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Commento a Cass. Civ., Sez. VI, 16 marzo 2020, n. 7311.

di Francesca Maria Leo[*]

 

 

 

 

Premessa.

Una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione offre lo spunto per alcune brevi riflessioni, connesse all’accertamento del presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento. Più precisamente, la questione affrontata e decisa dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione[2] concerne la correlazione tra la stipulazione di un contratto d’affitto da parte dell’operatore economico e la perdita della qualifica di imprenditore commerciale, condizione, quest’ultima, necessaria ai fini dell’integrazione dei requisiti soggettivi di fallibilità previsti dall’art. 1 L. Fall.

 

La fattispecie.

La vicenda, da cui origina l’ordinanza oggetto del presente contributo, vede protagonista un’associazione sindacale tra artigiani, poi dichiarata fallita, avente per scopo statutario la promozione degli interessi, lo studio, nonché la gestione delle problematiche di categoria, il cui reclamo, avverso la sentenza di fallimento, veniva ulteriormente rigettato dai giudici della Corte d’Appello di Ancona.

Plurimi i motivi di gravame in cui si articolava il ricorso proposto dalla predetta associazione debitrice innanzi alla Suprema Corte di Cassazione; più specificatamente, la ricorrente lamentava, in primis, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2221 c.c. e 1 L. Fall., sostenendo  l’insussistenza della qualità di imprenditore commerciale in virtù della qualificazione della medesima in termini di associazione sindacale di artigiani, restando irrilevante l’economicità della gestione; col secondo motivo censurava la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e 10 L. Fall., stante la dismissione oramai della propria attività sin dal lontano 2014, negando, del resto, la stipulazione di un contratto di affitto d’azienda. Col terzo motivo di ricorso si evidenziava come, pur ove posto in essere il predetto negozio, lo stesso avrebbe, inevitabilmente, determinato la perdita della qualifica di imprenditore commerciale, con chiara violazione da parte della sentenza oggetto di gravame dell’art. 1 L. Fall., il quale prescrive la suddetta qualità tra i requisiti soggettivi del fallimento; infine lamentava violazione di legge in quanto, al fine di provare la cessazione dell’attività di consulenza legale, essa aveva articolato capitoli di prova, i quali, tuttavia, non erano stati ammessi.

 

La questione giuridica affrontata e la decisione della Cassazione.

Se la risposta del S.C. è decisamente negativa in ordine alla maggior parte dei motivi di ricorso, pocanzi menzionati, è l’esame della doglianza relativa alla stipulazione di un contratto d’affitto a costituire spunto di riflessione per l’interprete e filo conduttore del percorso logico giuridico propugnato dai giudici di legittimità. La questione postasi dinanzi alla Corte può essere sintetizzata nel seguente interrogativo: può l’intervenuta stipulazione del contratto di affitto da parte dell’imprenditore costituire, aprioristicamente e incontrovertibilmente, prova della prosecuzione dell’attività d’impresa? Ebbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza di appello, i giudici di legittimità negano siffatta connessione ed escludono che l’accertamento dell’avvenuto affitto dell’azienda costituisca fattore unico rilevatore del proseguimento dell’attività d’impresa; tale conclusione, tuttavia, non deve far pensare, a contrario, che l’intervenuta stipula di siffatto accordo contrattuale determini, a priori, la dismissione dell’attività imprenditoriale. All’organo giudicante è demandato, comunque, il compito di accertare, in concreto, che alla stipulazione del contratto sia accompagnata una condotta dell’imprenditore univocamente diretta alla definitiva dismissione dell’attività originariamente intrapresa.

Del resto, la necessità di un’indagine effettiva e in positivo in ordine alla cessazione dell’attività imprenditoriale appare in linea col principio di effettività sancito dal legislatore con l’art. 10 L. Fall.

L’attuale formulazione della disposizione, infatti, superando l’artificiosa distinzione esistente in passato tra imprenditori individuali e collettivi, nonché il dibattitto giurisprudenziale e dottrinale sorto in merito, ha stabilito, per entrambe le tipologie di operatori economici, che il fallimento non possa essere pronunciato dopo un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, informando il sistema al principio di pubblicità e di certezza dei rapporti giuridici[3]. Tuttavia, la precedente differenza di trattamento tra l’impresa collettiva e quella individuale torna a riproporsi nel secondo comma dell’art. 10 L. Fall. che prevede la possibilità di provare che la cancellazione dell’impresa individuale non corrisponde all’effettiva cessazione dell’attività di impresa, con la conseguenza che il termine dell’anno non decorre dalla cancellazione, ma dalla effettiva interruzione[4].

Per quanto concerne l’imprenditore persona fisica, dunque, il dato formale della cancellazione dal registro delle imprese costituisce condizione necessaria, affinché l’imprenditore benefici del termine annuale per la dichiarazione di fallimento, ma non sufficiente poiché la presunzione iuris tantum di cessazione – derivante dalla cancellazione- potrà essere vinta dalla prova contraria, fornita dal p.m. e dai creditori, che l’attività è comunque proseguita anche successivamente[5]. Se dunque, è la realtà materiale ad esser prevalente sul dato formale della cancellazione appare perfettamente coerente con suddetta impostazione il precipitato logico espresso dalla pronuncia in commento secondo cui «ai fini della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore commerciale, l’affitto dell’azienda comporta, di regola, la cessazione della qualità di imprenditore, salvo l’accertamento in fatto che l’attività d’impresa sia, invece, proseguita in concreto, non essendo sufficiente affermare la compatibilità tra affitto di azienda e prosecuzione dell’impresa, la quale va invece positivamente accertata dal giudice del merito»[6].

 

 

Qui il testo integrale della pronuncia.


[*] Cultore della materia di Diritto Commerciale e di Diritto delle crisi d’impresa, presso l’Università del Salento, e abilitata all’esercizio della professione forense.

[2] Cassazione civile sez. VI, 16/03/2020, n.7311 in Diritto & Giustizia 2020, 17 marzo.

[3] Il testo accoglie la censura di incostituzionalità rilevata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 319 del 21.07.2000, secondo cui il termine di un anno dalla cessazione dell’attività, prescritto ai fini dell’art. 10 L. Fall., per la dichiarazione di fallimento decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese.

[4] Cfr. R. Battaglia, sub. art. 10 L. Fall. in Codice commentato del fallimento – a cura di Giovanni Lo Cascio – Lo Cascio Giovanni, Ipsoa, 2017.

[5] Cfr. G.F. Campobasso, Diritto dell’impresa, Utet giuridica, Torino, 2012, 103 ss. Secondo alcuni autori la possibilità di provare la data di effettiva cessazione si rapporta all’interesse dei creditori istanti di poter dimostrare, a dispetto della cancellazione risultante dal registro, che l’attività di impresa non è affatto cessata, e che quindi non è decorso l’anno di fallibilità. Così F. Lamanna, sub art. 10, in A. Jorio (a cura di) e M. Fabiani (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2006; G. Cavalli, La dichiarazione di fallimento. Presupposti e procedimento, cit., 13. Diversa l’opinione di A. Nigro, sub art. 10, in A. Nigro e M. Sandulli, La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, 58; S. Fortunato, sub art. 1, cit., 52; L. Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006, 29; E. Bertacchini, L. Gualandi, S. Pacchi, G. Pacchi e G. Scarselli, Manuale di diritto fallimentare, cit., 33, secondo i quali la presunzione posta dall’ art. 10 L. Fall. può essere superata anche dall’imprenditore, il quale può opporre che la cessazione effettiva dell’attività risale ad un momento anteriore a quello della cancellazione.

[6] Questo il principio di diritto affermato nella pronuncia in commento.