1 min read

Nota a Cass. Civ., Sez., I, 13 giugno 2024, n. 16477.

di Alessio Buontempo

Praticante Avvocato presso Giovannelli e Associati

La Prima Sezione Civile della Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso presentato avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli da una società (la Società) e i suoi fideiussori, i quali chiedevano la restituzione di somme indebitamente versate per l’illegittima applicazione di interessi sui conti correnti bancari accesi dalla Società presso la propria banca (la Banca).

In particolare, nella resistenza della Banca che eccepiva, inter alia, la prescrizione della pretesa di parte attrice, il Tribunale di Napoli ad esito di una CTU, dichiarò la cessazione della materia del contendere delle domande proposte dalla Società, nel frattempo cancellata dal registro delle imprese, respingendo le relative domande dei fideiussori. Successivamente la Corte d’Appello di Napoli ha dichiarato inammissibile l’impugnazione presentata dalla Società, in quanto cancellata dal registro delle imprese, e ha condannato la Banca al pagamento di una somma corrispondente al saldo del conto corrente, pari ad Euro 456.746,48, in favore del socio unico della Società ormai estinta, dichiarando oltretutto assorbita la domanda dei fideiussori.

A seguito di tale pronuncia, la Banca ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi e, in particolare:

  1. violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2697 cod. civ., 112 e 101 cod. proc. civ. e l’omesso esame di un fatto decisivo, non essendosi la Corte d’Appello avveduta che la domanda, vertente su una richiesta di condanna ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., era inammissibile per difetto del presupposto essenziale costituito dall’estinzione del conto e dall’avvenuto pagamento a saldo di tutte le poste ritenute invalide o illegittime, volta che neppure era stata adombrata la conversione della domanda di condanna in domanda di mero accertamento del saldo medesimo; infatti l’elemento della chiusura del conto e/o del pagamento del saldo avrebbe dovuto esser considerato alla stregua di condizione di ammissibilità dell’azione di ripetizione, e non solo di procedibilità;
  2. violazione o falsa applicazione degli artt. 2496 cod. civ. e 110 cod. proc. civ., essendosi la Corte d’Appello conformata a un indirizzo giurisprudenziale in contrasto con la soluzione validata dalle Sezioni Unite con le sentenze nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013, dovendosi escludere la successione dei soci delle società estinte nelle mere pretese, anche laddove già azionate, e nei crediti incerti o illiquidi; in tal senso la decisione impugnata sarebbe errata, avendo affrontato l’argomento come se si trattasse di diritti di credito liquidi e definiti; cosa d’altronde ricavabile dall’ampia disquisizione sulle modalità di estrinsecazione della remissione tacita, che riguarda per l’appunto diritti quanto meno liquidi e di ammontare noto o determinabile;
  3. violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2033, 2934 cod. civ., 112 e 132 cod. proc. civ., e l’omesso esame di fatto decisivo, per avere la sentenza deciso la causa senza alcun approfondimento, non avendo affatto il c.t.u. “prospettato una duplice ipotesi di calcolo”, come invece ritenuto dalla corte territoriale, ma una duplice distinzione a sua volta suddivisa in altre due e segnatamente: una prima distinzione in base alle spese collegate alla tenuta e/o al funzionamento del rapporto di c/c in essere, e una seconda in base alle spese legate a “rapporti terzi”, tali da richiedere una specifica pattuizione; per cui quella infine ritenuta dalla Corte d’Appello era una semplice sotto distinzione, relativa a questa seconda ipotesi e incentrata sulla epurazione di spese e interessi anche di conti terzi e di altri rapporti. Così, in sostanza, la scelta della corte territoriale era caduta su una soluzione avente come elemento di fondo un conto depurato da qualsiasi spesa e da interessi anche relativi a rapporti estranei al giudizio, neppure richiamati specificamente; sui quali diversi rapporti non si era mai instaurato alcun contraddittorio, essendo infine mancata qualsiasi verifica di eventuali profili di criticità o di eventuali poste illegittime applicate dalla banca.

La Suprema Corte si è soffermata particolarmente sul secondo motivo di ricorso, in quanto nell’ultimo decennio ha generato una divaricazione di indirizzi nella stessa giurisprudenza di legittimità. La questione attiene specificamente alla possibilità di configurare una tacita rinuncia dei crediti della società, non compresi nel bilancio finale di liquidazione, come effetto stesso della cancellazione dal registro delle imprese, con conseguente estinzione, nella pendenza del giudizio teso a farli accertare. Su tale punto le Sezioni Unite hanno espresso il noto principio secondo il quale, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale, tuttavia, dal lato attivo, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.

Anche sulla base di tale indirizzo è stata peraltro progressivamente valorizzata in modo non univoco la questione, di non secondario effetto pratico, del rinvenimento di una presunzione qualificata di rinuncia alle pretese così definibili.  E in tal senso, invero, la Cass. Sez. 3 n. 15782-16 ha ritenuto che in caso di cancellazione volontaria di una società dal registro delle imprese, effettuata in pendenza di un giudizio risarcitorio introdotto dalla società medesima, si presume che quest’ultima abbia tacitamente rinunciato alla pretesa relativa al credito, ancorché incerto ed illiquido, per la cui determinazione il liquidatore non si sia attivato, preferendo concludere il procedimento estintivo della società, comportando tale presunzione che non si determini alcun fenomeno successorio della pretesa sub iudice, cosicché i soci della società estinta non sono legittimati ad impugnate la sentenza d’appello che abbia rigettato la pretesa.

Tale indirizzo ha, però trovato contrasto di due sezioni semplici della cassazione, ciò permettendo di evidenziare che, a seguito delle pronunce delle Sezioni Unite, tra cui quella sopra citata, si è perpetuato un contrasto in seno alla S.C., vertente in particolare sulla possibilità di configurare la tacita rinuncia ad alcuni dei crediti della società, sub iudice e illiquidi, e non compresi nel bilancio finale di liquidazione, ove questa venga cancellata dal registro delle imprese in pendenza di lite, con conseguente estinzione e impossibilità di trasferimento ai soci anche ai fini dell’art. 110 cod. proc. Civ..

Sicché nell’ambito della presente pronuncia, la S.C. rilevando che, da una parte, la stessa ha ritenuto in più battute di poter trovare un punto di equilibrio nell’affermazione di una presunzione inversa, escludente (di fatto) ogni automatismo: la cancellazione della società non determina la automatica rinuncia del credito controverso, perché la remissione del debito presuppone una volontà inequivoca in tal senso, che deve essere specificamente allegata e provata; e d’altra parte, in contrasto, si è posto nuovamente al centro del problema l’automatismo discendente dalla distinzione operata dalle Sezioni Unite del 2013, ridimensionandone il profilo – seppur certo – ma sull’opposto versante della ripartizione dell’onere della prova: la volontà abdicativa si presume fintanto che non sia dimostrato il contrario, vale a dire che il credito, originariamente azionato dalla società e per definizione illiquido, non sia stato implicitamente rinunciato. La Corte, chiama a pronunciarsi nel caso di specie, in considerazione del contrasto in giurisprudenza e della particolare importanza della questione sottesa, ha reputato necessario rimettere gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di dirimere il contrasto.

Seguici sui social: