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Nota a Cass. Civ., Sez. III, 14 ottobre 2021, n. 28047.

di Donato Giovenzana

 

Chiaro e preciso intervento della Cassazione volto a far cessare scorretti comportamenti processuali, che non di rado vedono coinvolti Banche, Poste ed Enti Pubblici, nella loro veste di terzi pignorati.

Orbene, osserva la Suprema Corte, il combinato disposto degli artt. 547 e 548 c.p.c., addossa al terzo pignorato, nell’esecuzione presso terzi, una facoltà ed un onere.

La facoltà è quella di comunicare stragiudizialmente al creditore l’esistenza del credito, di cui all’art. 547 c.p.c.. Trattasi di una facoltà e non di un onere, in quanto l’omissione della comunicazione non comporta alcuna conseguenza negativa per il terzo, ma solo l’obbligo per il giudice di fissare una successiva udienza per la comparizione del terzo. L’onere è quello di comparire all’udienza fissata ai sensi dell’art. 548 c.p.c., per rendere la dichiarazione di quantità: trattasi di un onere, in quanto dalla violazione di esso discende ope legis l’obbligo per il giudice di reputare non contestato il credito pignorato. Questo onere a carico del terzo ha per presupposto legale che il creditore “dichiar(i) di non aver ricevuto la dichiarazione” di cui all’art. 547 c.p.c.

Ovviamente nessun problema può sorgere quando il creditore dichiari, conformemente al vero, di non avere ricevuto alcuna dichiarazione di quantità da parte del terzo pignorato. In tal caso l’assenza di quest’ultimo alla successiva udienza, fissata ai sensi dell’art. 548 c.p.c., produrrà immancabilmente gli effetti della ficta confessio. Quando, invece, il creditore neghi falsamente di avere ricevuto dichiarazioni di sorta da parte del terzo pignorato, possono teoricamente darsi tre possibilità: a) il creditore ignorava incolpevolmente di avere ricevuto la dichiarazione del terzo; b) il creditore ignorava colpevolmente di avere ricevuto la dichiarazione del terzo; c) il creditore sapeva di avere ricevuto la dichiarazione del terzo. Nel primo caso (errore incolpevole del creditore procedente) l’assenza del terzo pignorato all’udienza di cui all’art. 548 c.p.c., equivarrà ad una non contestazione.

Il terzo pignorato, infatti, se dopo avere compiuto la dichiarazione stragiudiziale, decida di non comparire all’udienza senza avere la prova certa della ricezione di essa, accetta in tal modo il rischio che la propria dichiarazione possa non avere raggiunto il destinatario. Dunque, nel conflitto tra il creditore che per errore scusabile dichiara di non avere ricevuto alcuna dichiarazione e il terzo pignorato che non compare all’udienza nonostante non abbia la certezza giuridica del buon esito della propria comunicazione, va ovviamente preferito il primo.

A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alle ipotesi in cui il creditore neghi di avere ricevuto comunicazioni di sorta dal terzo pignorato, ma lo faccia con colpa o con dolo. La legge infatti va interpretata in modo coerente coi principi generali dell’ordinamento; ed è principio generale dell’ordinamento che condotte colpose o dolose non possano essere tutelate: le prime in virtù del principio di autoresponsabilità (per effetto del quale chi immette dichiarazioni erronee nel traffico giuridico ne deve sopportare le conseguenze); le seconde in virtù del secolare principio fraus omnia corrumpit. Ne discende che là dove l’art. 548 c.p.c., recita “quando all’udienza il creditore dichiara di non aver ricevuto la dichiarazione“, tale proposizione deve intendersi formulata sotto la condizione si vera sunt exposita.

In conclusione:

a) se il creditore dichiara falsamente, ma per errore scusabile, di non avere ricevuto alcuna dichiarazione da parte del terzo pignorato,e quest’ultimo non compare all’udienza fissata ex art. 548 c.p.c., il credito pignorato dovrà ritenersi non contestato;

b) se il creditore dichiara falsamente, per colpa o con dolo, di non avere ricevuto alcuna dichiarazione da parte del terzo pignorato e quest’ultimo non compare all’udienza fissata ex art. 548 c.p.c., il credito pignorato non potrà ritenersi non contestato; e l’assenza del terzo pignorato non produrrà gli effetti della ficta confessio.

Nel caso de quo il giudice di merito ha accertato in punto di fatto il ricorrere della seconda ipotesi: il creditore procedente sapeva di avere ricevuto dal terzo pignorato una dichiarazione di quantità negativa, ma nondimeno ha dolosamente taciuto al giudice dell’esecuzione tale circostanza. L’assenza del terzo pignorato all’udienza di cui all’art. 548 c.p.c., in tal caso, per quanto sopra esposto è priva di effetti.

La Cassazione ha pertanto enunciato il seguente principio di diritto:

nell’esecuzione presso terzi il terzo può legittimamente fare affidamento sul fatto che il creditore, essendo astretto all’obbligo di correttezza di cui all’art. 88 c.p.c., dichiari al giudice il vero e cioè di avere ricevuto la dichiarazione negativa. Ne consegue che il creditore procedente non può invocare gli effetti della ficta confessio di cui all’art. 548 c.p.c., comma 1, quando abbia dolosamente o con colpa negato di avere già ricevuto la dichiarazione di quantità“.

Non solo, in quanto ha ritenuto che proporre ricorsi per cassazione dai contenuti così distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai precetti del codice di rito, costituisca di per sé un indice della mala fede o della colpa grave del ricorrente. Agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave significa infatti azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione; ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione; e comunque senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta. Il che è quanto avvenuto nel caso di specie, posto che qualunque professionista del diritto non poteva non avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso in esame. Da ciò deriva che delle due l’una: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l’ordinamento non può consentire); ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare.

Per il che, dovendo ritenersi il ricorso oggetto del giudizio proposto quanto meno con colpa grave, secondo la Suprema Corte, il ricorrente deve essere condannato d’ufficio al pagamento in favore del terzo pignorato, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata. Tale somma va determinata assumendo a parametro di riferimento non solo il valore della causa, non solo l’importo delle spese dovute alla parte vittoriosa per questo grado di giudizio, ma anche la gravità della condotta del ricorrente, la palese pretestuosità degli argomenti spesi a sostegno dell’impugnazione, l’uso spregiudicato del processo, la natura pubblica degli interessi di cui era portatore l’ente nei confronti del quale avviò una procedura esecutiva illegittima. Alla luce di tali criteri il ricorrente va condannato, ex art. 96 c.p.c., al pagamento in favore della controparte di euro 10.000, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza.

 

Qui la sentenza.

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