Nota a App. Bari, Sez. I, 7 maggio 2025.
Nell’ambito di una procedura fallimentare, il fallito ha proposto ricorso ex art. 142 L.F., chiedendo di essere ammesso al beneficio della esdebitazione relativamente ai crediti non integralmente soddisfatti.
Il Tribunale ha dichiarato il ricorso inammissibile perché tardivo.
Il fallito, pertanto, ha depositato reclamo avverso il decreto di inammissibilità del ricorso per l’esdebitazione.
La Corte di Appello di Bari ha accolto il reclamo presentato dal fallito, ammettendolo al beneficio dell’esdebitazione e dichiarando, per l’effetto, inesigibili nei suoi confronti i crediti concorsuali non integralmente soddisfatti.
La pronuncia merita un preliminare excursus normativo e qualche considerazione a margine.
L’istituto della esdebitazione viene introdotto in Italia con la riforma della Legge Fallimentare attuata dal D. Lgs. 5/2006, ma non mancano dei riferimenti nella prassi precedente.
Già ai tempi di Benedetto Croce vi era l’uso di condurre i debitori insolventi presso il Tribunale della Vicaria, costringendoli a denudarsi e colpire una colonna, affinché l’onta subita potesse sdebitare l’insolvente (cfr. “Colonna mia aggarbata, io m’aggio fatto li dièbbete e tu me l’hai pavate”).
Nei primi anni del Novecento, il progetto di Legge Fallimentare Orlando del 1909 prevedeva la possibilità per il Tribunale di concedere al debitore la liberazione delle obbligazioni non soddisfatte “tenendo conto della quantità ed importanza di esse, delle cause del dissesto e di ogni altra circostanza”.
Tuttavia, l’istituto, già ampiamente applicato in altri Paese di common e civil law, in Italia non ha attecchito per lungo tempo, essendo prevista – in ambito fallimentare – solo la riabilitazione civile del fallito, con ben altre conseguenze liberatorie, assolutamente difformi dai vantaggi dell’esdebitazione.
Nel nuovo Millennio la dottrina, dopo un lungo periodo di riflessione, rinnova il proprio interesse verso l’istituto del “discharge” anglosassone, termine utilizzato nel diritto fallimentare per indicare la “esdebitazione” ossia la possibilità in capo al soggetto fallito di liberarsi, in presenza di alcune condizioni, dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non integralmente soddisfatti nella procedura.
Invero, nel 2004 l’acceso dibattito sulla introduzione dell’istituto della esdebitazione ha portato alla presentazione di diversi progetti di legge per la riforma delle procedure della crisi d’impresa con estensione dell’istituto della esdebitazione anche al caso di insolvenza del debitore comune. Tali progetti sono stati confinati nello stato embrionale, di fatto non avendo avuto seguito nella riforma del 2006.
Probabilmente, l’interesse del legislatore italiano si è originariamente proiettato nei soli riguardi del debitore commerciale per meri refusi storici, risalenti all’influenza del codice napoleonico ed il susseguirsi della normazione con i codici di commercio italiani del 1865 e del 1882, ai quali ha fatto seguito il codice civile del 1942 e la coeva legge fallimentare.
In Italia, quindi, l’esdebitazione del debitore commerciale viene introdotta solo con la riforma attuata dal D. Lgs. 5/2006 (in attuazione della Legge delega 80/2005) e consiste in un istituto che ha la finalità di non penalizzare in maniera definitiva il soggetto che si trova in una situazione di crisi, sul presupposto che questa possa rappresentare un momento, seppur non fisiologico, tuttavia possibile, nella vita dell’impresa, finalizzato a consentire il c.d. fresh start.
La ratio della riforma è quella di rimuovere l’aspetto sanzionatorio degli effetti personali del fallimento, intendendo la procedura come uno strumento di mera regolazione dell’insolvenza, sopprimendo contestualmente l’istituto della riabilitazione civile ed il pubblico registro dei falliti.
Il passaggio del testimone tra gli istituti, arbitrariamente associati tra loro, ha prodotto i suoi effetti anche in termini di disciplina transitoria; tuttavia il legislatore del 2006 ha avuto l’accortezza di chiarire che “L’istituto dell’esdebitazione, previsto dagli artt.142 e seguenti l.fall., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006 e modificato dal d.lgs. n. 169 del 2007, si applica, secondo quanto disposto dalla disciplina transitoria, anche alle procedure di fallimento aperte prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, purché ancora pendenti a quella data (16 luglio 2006), e, tra quest’ultime, a quelle chiuse alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169 del 2007 (1° gennaio 2008), sempre che, in quest’ultimo caso, la relativa domanda sia presentata entro un anno dalla medesima data…”.
Non sono mancati dubbi e soluzioni discordanti nel 2006, così come a partire dall’entrata in vigore del C.C.I.I. ad oggi si sono consolidate due possibili soluzioni ermeneutiche relative alla applicabilità della nuova normativa ai fallimenti dichiarati precedentemente all’entrata in vigore della Legge riformata, dettagliatamente riportate nel provvedimento in commento e corroborate da diverse pronunce dei Tribunali di merito, in un senso e nell’altro.
Il provvedimento in commento pone due questioni fondamentali, tra loro strettamente correlate e cioè l’autonomia del procedimento con il quale il fallito chiede di accedere al beneficio della esdebitazione e la pedissequa decisione sulla applicazione della normativa riformata in luogo delle previsioni della legge fallimentare.
Il Tribunale di Bari fonda la propria decisione su una concezione autonoma del procedimento per richiedere ed ottenere l’esdebitazione e la consequenziale qualificazione dell’istituto come a sé stante, adducendo il maggio favor per il fallito quale elemento regolatore della fattispecie.
La tesi non è condivisa dalla Corte di Appello di Bari la quale evidenzia, tra l’altro, che tale orientamento più favorevole riguarderebbe solo il merito della valutazione e non anche il procedimento per ottenere l’esdebitazione; infatti la legge fallimentare è proceduralmente più favorevole al fallito, in quanto consente di presentare l’istanza di esdebitazione anche oltre la chiusura del fallimento e precisamente entro un anno dalla definitività del decreto di chiusura del giudizio. La norma riformata, invece, prevede che sull’istanza del debitore il Tribunale provveda contestualmente alla pronuncia del decreto di chiusura della procedura.
Si precisa, poi, che il fallimento del reclamante soggiace ad ulteriore disciplina transitoria, relativa all’applicazione del termine ridotto di impugnazione e contenuta nella L. 69/2009. Alla luce di quanto disposto da tale normativa, il termine semestrale per l’impugnazione del decreto di chiusura del fallimento e quindi il termine ridotto per addivenire alla definitività del suddetto decreto (a partire dal quale si conteggia l’anno entro cui presentare istanza di esdebitazione) si applica solo ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della riforma (04.07.2009).
La instaurazione del procedimento del reclamante, tuttavia, risale al 1997 e pertanto il termine annuale per depositare l’istanza di esdebitazione decorre dalla definitività del decreto di chiusura di fallimento che non soggiace al termine semestrale di impugnazione di cui alla Legge del 2009, ma si colloca nell’alveo dei procedimenti per i quali il termine impugnazione è annuale.
Pertanto, l’istanza presentata dal fallito risulta essere tempestiva.
Si rileva, infine, che con il provvedimento reclamato e successivamente riformato dalla Corte di Appello, il Tribunale di Bari ha erroneamente inteso percorrere la via della autonomia del procedimento di esdebitazione ritenendo che lo stesso non soggiace alla normativa che ha già disciplinato la procedura fallimentare a monte della richiesta del fallito, potendo, invece, applicarsi la normativa riformata del C.C.I.I.
A tal uopo preme evidenziare che l’art. 390 C.C.I.I. al comma 2 prevede che “le procedure di fallimento e le altre procedure di cui al comma 1, pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto (15.07.2022), nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al medesimo comma sono definite secondo le disposizioni del regio decreto 16 marzo 1942, nonché della legge 27 gennaio 2012, n. 3” e pertanto deve ritenersi condivisibile la soluzione interpretativa che pone i fallimenti dichiarati prima dell’entrata in vigore della riforma sotto l’egida della “vecchia” legge fallimentare, il cui accoglimento è condizionato alla sussistenza di specifici presupposti fattuali verificatisi all’interno della procedura fallimentare e ad essa strettamente connessi.
Seguici sui social:
Info sull'autore