Nota a ACF, 8 giugno 2023, n. 6595.
Come la giurisprudenza arbitrale ha già avuto modo di sottolineare costantemente, il servizio di gestione di portafogli è caratterizzato da un elevato grado di discrezionalità dell’intermediario nell’attuazione delle scelte di investimento per conto del cliente[1]. Ciò tanto più, quando (come nel caso di specie) le scelte di investimento compiute dal gestore sono coerenti con la linea di gestione determinata nel contratto; in particolare, dai rendiconti di gestione, che riportano la composizione del portafoglio alle rispettive date e il peso delle singole asset class rispetto al patrimonio complessivo, si può rilevare la continenza dell’attività dell’intermediario nei limiti di allocazione previsti contrattualmente, con riguardo in particolare agli investimenti in titoli strutturati e certificati ammessi nella misura massima del 50% del patrimonio gestito. Le caratteristiche della linea di gestione scelta dal ricorrente prevedevano espressamente la possibilità di investire, tra l’altro, in titoli strutturati (titoli obbligazionari con componente derivativa), certificati (derivati cartolarizzati) e in strumenti finanziari derivati, anche con finalità speculative.
Il contenuto del contratto è da ritenersi coerente con il profilo del ricorrente, connotato da un elevato livello di istruzione, un’ampia conoscenza ed esperienza in materia di prodotti finanziari, un’elevata consistenza patrimoniale e un obiettivo di investimento volto a «conseguire una crescita regolare del capitale con qualche rischio», in un orizzonte temporale «medio (da 3 a 7 anni)».
Per quanto concerne l’asserita violazione degli obblighi di informazione, si deve condividere l’argomentazione dell’intermediario dell’inesistenza di un obbligo di informazione avente ad oggetto gli investimenti in strumenti finanziari complessi effettuati di volta in volta nell’ambito della gestione, visto che il cliente aveva preventivamente approvato, in sede di stipula con la determinazione della linea di gestione, la possibilità di effettuare investimenti come quelli qui contestati; risulta, infatti, che tale informazione è stata fornita al cliente che, infatti, non contesta la circostanza, con l’affermazione (irrilevante) di non averla esaminata.
Il ricorrente ha, peraltro, ricevuto periodicamente, dalla sottoscrizione del contratto fino alla chiusura del rapporto, il rendiconto trimestrale in cui è sempre presente la dichiarazione di adeguatezza della linea di gestione rispetto al suo profilo ed è sempre chiaramente indicata la presenza in portafoglio degli strumenti complessi e, sempre periodicamente, risultano essersi svolti degli incontri tra il private banker e il cliente, nonché l’invio a quest’ultimo di una corrispondenza mail che anticipava le rendicontazioni trimestrali.
Per completezza, va ricordato come non sia prospettabile un deficit di diligenza solo perché gli investimenti non hanno dato al cliente l’esito da questi sperato[2], invero, «affinché sia effettivamente configurabile una mala gestio da parte del gestore, per asseriti risultati negativi della gestione non è sufficiente il mero scostamento dal benchmark prescelto (altrimenti ricorrendo un’ipotesi di responsabilità sostanzialmente oggettiva), dovendosi, invece, valutare pure le ragioni di detto 7 scostamento al fine di individuare eventuali, concreti profili di negligenza e/o imprudenza e/o imperizia del gestore medesimo, che, peraltro, possono essere rivelati anche dall’entità dello scostamento stesso»[3].
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[1] Cfr. ACF, 14 ottobre 2019, n. 1916.
[2] Cfr. ACF, 14 ottobre 2019, n. 1916.
[3] Cfr. Cass. 20 settembre 2021, n. 25343.
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Info sull'autore
Associato dello Studio Legale "Greco Gigante & Partners" (https://studiolegalegrecogigante.it/). Cultore della materia di Diritto Privato e di Diritto del Risparmio, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Salento.