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«Un allievo ricerca un Maestro, tra i fantasmi del presente e del passato»

Un romanzo che ha per titolo una sorta di atipica domanda indiretta impone al lettore di assumere, in un certo qual senso, il controllo della narrazione. “Dimmi cosa vedi tu da lì” è, difatti, una richiesta, malcelata, di raccontare e raccontarsi il proprio punto di osservazione (oltre che, più letteralmente, un noto verso, di una nota poesia di Francesco De Gregori[1]).

L’Autore, che diventa anche il protagonista, è l’allievo che, con la favorevole complicità dei tempi della propria attualità, ricerca un Maestro, non direttamente il suo, ma quello di alcune generazioni precedenti; un Caposcuola, che, esattamente come nei più riusciti incantesimi di escatologia, è riuscito a dissolversi, sotto la vista, forse distratta, di tutti, per non ricomparire mai più. È il Professor Federico Caffè, celebre economista, esponente di quella corrente keynesiana che al romanzo regala il sottotitolo (“Un romanzo keynesiano”), che, in una mattina sonnacchiosa come tante altre, decise di attuare il suo addio discreto, ma risoluto, alla società, lasciandosi, alle spalle, nella sua camera, il suo orologio, il suo passaporto e le chiavi di casa: i simboli del tempo, dell’identità e della proprietà; quella stessa società che lo aveva sconfitto, con l’avanzata del neoliberismo, nelle sue idee, nelle sue teorie, in quella sostenuta centralità delle politiche pubbliche economiche.

Ecco, allora, sopraggiungere l’allievo, in una Roma del 2021, svuotata dal contingente evento pandemico; spettrale, deserta; con i fantasmi dell’oggi ad assommarsi a quelli dello ieri, a ricercare, nella veste irrituale di ghostbuster, con una sapiente sovrapposizione della skyline cittadina nuova a quella vecchia, il Maestro e l’intellettuale, ma, soprattutto, il mentore, accademico e non, con un romanticismo quasi nostalgico; tra le strade, i palazzi, gli angoli, gli incroci, le sale, svuotati dal virus, il peregrinare è per raccontargli come l’imprevista pandemia abbia ridisegnato anche le dinamiche mercatuali, sancendo una sorta di sua rivincita, riaffermando la centralità dello Stato, nella scena pubblica. Tutti i pezzi vanno a dama, in un perfetto gioco di specchi: l’uomo che aveva deciso di dissolversi, nella quiete di un’alba, dimostra come lo Stato, per contro, non possa defilarsi, per non incappare in una generalizzata e generica deregolamentazione, surrogato di una libertà assoluta, che (per ammissione stessa dell’Autore) ci ha tristemente condotti in un capitalismo selvaggio, elusivo dei diritti sociali e, prima ancora, delle persone.

L’ultima lezione del Professore Federico Caffè è la dimostrazione della fallacia delle politiche monetarie, ridotte a un mero placebo, a un’illusione. Come Via Piccolomini, nel cuore di Roma, “dritta e piana”, “non lontana dal Gianicolo” e che “finisce su un belvedere, ma non occorre arrivare in fondo e affacciarsi per distinguere la cupola di San Pietro”, che appare tanto più imponente, quanto, per assurdo, si indietreggia. Il romanzo di Brera, coniugando tante sfaccettature (dall’economia alla politica monetaria, dalla storia al romanzo giallo, dalla filosofia all’autobiografico), con una narrazione camaleontica ed elastica (tra presente, passato e futuro prossimo), in un inseguimento di eventi, concetti e, soprattutto, fantasmi, è il racconto di quanto sia facile scadere nelle illusioni, se le prospettive non sono supportate da validi punti di fuga.

 

Punti di fuga e prospettive. Dimmi cosa vedi tu da lì. Touché

[1] Il riferimento è a “Tutto più chiaro che qui”, Album “Canzoni d’amore”, CBS, 1992.

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