Nota a Cass. Civ., Sez. III, 17 maggio 2023, n. 13536.
La controversia pervenuta alla Corte di Cassazione nasce da atto di citazione presentato dinanzi al Tribunale di Milano da parte di una Società, quale parte ricorrente, nei confronti di una Banca, quale parte convenuta, ove veniva chiesto che in relazione ad un contratto di locazione finanziaria immobiliare con quest’ultima stipulato nel febbraio del 2005 venisse accertata la nullità del contratto nonché la simulazione del medesimo, pronunciando per l’effetto sentenza di trasferimento dell’immobile ai sensi dell’art. 2393 c.c. e, previo accertamento della violazione della l. n. 108/1996 (c.c. Antiusura) e dell’esatto dare-avere fra le parti, la condanna della convenuta alla retrocessione della somma di Euro 1.164.013,85 ed al risarcimento del danno. Il Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza propose appello la Società attrice e con sentenza del maggio 2020 la Corte d’Appello di Milano rigettò l’appello.
La Società ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi: con il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. Osservando che nella comparsa conclusionale, e poi nella memoria di replica, la parte appellata aveva dato atto della fusione per incorporazione della Banca incorporata nella Banca incorporante convenuta, con relativa indicazione nell’epigrafe dell’atto, e che la Corte d’appello, ignorando la circostanza, ha pronunciato la sentenza nei confronti della incorporata, sentenza nulla ed inutiliter data in quanto emessa nei confronti di soggetto non solo cancellato dal registro delle imprese, ma privo della legittimazione processuale alla data della sentenza. La S.C. ha considerato tale primo motivo infondato, in quanto in caso di caso di fusione societaria per incorporazione avvenuta in corso di causa la società incorporante è legittimata ad intervenire volontariamente nel processo ed a compiere atti processuali, senza che si determini l’interruzione del processo. Ciò tuttavia non significa che la sentenza emessa nei confronti della società incorporata, munita di legittimazione al momento dell’introduzione della causa, sia inutiliter data, come affermato dalla ricorrente. Essa produce effetti nei confronti della società incorporante in base all’art. 2504 bis, co. 1, c.c.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325 n. 4, 1418, c.c., 117 TUB, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. Osservando che il contratto non reca alcuna indicazione del nominativo del firmatario per la concedente e della fonte dei poteri di rappresentanza. Anche il secondo motivo viene ritenuto infondato, affermando la Corte che in relazione al nome del firmatario per la concedente la censura ha la valenza di mera confutazione del giudizio di fatto del giudice di appello il quale, in base ad un apprezzamento non sindacabile in sede di legittimità, ha affermato che dal contratto si evince il nome del rappresentante della società, alla luce della piena leggibilità della sottoscrizione. Quanto invece alla questione dell’indicazione della procura nel contratto, va detto che necessario e sufficiente è che vi sia la spendita del nome del rappresentato.
Con terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 117 TUB, 1284, 1346 c.c., 5 l. n. 2248/1865, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Osservando la parte ricorrente che l’esclusione da parte della circolare della Banca d’Italia del leasing dai contratti per i quali è prescritta l’indicazione dell’ISC, nonostante la natura finanziaria, è illegittima perché in violazione dei principi di ragionevolezza e trasparenza previsti dall’art. 117 TUB e che il giudice ha il dovere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo. Anche il terzo motivo è ritenuto infondato dalla Corte, quale ritiene che non ricorre, con riferimento alla concreta fattispecie, il presupposto dell’invocata disapplicazione dell’atto amministrativo nei termini in cui sono stati indicati nella censura. Il criterio di legittimità è fornito dalla norma attributiva del potere e tale criterio è quello che il potere di prescrizione di un contenuto tipico determinato sia esercitato in relazione a contratti individuati «attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi» (art. 117, ult. co., TUB). Entro tali limiti di legittimità, la Banca d’Italia, per la sua peculiare natura di organo imparziale nell’ordinamento bancario, prescrive in base alla delega legislativa il contenuto di particolari fattispecie contrattuali
Con quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 2744 c.c., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. Osserva la parte ricorrente che ricorre elusione del divieto di patto commissorio per le seguenti ragioni: in violazione dell’art. 2744 c.c. risultano garantite proprio le obbligazioni nascenti dal contratto di leasing; irrilevante è la diversità soggettiva di fornitore ed utilizzatore perché può aversi patto commissorio occulto anche nel caso di vendita a garanzia di debito altrui; l’esposizione debitoria garantita dalla vendita non è necessario che sia precedente, potendo anche essere coeva; la cointeressenza delle parti è dimostrata dalla partecipazione dell’utilizzatore alla compravendita. Aggiungendo che il diritto dell’utilizzatore al corrispettivo della vendita del bene, previsto dall’art. 12 nel caso di risoluzione del contratto, è privo di efficacia, così come affermato da Cass. n. 888/2014, essendovi piena discrezionalità del concedente quanto a tempi, modalità e condizioni della vendita, nonché circa ai tempi e i modi di versamento del corrispettivo all’utilizzatrice.
Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell’art. 644, comma 3, c.p., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. In quanto, osserva la parte ricorrente che ricorre un’ipotesi di usura impropria alla luce della natura meramente discrezionale circa la ricollocazione del bene e dei vantaggi del tutto esorbitanti previsti dall’art. 12 in favore della concedente. La Corte tratta congiuntamente il quarto e quinto motivo ritenendoli entrambi infondati, laddove il quarto motivo contiene una prima censura relativa alla denuncia di violazione del divieto di patto commissorio. Per tale aspetto la censura attiene non ad un profilo qualificatorio, perché ciò che invero si afferma è che, mediante la stipulazione del contratto che resta qualificato come locazione finanziaria, è stato aggirato il divieto di patto commissorio essendo il contenuto della volontà delle parti nel senso di garantire il debito dell’utilizzatrice. In tali termini la censura attiene all’interpretazione della volontà negoziale, la quale, salvo la denuncia della violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, è rimessa al giudice del merito. La cointeressenza fra fornitore e utilizzatore, cui si riferisce il giudice di appello, non è evidentemente il mero dato formale della partecipazione dell’utilizzatore all’atto di compravendita, ma è quello di una cointeressenza sostanziale tale da giustificare che il fornitore alieni al concedente un bene a garanzia di un debito di un terzo quale l’utilizzatore. Afferma poi la ricorrente che ai fini dell’esistenza di una fattispecie di patto commissorio è sufficiente che il debito sia coevo all’atto di disposizione. Le circostanze fattuali opposte dalla ricorrente sono, di contro, quelle della precedenza cronologica della compravendita rispetto alla locazione finanziaria, e dunque la precedenza cronologica dell’atto di disposizione rispetto all’insorgere del debito altrui. Anche alla luce dell’inidoneità ad aggredire la ratio decidendi, e dunque del difetto di decisività, la censura appare così inammissibile.
Quanto poi al carattere potestativo che avrebbe la condotta del concedente in relazione a tempi e modalità della vendita a terzi alla stregua della previsione negoziale, va ribadito che, secondo la giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, in materia di leasing traslativo, nell’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento dell’utilizzatore, le parti possono convenire, con patto avente natura di clausola penale, l’irripetibilità dei canoni già versati da quest’ultimo prevedendo la detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito, essendo tale clausola coerente con la previsione contenuta nell’art. 1526, secondo comma, c.c.[1]. Il passaggio motivazionale di Cass. n. 888 del 2014, che la ricorrente richiama, è relativo ad una diversa fattispecie, nella quale l’utilizzatore aveva restituito l’intero importo dell’operazione di acquisto immobiliare. L’oggetto dell’obbligazione è invero non quello della vendita o della ricollocazione del bene, ma quello dell’accreditamento in favore dell’utilizzatore dell’importo che potrà essere ricavato dalla vendita o ricollocazione, sicché la questione dei vincoli che dovrebbero caratterizzare la vendita non viene in rilievo sulla base del concreto programma negoziale.
Con il sesto motivo si denuncia la violazione degli artt. 2932, 1362, 1363, 1324, 1706, 1417, 2727 ss. c.c., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. Sul punto la parte ricorrente osserva che risultano violate le regole di ermeneutica contrattuale in quanto se il giudice di appello, anziché arrestarsi al senso letterale delle parole, avesse valutato il comportamento complessivo delle parti ed avesse dato rilievo alle clausole significative, ne avrebbe tratto la conclusione, anche mediante la corretta applicazione della disciplina sulle presunzioni, che ricorreva un mandato senza rappresentanza ad acquistare l’immobile. Aggiunge che dall’erronea interpretazione è derivata la falsa applicazione della disciplina della locazione finanziaria. Detto motivo è stato considerato inammissibile, in quanto la denuncia di falsa applicazione di norma viene svolta mediante la denuncia della violazione delle regole ermeneutiche, per cui la scorretta qualificazione sarebbe dipesa da una errata interpretazione del contratto. La stessa struttura della censura evidenzia come la stessa non abbia di mira la violazione delle regole legali, ma il risultato interpretativo raggiunto dal giudice del merito, risultato che, per essere inerente al giudizio di fatto, è a lui riservato e come tale non è sindacabile in sede di legittimità.
Con il settimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 2 l. n. 108/1996, 644 c.p., 1418, 1815, co. 2, ss. c.c., 24 Cost., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. Osserva la parte ricorrente in relazione alle singole voci di costo, escluse dalla rilevanza ai fini del rispetto della soglia usura del tasso di interesse corrispettivo, quanto segue: 1) la presenza di commissioni occulte risultava dalla perizia di parte in atti, da cui emergeva la differenza fra TAN dichiarato in contratto e TAE concretamente utilizzato; 2) il prezzo per l’esercizio dell’opzione di acquisto finale rileva nell’art. 12 quale costo a carico dell’utilizzatore nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento; 3) le spese di assicurazione dell’immobile, in quanto collegate all’operazione di credito, devono essere computate; 4) le spese per perizie, quelle per certificati camerali, le spese postali, le spese notarili, le spese per il trasferimento della proprietà del bene, gli oneri per servizi di incasso e pagamento su conto corrente, le spese connesse con servizi accessori, devono essere computate, oltre che in omaggio al principio di onnicomprensività in tema di usura, perché, come emerge dalla risultanze istruttorie, risultano previste oltre ai puri costi sostenuti; 5) le spese di rogito e le imposte devono essere escluse perché l’immobile è stato acquistato dalla concedente e non dall’utilizzatore. Aggiunge che sul punto la decisione è affetta anche da vizio motivazionale per non essere stata ammessa CTU. Osserva ancora che le voci indicate devono essere computate anche per gli interessi moratori. La S.C. considera il motivo parzialmente fondato, di fatto sulla presenza di commissioni occulte la censura attinge il giudizio di fatto, che è riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità. Il prezzo per l’esercizio dell’opzione di acquisto finale costituisce voce del risarcimento del danno previsto per il caso di risoluzione del contratto per inadempimento. Il giudice del merito ha affermato che il prezzo di riscatto finale del bene è da escludere dal computo dei vantaggi usurari perché l’utilizzatore sarebbe stato tenuto a versarlo nel caso in cui, alla scadenza del contratto, avesse inteso esercitare la facoltà di acquisto. L’art. 12 del contratto prevede, come accertato dal giudice di merito, che, nel caso di risoluzione del contratto, fra i vari costi che l’utilizzatore è tenuto a sopportare, vi è anche il prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione di acquisto. L’applicazione della clausola viene in rilievo non nel caso di esercizio dell’opzione di acquisto, ma nel caso di inadempimento. Affermare, come ha fatto il giudice del merito, che il prezzo di riscatto finale del bene è da escludere dal computo dei vantaggi usurari perché l’utilizzatore sarebbe stato tenuto a versarlo nel caso in cui avesse inteso esercitare la facoltà di acquisto integra una motivazione apparente. Manca la motivazione con riferimento alla patologia del rapporto, che è il profilo nel quale emerge la rilevanza della clausola penale. Così, la censura riqualificata come denuncia di carenza del requisito motivazionale, è fondata. Ma è considerata fondata anche per quanto riguarda le spese di assicurazione dell’immobile. Ai fini della valutazione dell’eventuale natura usuraria della clausola negoziale devono essere conteggiate anche le spese di assicurazione sostenute dal debitore, in conformità con quanto previsto dall’art. 644, co. 4, c.p., se le stesse risultino collegate alla concessione del credito. Il criterio che il giudice del merito deve assumere non è quello dell’oggetto dell’assicurazione (rimborso del credito o l’immobile sotto il profilo dei danni e della responsabilità civile), ma il necessario collegamento all’operazione di credito, nel senso che, in mancanza della detta assicurazione, l’operazione non avrebbe avuto attuazione. Alla luce di tale giudizio di fatto deve concludersi, dal punto di vista qualificatorio, nel senso che vanno conteggiate anche le spese di assicurazione sostenute dal debitore ai fini della determinazione dell’eventuale natura usuraria della clausola negoziale. Inammissibile è invece la censura relativa alle spese per perizie, quelle per certificati camerali, le spese postali, le spese notarili, le spese per il trasferimento della proprietà del bene, gli oneri per servizi di incasso e pagamento su conto corrente, le spese connesse con servizi accessori. In coerenza alle istruzioni della Banca d’Italia sul punto, il giudice del merito ne ha escluso la rilevanza ai fini del tasso soglia perché non provata l’eccedenza rispetto ai costi effettivamente sostenuti dall’intermediario. La censura attinge il giudizio di fatto, che è riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità. Per il resto la censura è infondata, alla luce del precetto di cui all’art. 644, co. 4, c.p. che esclude dal computo del tasso soglia imposte e tasse, senza che rilevi la distinzione fatta dalla ricorrente fra spese sopportate dal concedente o dall’utilizzatore. Con l’ottavo e ultimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 132, n. 4, 156, 115, 61 e 118 att. c.p.c., 111 Cost., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 e n. 4, c.p.c. Osserva la parte ricorrente che in relazione al mancato accoglimento dell’istanza di CTU vi è motivazione apparente. Il motivo è ritenuto dalla Corte infondato. Dalla motivazione della decisione impugnata si coglie la ratio decidendi del mancato accoglimento dell’istanza di CTU. Essa coincide con la stessa esposizione delle ragioni di diritto e di quelle di fatto evidenziate allo scopo di ritenere infondati i motivi di appello ed a cui la corte territoriale, nel disattendere l’istanza, fa espresso rinvio. Resta inteso che in relazione al nuovo thema probandum emergente dalla presente cassazione con rinvio il giudice del merito potrà disporre CTU ove lo reputi necessario.
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[1] Cass. n. 15202 del 2018.
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Info sull'autore
Praticante Avvocato presso Giovannelli e Associati,