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«Il romanzo di Kundera è racchiuso nell'ossimoro, straniante, della titolazione, destinato a sconvolgere la nostra ordinaria e abitudinaria percezione della realtà.»

Il romanzo di Milan Kundera è giocato, per intero, sul filo dell’ossimoro nella titolazione: insostenibile leggerezza, una definizione quasi straniante, perché capace di sconvolgere la nostra percezione comune e abitudinaria della realtà, laddove è la pesantezza a poter essere insostenibile, a essere un gravame, a fronte della vaporosità piacevole della leggerezza.

Milan Kundera ci impone di ripensare questo rapporto e lo fa per il tramite della rivelazione di aspetti nuovi e inconsueti, che, in fondo, poi, non lo sono neppure tanto.
Basterebbe indugiare maggiormente sulla letteralità dei concetti e meno sul senso comune, per capire e riscoprire come, in sostanza, il peso (rectius, la pesantezza) sia attributo delle questioni di rilievo, di importanza e di interesse e come, per converso, la leggerezza sia da associarsi a quelle connotate da frivola noncuranza.

Perché se la leggerezza non è superficialità, è sempre Italo Calvino a ricordarci, nella sua sinossi del romanzo, che, nella vita, tutto quello che scegliamo e apprezziamo come “leggero” non tarda, solitamente, a rivelare il proprio peso. Insostenibile.

Ecco, dunque, sullo sfondo dell’invasione della Cecoslovacchia, si dipanano le umane, alterne vicende amorose di due coppie, Tomas, Tereza, Franz e Sabina, che sono, piuttosto e meglio, quattro individualità, unite dall’attrazione degli opposti: l’amore puro e quello mariolo; la ricerca del consenso e quella della solitudine; la libertà e il suo surrogato in tempo d’oppressione; la ricerca di se stessi e della felicità.
Scoprendone l’incompatibilità con la condanna umana a un tempo lineare, sempre diverso, e la sua conseguente insostenibile leggerezza.

Per il lettore è come assistere a un docufilm, con il privilegio, inconsueto, del regista che interrompe, sapientemente, la visione, sulle scene più importanti, per confezionarne una propria interpretazione autentica, per svelarne retroscena, per farne cogliere l’essenza più intima. 

E, in questo sofisticato gioco narrativo, forse, sono proprio le pause narrative a rappresentare, in fondo, più che l’ordito, la trama del romanzo. 

La visione crepuscolare della sepoltura e il rapporto con la morte; la dannazione umana, propalata dalla Genesi, e, al tempo stesso, il disconoscimento malcelato di ogni forma di religiosità. La precarietà dei rapporti umani e sociali, in un’epoca fortemente segnata dalla compressione delle libertà individuali, in cui si assiste all’inconsueta ambivalenza di un sorriso, valevole tanto come simbolo, tacito, d’intesa, quanto come segno, presupposto, di un’arrogante superiorità morale. E pure l’allontanamento dalla professione di chirurgo del co-protagonista sottende a qualcosa di altro: dissimula quell’impossibilità, imposta, di utilizzare il bisturi, per incidere, anche nel profondo, la realtà, per saggiarne la sua realtà consistenza. 

Pesante o leggera, che essa sia.

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