V, 10 ottobre 2024, n. 26473.

di Giulia Frisenda

Praticante avvocato

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n.26473/2024, pubblicata il 10.10.2024, si pronuncia nuovamente sul tema della presunzione di distribuzione degli utili ai soci di società di capitali a ristretta base partecipativa.

La decisione si inserisce nella consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui la struttura sociale delle società con pochi soci giustifica un onere probatorio rigoroso a carico del socio che intenda superare la presunzione di percezione di utili non contabilizzati.

In particolare, il caso in esame trae origine dal ricorso di un socio di s.r.l., con compagine sociale composta da tre membri, al quale l’Agenzia delle Entrate aveva notificato un accertamento di maggiore reddito derivante dalla presunzione di distribuzione ai soci di utili non contabilizzati.

Tale presunzione si basa su una massima di esperienza: nelle società a ristretta base societaria, vi è una maggiore probabilità che vi sia un controllo reciproco sulle operazioni sociali, nonché una tendenziale percezione diretta dei ricavi non dichiarati.

La Corte di Cassazione, nell’esaminare il caso, ribadisce il principio secondo cui, nelle società di capitali con una ristretta compagine sociale, gli utili extracontabili accertati in capo alla società, possono presumersi distribuiti pro quota ai soci, salvo prova contraria da parte dei medesimi.

Così statuisce la Corte: “Va innanzitutto ribadito il principio secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi nel caso di società di capitali che presenti una ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione (semplice) di attribuzione ai soci partecipanti alla società degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova contraria e senza che ciò integri applicazione di una doppia presunzione”.

L’elemento della ristrettezza della base societaria, dunque, rappresenta un dato sintomatico idoneo a fondare la presunzione di percezione di utili, sulla scorta del reciproco controllo che generalmente sussiste tra i soci in una siffatta struttura.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, rilevando che il contribuente non aveva prodotto una prova adeguata della propria estraneità dalla gestione della società.

A parere della Corte, la prova contraria fornita dal socio deve essere rigorosa e documentata, e non limitata a mere affermazioni di disinteresse o di estraneità al controllo aziendale prive di un adeguato sostegno probatorio.

La Corte ha osservato che il ricorrente, nel caso di specie, pur avendo dichiarato di non aver preso parte alle attività gestionali della società e di non possedere competenze in ambito economico, non ha fornito prova concreta di tali affermazioni.

Tuttavia, la documentazione allegata dall’Agenzia delle Entrate – tra cui numerose fatture emesse dalla s.r.l. nell’anno oggetto di accertamento – comprovava chiaramente la piena operatività della società e la percezione di ingenti ricavi non contabilizzati, il che rendeva necessario un onere probatorio stringente da parte del socio per superare la presunzione dell’Amministrazione.

Un ulteriore elemento di rilievo nella sentenza è la trattazione del nuovo art.7 comma 5 bis del D.Lgs. n.546 del 1992, come modificato dalla legge n.130 del 2022.

A parere della Suprema Corte, tale norma, riformata recentemente, non impone un diverso e più gravoso onere probatorio per l’Amministrazione o per il contribuente rispetto a quanto già previsto dalla normativa tributaria, bensì è prevista al precipuo fine di attribuire un ruolo centrale alla fase dibattimentale affinché l’impianto delle presunzioni possa reggere o essere totalmente scardinato.

In tal senso la Corte afferma: “…In tema di onere probatorio, l’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, … non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, non ritiene sufficiente che il socio invochi la propria estraneità dichiarativa, bensì richiede che tale estraneità sia adeguatamente supportata da evidenze oggettive e riscontrabili, in grado di superare l’assunto logico-probatorio di distribuzione degli utili non dichiarati.

La Corte, in particolare, afferma: “Tuttavia, in questa sede, si intende ribadire la tesi emersa più di recente … e che ammette, come prova contraria alla presunzione di distribuzione degli utili extra bilancio, anche la dimostrazione dell’assoluta estraneità del socio alla gestione e conduzione societaria. Una volta dimostrata, a dispetto della ristretta base sociale, l’assoluta estraneità del socio alla gestione e alla vita stessa della società, la suddetta massima di esperienza perde il suo rilievo probatorio e non consente più di ritenere legittima la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili in favore di tutti i soci”.

In conclusione, laddove il socio intenda opporsi all’applicazione della presunzione, è chiamato a fornire una prova contraria precisa e documentata, atta a dimostrare sia la destinazione differente dei ricavi sia l’eventuale appropriazione di utili da parte di soggetti terzi.

In assenza di tali evidenze, il principio di trasparenza e controllo reciproco che caratterizza le società di capitali a ristretta base societaria rende legittima, seppur non invalicabile, la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili in capo ai soci della stessa.

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