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Nota a Trib. Taranto, Sez. II, 4 luglio 2022, n. 1934.

Massima redazionale

 

Di particolare interesse, la recente sentenza del Tribunale di Taranto, che tratteggia, in una monografia verista (che, a tratti, trascende nel racconto sentimentale del vissuto di una Città), la concettualità di danno non patrimoniale all’immagine, al nome, all’identità personale, all’identità storica, culturale, politica ed economica, alla reputazione turistica, di un Ente territoriale esponenziale, sotto l’egida degli ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali, che hanno riconosciuto, in favore della persona giuridica (e, in genere, dell’ente collettivo) la risarcibilità de qua, allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione.

Anche gli Enti territoriali esponenziali, quale un Comune, possono essere lesi in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l’assenza di fisicità, come i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale, e politica costituzionalmente protetti, e in tale ipotesi ben possono agire per il ristoro del danno patrimoniale[1]. In particolare, il pregiudizio al diritto all’immagine della persona giuridica o dell’Ente è risarcibile, a prescindere dalle conseguenze di carattere economico che ne possano derivare, laddove si verifichi una diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’Ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisce[2]. Tale pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento (ovverosia, in re ipsa), deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici[3], e va liquidato alla persona giuridica o all’ente in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto[4].

Il danno all’immagine rimane, inoltre, distinto dal danno all’ambiente, essendo ben ipotizzabile che, dallo stesso fatto lesivo accertato, possano derivare, oltre che un danno ambientale, nei termini descritti dall’art. 300 del D.lgs. n. 152/2006, anche un danno all’immagine dell’ente territoriale in relazione alla lesione che lo stesso ne può indirettamente subire, sul piano del prestigio e della reputazione, nei confronti della collettività, in quanto evidentemente strettamente connessi (in senso positivo o negativo) anche all’efficacia dell’azione ad esso demandata di custodia e valorizzazione di beni ambientali di particolare rilievo[5].

Tra i casi più celebri in cui la Cassazione ha ritenuto configurabile il danno all’immagine in favore di un ente comunale, si annovera quello relativo al disastro del Vajont, ove, a fronte di un fatto reato di enorme gravità, per il numero delle vittime e per le devastazioni ambientali dei centri storici, fu considerata sussistente la lesione del diritto costituzionale dell’ente territoriale esponenziale (il comune) alla sua identità storica, culturale, politica, economica, costituzionalmente protetta dall’art. 114 Cost.[6] e la legittimazione piena del medesimo ente ad esigerne il ristoro.

L’impianto difensivo sul punto articolato si snoda principalmente intorno a dedotte lacune allegatorie e probatorie, rinvenibili nelle pretese risarcitorie del Comune, alle quali questi parrebbe anelare senza preoccuparsi di «dare una sia pur minima prova anche solo presuntiva di quello che tenta di sostenere»: mancherebbe, dunque, la deduzione e dimostrazione dei danni-conseguenza oggetto dell’invocato ristoro e delle circostanze di fatto che in sede di liquidazione potrebbero sorreggere una valutazione equitativa del giudice.

Il Tribunale tarantino ritiene che, sul versante degli oneri assertivi, l’enucleazione e la composita descrizione, cui il Comune consegna le proprie pretese di ristoro di tale voce di danno, siano già nel libello introduttivo più che adeguate a individuarne il thema decidedum ac probandum: l’immaterialità della lamentata lesione non potrebbe consentire, d’altronde, una più puntuale allegazione, non esistendo in tema parametri matematici ai quali ancorare più saldamente le proprie richieste.

Con precipuo riferimento alle conseguenze dannose che le descritte condotte possano aver causato all’immagine e all’identità storica e culturale della città di Taranto, si ritiene che si possa, senza bisogno di prova, porre a fondamento della propria decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (ex art. 115, comma 2, c.p.c.), ovvero quegli eventi di carattere generale e obiettivo che, proprio perché tali, non abbisognano di essere provati nella loro specificità (il c.d. fatto notorio).

Orbene, perché un fatto possa rivestire carattere di notorietà, occorre che esso sia acquisito alla cultura media della collettività, anche se di un determinato luogo[7], restando al di fuori dell’alveo descritto dall’art. 115, comma 2, c.p.c., l’utilizzabilità di nozioni eventualmente rientranti nella scienza personale del giudice. Se, da un lato, il concetto di “fatto notorio”, al pari di quello di “nozione di comune esperienza”, deve essere interpretato in senso rigoroso, come fatto acquisito alle conoscenze della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, costituendo una deroga al principio dispositivo di cui all’art. 112 c.p.c e al principio di disponibilità delle prove (art. 115, comma 1, c.p.c.)[8], dall’altro lato, tutti i suesposti elementi, comportanti una siffatta deduzione, ben possono anche essere tratti, da una persona di ordinario livello intellettivo e culturale, vivente in un determinato contesto storico e ambientale, dalle correnti informazioni frequentemente diffuse da organi di stampa o radiotelevisivi, alla cui opera informativa e divulgativa va ormai riconosciuto, agli effetti dell’art. 115, comma 2, c.p.c., l’innalzamento della soglia del c.d. “notorio”, costituente l’ordinario patrimonio di conoscenza dell’uomo medio, rispetto a precedenti epoche, caratterizzate da un più basso livello socio-culturale generale della popolazione e da minore capacità diffusiva dei mezzi d’informazione di massa[9]. A titolo esemplificativo, la Cassazione ha ritenuto possa rientrare nel “notorio”:

– il valore di un’autovettura in un determinato mercato, in quanto «i valori di mercato degli autoveicoli usati vengono riportati in moltissime pubblicazioni di stampa a larga diffusione, di tal che possono ritenersi oggetto dell’osservazione e della percezione della collettività e, come tali, appartenenti alle cognizioni comuni e generali piuttosto che alla scienza personale del giudice il quale, perciò, in materia, può far ricorso al notorio omettendo ogni ausilio tecnico e derogando ai principi dell’onere e della disponibilità della prova»[10];

– il fenomeno inflattivo, stante l’attenzione ad esso prestata dai mezzi di informazione di massa (stampa, radio, televisione)[11];

– lo stato di insolvenza del gruppo societario di cui era parte un soggetto del giudizio, desumendo la notorietà di tale fatto dalle numerose notizie di stampa in argomento, non soltanto specialistiche né esclusivamente locali[12].

Ebbene, sulla scorta della descrizione della nozione di “fatto notorio” appena delineata e dell’indicazione delle fonti dalle quali è possibile desumere tale conoscenza di carattere collettivo e sovraindividuale, risulta del tutto indubitabile e incontestabile l’acquisizione al patrimonio di cognizioni, possedute da qualsiasi persona di media cultura della nostra epoca e appartenente al nostro contesto nazionale (e, pertanto, non abbisognevole di prova, senza incorrere nel divieto di impiego della scienza privata del giudice), l’attenzione sempre maggiore che, dalla seconda metà degli anni 2000, i mezzi di informazione hanno dedicato alla questione ambientale di Taranto.

A far data dalla pronuncia definitiva di condanna emessa dalla Cassazione penale, nel 2005, passando per il successivo incalzare dei provvedimenti adottati e delle indagini intraprese e concluse dalle autorità giudiziarie nei confronti dei vertici aziendali, nel procedimento “Ambiente svenduto” (per gravissimi capi di imputazione, anche di carattere associativo, legati al disastro ambientale provocato nella città di Taranto), fino ad arrivare alle numerose manifestazioni cittadine di migliaia di persone che, negli ultimi mesi del 2008, cominciarono a riversarsi per le strade del capoluogo ionico, rivendicando un’attenzione sugli effetti dannosi delle emissioni inquinanti provenienti dallo stabilimento siderurgico prima di allora non ricevuta dalla politica e dagli organi di governo, gli occhi di tutti i mezzi di informazione di massa hanno cominciato a puntarsi in modo costante, e in alcuni periodi persino quotidiano, sulle immagini e sui racconti delle polveri di minerali che dall’acciaieria più grande d’Europa si spandevano sui quartieri, nei mari, sulle case, nei campi del centro urbano che la ospita, sulla loro composizione chimica, sugli effetti epidemiologici che tali emissioni provocavano. Di talché, la questione ambientale di Taranto è diventata patrimonio di conoscenza dell’uomo medio, non solo a Taranto, ma in tutta Italia.

La forza terrificante di siffatto stillicidio narrativo ha irrimediabilmente forgiato l’immagine della città agli occhi di chi non la conosceva, ne ha profondamente cambiato la percezione nel sentire di chi vi abitava, o di chi per qualche ragione l’aveva conosciuta o desiderava conoscerla. Per comprendere non soltanto la portata notoria della rappresentazione di quella che sovente veniva definita dai mass-media come la città più inquinata d’Italia, talvolta d’Europa, ma soprattutto la capacità dirompente e l’estensione capillare con la quale questa narrazione ha permeato il sapere collettivo, si consideri l’enorme spazio che fu dato, proprio agli inizi dello scorso decennio, a Taranto e all’inquinamento che la stava colorando, agli onori delle cronache nazionali ed europee, non soltanto nei mezzi di informazione quotidiana, televisiva, radiofonica e di stampa, deputati ad effettuare un resoconto che non poteva essere taciuto del succedersi delle iniziative della politica, della magistratura, della popolazione e delle associazioni ambientalistiche e di tutela del territorio, chiamate tutte diversamente ad occuparsi del problema per le rispettive sfere di competenza, ma anche in reportage monografici affidati alle più seguite trasmissioni di inchiesta e approfondimento della televisione nazionale, le quali definitivamente consacrarono la popolarità e la diffusiva conoscenza della questione dell’emergenza ambientale a Taranto.

In quegli stessi anni, alla situazione sanitaria della Città ionica e agli effetti degli inquinanti ambientali sulla salute dei suoi abitanti sono stati pure dedicati documentari, libri e pubblicazioni scientifiche[13]: la questione sanitaria veniva impietosamente fotografata da studi e percentuali implacabili, nel mentre la Città ionica si ergeva a simbolo della spietata lotta intestina tra salute e lavoro e il dibattito politico nazionale si frantumava alla ricerca di un punto di equilibrio tra difesa dell’occupazione e della produzione e salvaguardia del territorio e del valore della vita di un’intera popolazione, per la quale la salubrità dell’aria pareva d’improvviso essere diventata un iniquo privilegio ad altri spettante.

Costituiscono prova documentale simbolica, ma estremamente significativa di questa narrazione già “notoria” alcuni articoli tratti dai più importanti giornali e agenzie della stampa nazionale, prodotti dal Comune di Taranto unitamente alle seconde memorie istruttorie. Al riguardo, il giudice tarantino evidenzia come sia di poco rilevio che alcune di dette pubblicazioni fossero di qualche mese o anno successivo all’instaurazione del giudizio e, dunque, avessero a oggetto notizie diffuse in un periodo di tempo differente rispetto a quello nel quale si era svolta la condotta illecita ascritta agli odierni convenuti: si tratta infatti di approfondimenti sulla situazione ambientale e sanitaria di Taranto frutto delle attività industriali inquinanti poste in essere, anche o prevalentemente, negli anni precedenti e che, anzi, dimostrano come la lesione dell’immagine della città proseguita nel corso del giudizio, con le stesse forme e con intensità costante ove non maggiore, sia almeno in parte manifestazione dannosa della condotta illecita pregressa risalente, dovendo, pertanto, essere tenuta in adeguata considerazione nella quantificazione della relativa posta risarcitoria.

Ciò posto, la prova del c.d. evento di danno, rappresentato dalla lesione dell’immagine della Città, dà la stura alla possibilità di ritenere provate, anche attraverso il ricorso a presunzioni, le conseguenze dannose di tale illecito, dettagliatamente individuate dal Comune di Taranto, nell’atto di citazione e negli scritti difensivi successivi, come il frutto di comportamenti penalmente rilevanti e di una grave compromissione degli interessi costituzionalmente tutelati facenti capo all’ente territoriale (art. 114 Cost.). La via presuntiva calca in questa indagine tracce e margini molto chiari, segnati da un percorso eziologico articolato su un sentire comune che non lascia varchi al dubbio. Acquisita infatti, anche tramite il notorio[14], la conoscenza del danno evento e della sua portata dirompente, il convincimento sulla sussistenza delle conseguenze di questo nella sfera percettiva ed emotiva della popolazione non necessita del ricorso a prove costituende, ben potendo interamente essere desunto tramite presunzioni semplici in grado di riconoscere quei pensieri e sentimenti come altamente probabili e verosimili secondo un criterio di normalità e regole di esperienza. D’altronde, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio giudizio, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova e controllarne l’attendibilità e la concludenza[15].

In forza di questo ragionamento induttivo, il Tribunale ritiene, dunque, che l’immagine funesta di «una città fondata sul binomio XXXX = inquinamento, inteso nelle accezioni più negative e disparate – morte, veleni, disastro ambientale», come la descrive parte attrice nel proprio libello introduttivo, abbia in primo luogo colpito la percezione e frantumato la considerazione della propria città agli occhi dei suoi stessi abitanti, travolgendone nel quotidiano la qualità della vita. Le mobilitazioni e le manifestazioni di migliaia di tarantini, a partire dal 2008, hanno incarnato il riscontro notorio di quali potessero essere le conseguenze della nuova immagine di Taranto, che andava prepotentemente occupando la scena nazionale (conseguenze, peraltro, comunque ricavabili, in via presuntiva, dalla diffusione capillare di informazioni sulla composizione chimica delle polveri inquinanti che, in misura massiccia e pressoché incontrollata, si propagavano dallo stabilimento siderurgico eretto a ridosso dei quartieri abitati e ai loro effetti irreversibili per apparati diversi dell’organismo umano, atti a tradursi in eventi di malattia e di morte).

Così, mentre maturava negli abitanti di Taranto una sempre più nitida consapevolezza circa la gravità della situazione ambientale della città (fotografata, peraltro, nelle premesse di numerosi provvedimenti legislativi che cominciarono a rincorrersi nella ricerca di soluzioni per coniugare salvaguardia della produzione dell’acciaio e del lavoro e misure di tutela e ripristino delle risorse ambientali colpite dalle emissioni industriali), si sgretolavano ai loro occhi la considerazione e il senso di sicurezza che dovrebbero sorreggere l’appartenenza a un nucleo abitativo, nel quale si è nati e cresciuti e/o nel quale per ragioni logistiche o elettive si è deciso di vivere.

La conoscenza acquisita dai più importanti mezzi di informazione sulla gravità e pericolosità delle emissioni inquinanti che, per anni, si erano propagate e che continuavano a diffondersi nell’aria della città non può che averne mutato la percezione nella considerazione dei suoi stessi abitanti: Taranto non era più una città come le altre, con pregi e difetti, vizi e virtù, era adesso un luogo ostile, rappresentava una scelta di vita rischiosa per la salute propria e dei propri cari.

Se il dibattito nazionale metteva chiaramente a fuoco il c.d. ricatto occupazionale, la dicotomia tra “vita” e “lavoro” nella quale erano costretti senza via d’uscita i dipendenti dello stabilimento siderurgico, la diffusione dei dati relativi all’incremento delle patologie legate all’inquinamento ambientale, soprattutto in età pediatrica, sviliva il valore e le potenzialità di un intero centro abitato: la scelta tra “restare”, “andare via” e poi “tornare”, che fisiologicamente si pone in alcuni momenti della vita di ogni persona rispetto ai luoghi di origine, alla stregua del normale sentire si trovava ad assumere nei confronti di Taranto le tinte tristi di una chance di fuga, dalle malattie, dai veleni, dalla convivenza forzata con coltri di polveri di minerali, una possibilità di salvezza e di una vita più sana per sé e per i propri figli. L’immagine funesta della città più inquinata d’Italia non poteva che suggerire ai tarantini che avevano la possibilità di mettersi al sicuro di lasciare Taranto, ai suoi giovani di andare via per non tornare, privando così la comunità, ben oltre quanto non sarebbe comunque successo in ragione delle condizioni socio-economiche del mercato, di una delle sue risorse vitali più importanti.

L’atto di citazione si dilunga, altresì, sulle conseguenze che l’attività inquinante dello stabilimento Ilva ha prodotto in termini di gravissimi danni al nome, alla reputazione e alla vocazione turistica della città su scala nazionale e internazionale. Anche da questo angolo visuale appare indubitabile il discredito riversato sull’immagine di Taranto dalla propagazione delle informazioni relative all’emergenza ambientale.

Nei primi anni dello scorso decennio il Comune ionico balzava, infatti, quasi quotidianamente agli onori delle cronache televisive e delle pagine della stampa nazionale: i video e le foto dei camini dello stabilimento siderurgico, dai quali fuoriuscivano nubi viola che diventavano nebbia rossastra lungo le strade del rione confinante con la fabbrica, che si abbattevano sulla città seppellendola sotto coltri di minerali, che avvolgevano ciminiere, case e scuole in un manto spettrale visibile a chilometri di distanza, diventavano virali, cavalcando anche l’onda della forza pervasiva dei nuovi social media, con una portata così dirompente, tra preoccupazioni, sdegno e paure, da sostituire nella memoria collettiva qualsiasi altra immagine e rappresentazione della città, occupandone tutto lo spazio disponibile; le immagini surreali delle tormente di minerali nei cc.dd. wind days[16] facevano il giro completo del web e dei mezzi di informazione tradizionali, restituendo agli occhi del Paese la nitida percezione di un tessuto urbano contaminato e disgraziato, perché lasciato senza tutele per la salute dei suoi cittadini, esposti e sottoposti persino all’imponderabile variare delle condizioni metereologiche.

La capacità della città di attrarre persone dall’esterno ne risultava così irrimediabilmente annullata dalla sua stessa immagine di centro urbano “tossico”, ove si respirava aria nociva per la salute e la vita umana: un’immagine cupa in grado di spaventare, disincentivare, azzerare ogni vocazione abitativa e turistica di Taranto.

Tale danno-conseguenza si riproduceva, con caratteristiche e fattezze analoghe, pure rispetto alla reputazione di cui potevano fregiarsi i prodotti alimentari, dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca e della maricoltura, tipici della città, anch’essi irrimediabilmente pregiudicati dalle notizie relative alle ordinanze di abbattimento dei capi di bestiame contaminati da diossina e PCB e di distruzione per ragioni sanitarie di tonnellate di mitili coltivati, anche questi contaminati da diossina, PCB e metalli pesanti, riconducibili, come accertato dai periti del Tribunale nella perizia chimico-ambientale disposta dal G.i.p., alle emissioni diffuse e fuggitive conseguenti all’attività industriale di sinterizzazione presente nello stabilimento, periti che avevano pure evidenziato come la diossina fosse un inquinante organico persistente, in grado di intaccare ed entrare direttamente, ove ingerita, nella catena alimentare[17].

I racconti, i numeri, le scene di questo disastro ambientale hanno gettato nell’oblio dell’immaginario collettivo ogni legame identitario della città al mare e al proprio passato: la storia gloriosa e millenaria di Taranto, che l’aveva vista “capitale della Magna Grecia” tra le più antiche, floride e potenti colonie fondate nell’Italia meridionale e nella Sicilia orientale, è stata soppiantata dalla sua storia recente, una cronaca nera fatta di immagini terrorizzanti e record percentuali indesiderati.

La percezione di un territorio tossico e contaminato, finanche nei prodotti alimentari che offre, foriero di danni alla salute e di pericoli per la vita umana, pronto al coprifuoco e soggetto a tempeste di polveri di minerali nei giorni più ventosi di maestrale, incarna la massima lesione possibile dell’immagine di una città trasformata in “capitale della diossina”, un luogo ove il valore stesso dell’esistenza umana appare ridimensionato ed esposto a rischi altrove inaccettabili; l’unicità della conformazione e posizione topografica di Taranto, il suo sorgere gremita tra due mari, le sue ricchezze naturalistiche e le molteplici testimonianze storico-artistiche, archeologiche e architettoniche del suo importante passato altro non rimangono che brandelli di irrisorie virtù di fronte agli animi di istintiva sopravvivenza che la rappresentazione del suo degrado ambientale muove nel sentire comune.

La quantificazione equitativa di questo danno non patrimoniale può essere ancorata, in forza di quell’analogia prima evidenziata, ai criteri orientativi per la liquidazione del danno da diffamazione a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa, elaborati dall’Osservatorio della Giustizia civile del Tribunale di Milano[18]. Muovendo dalla considerazione dell’entità massima della lesione inferta all’immagine di Taranto e della gravità del discredito procuratole, incidenti sulle paure primarie nutrite da ogni essere umano rispetto ai beni giuridici più preziosi (la vita e la salute), della continuità/permanenza nel tempo dei fatti illeciti originanti il lamentato danno, del suo manifestarsi in modo ingravescente anche nel corso del presente giudizio (ovverosia ad anni di distanza dalle condotte attenzionate), della loro natura essenzialmente dolosa, della massima diffusione e del notevole clamore mediatico ricevuto dalle notizie relative alla questione ambientale e sanitaria della città, si ritiene, in via prudenziale ed equitativa, di parametrare la liquidazione a un importo pari a 160 volte il minimo riconosciuto dalle tabelle milanesi per l’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa di eccezionale gravità prodottasi nella sfera privata di un singolo individuo. Tale personalizzazione esponenziale è imposta dal rilievo che l’offesa arrecata alla reputazione, all’identità storico-culturale ed economica, al cuore della vocazione abitativa e turistica del capoluogo ionico lo ha travolto, in modo difficilmente reversibile, in quasi tutti i campi e gli aspetti della vita in cui possa esprimersi la sua personalità di ente di natura pubblica, rappresentativo di un territorio e di una collettività di circa 200 mila abitanti.

 

 

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[1] Cfr. Cass. n. 4542/2012.

[2] Cfr. Cass. n. 8662/2017, n. 22396; Cass. n. 18082/2013.

[3] Cfr. Cass. n. 11446/2017; Cass. n. 20643/2016.

[4] Cfr. Cass. n. 12929/2007.

[5] Cfr. Cass. n. 24619/2014.

[6] Cfr. Cass. n. 3807/1998.

[7] Cfr. Cass. n. 9244/2007.

[8] Cfr. Cass. n. 8580/2022; Cass. n. 21810/2021; Cass. n. 9714/2020; Cass. n. 6299/2014.

[9] Cfr. Cass. n. 18748/2010.

[10] Cfr. Cass. n. 13056/2007.

[11] Cfr. Cass. n. 11774/1993.

[12] Cfr. Cass. n. 17906/2015.

[13] Il riferimento è, in primis, al Rapporto Sentieri, più volte ripreso nella perizia epidemiologica disposta dal G.i.p. del Tribunale di Taranto e nei successivi provvedimenti cautelari da questo assunti, i cui risultati in merito all’andamento temporale della mortalità a Taranto nel periodo 1980-2008 e all’incidenza dei tumori nel periodo 2006-2007 furono riportati dai canali istituzionali di informazione del Governo, nonché dai principali quotidiani nazionali. Gli stessi risultati della perizia epidemiologica con riguardo agli eccessi di mortalità per tumori e malattie cardiorespiratorie furono altresì ripresi da alcune tra le più note agenzie di stampa e testate giornalistiche europee. Adeguata risonanza sui mezzi di informazione ebbero pure le ordinanze con le quali fu disposto l’abbattimento di circa 2.271 capi di bestiame destinati all’alimentazione perché contaminati da diossina e PCB e quindi pericolosi per la salute umana e la distruzione per ragioni sanitarie di tonnellate di mitili coltivati nello specchio acqueo del 1° seno del Mar Piccolo di Taranto, anche questi contaminati da diossina, PCB e metalli pesanti, episodi che furono pure posti a fondamento dell’imputazione per il reato di concorso in avvelenamento di acque e di sostanze alimentari (art. 439 c.p.), oggetto di contestazione penale nei confronti, tra gli altri, degli odierni convenuti, e di successiva recente condanna in primo grado, «perché, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità di cui sopra, attraverso l’attività di sversamento delle sostanze nocive di cui ai precedenti capi di imputazione, provocavano e comunque non impedivano la contaminazione dei terreni ove insistevano diverse aziende agricole locali, … nonché provocavano e comunque non impedivano la contaminazione dello specchio acqueo del 1° seno del Mar Piccolo di Taranto ove insistevano numerosi impianti di coltivazione di mitili». Nell’estate del 2012, infine, dopo la pubblicazione dei risultati delle perizie chimiche ed epidemiologiche disposte dal G.i.p. del Tribunale di Taranto e all’indomani dell’adozione del provvedimento di sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, delle aree e impianti dello stabilimento siderurgico e dell’ordinanza applicativa della misura cautelare personale degli arresti domiciliari nei confronti di otto indagati, per i quali il G.i.p. ritenne sussistenti gravi indizi di colpevolezza, il caso esplose mediaticamente, anche per le importanti mobilitazioni che videro protagonisti da un lato i cittadini, in piazza a rivendicare la tutela del valore della loro vita, e dall’altro i dipendenti dello stabilimento siderurgico e dell’indotto, confinati nell’indicibile dilemma salute-lavoro.

[14] V. Cass. n. 2431/2004.

[15] Cfr. Cass. n. 26296/2019; Cass. n. 18259/2017; Cass. n. 9108/2012.

[16] Il riferimento è alle giornate, segnalate dal sito di Arpa Puglia, in cui, in assenza di precipitazioni, l’intenso vento nord-ovest proveniente dall’area industriale spinge sulla città gli agenti inquinanti fuoriusciti dallo stabilimento, tra cui Pm10 e benzo(a)pirene.

[17] Significativo, a tal riguardo, è stato il diffondersi, quantomeno nella stampa locale e regionale, dell’epiteto “cozze alla diossina” esprime al suo massimo grado il frantumarsi di un simbolo della storia socio-economica del territorio, quello della “cozza tarantina”, che, insieme ad altri rinomati prodotti alimentari della terra e del mare di Taranto (pesce, mozzarelle, formaggi), veniva seppellita sotto la coltre di polveri industriali e travolta dal sospetto, irreversibile e indomabile nei timori del consumatore, di essere contaminata e tossica.

[18] Il riferimento è alle cc.dd. Tabelle di Milano – edizione 2018, rimaste invariate nell’aggiornamento del 2021.

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