Per il lettore è come assistere a un docufilm, con il privilegio, inconsueto, del regista che interrompe, sapientemente, la visione, sulle scene più importanti, per confezionarne una propria interpretazione autentica, per svelarne retroscena, per farne cogliere l’essenza più intima.
E, in questo sofisticato gioco narrativo, forse, sono proprio le pause narrative a rappresentare, in fondo, più che l’ordito, la trama del romanzo.
La visione crepuscolare della sepoltura e il rapporto con la morte; la dannazione umana, propalata dalla Genesi, e, al tempo stesso, il disconoscimento malcelato di ogni forma di religiosità. La precarietà dei rapporti umani e sociali, in un’epoca fortemente segnata dalla compressione delle libertà individuali, in cui si assiste all’inconsueta ambivalenza di un sorriso, valevole tanto come simbolo, tacito, d’intesa, quanto come segno, presupposto, di un’arrogante superiorità morale. E pure l’allontanamento dalla professione di chirurgo del co-protagonista sottende a qualcosa di altro: dissimula quell’impossibilità, imposta, di utilizzare il bisturi, per incidere, anche nel profondo, la realtà, per saggiarne la sua realtà consistenza.
Pesante o leggera, che essa sia.