Un romanzo che ha per titolo una sorta di atipica domanda indiretta impone al lettore di assumere, in un certo qual senso, il controllo della narrazione. “Dimmi cosa vedi tu da lì” è, difatti, una richiesta, malcelata, di raccontare e raccontarsi il proprio punto di osservazione (oltre che, più letteralmente, un noto verso, di una nota poesia di Francesco De Gregori[1]).
L’Autore, che diventa anche il protagonista, è l’allievo che, con la favorevole complicità dei tempi della propria attualità, ricerca un Maestro, non direttamente il suo, ma quello di alcune generazioni precedenti; un Caposcuola, che, esattamente come nei più riusciti incantesimi di escatologia, è riuscito a dissolversi, sotto la vista, forse distratta, di tutti, per non ricomparire mai più. È il Professor Federico Caffè, celebre economista, esponente di quella corrente keynesiana che al romanzo regala il sottotitolo (“Un romanzo keynesiano”), che, in una mattina sonnacchiosa come tante altre, decise di attuare il suo addio discreto, ma risoluto, alla società, lasciandosi, alle spalle, nella sua camera, il suo orologio, il suo passaporto e le chiavi di casa: i simboli del tempo, dell’identità e della proprietà; quella stessa società che lo aveva sconfitto, con l’avanzata del neoliberismo, nelle sue idee, nelle sue teorie, in quella sostenuta centralità delle politiche pubbliche economiche.