Nota a Cass. Civ., Sez. III, 26 maggio 2025, n. 14029.
Con una recente pronuncia, n. 14029/2025, la Suprema Corte torna ad esaminare la questione dell’indennizzabilità di prodotti assicurativi sulla vita prescritti, fornendo però una lettura del tutto difforme rispetto ad una precedente sentenza sulla medesima fattispecie, emessa nel 2018.
Le vicende alla base di entrambe le pronunce sono del tutto similari: i beneficiari di polizze vita agiscono per ottenere il pagamento dell’indennizzo, ma, pur vincendo in primo grado, hanno visto respingere in appello le rispettive domande, per l’accoglimento dell’eccezione, sollevata dalla Compagnia, di prescrizione del diritto alla liquidazione.
Diversa è, invece, la soluzione prospettata, nei due casi, dal Supremo Collegio.
nel 2018 gli Ermellini hanno respinto il ricorso promosso dai beneficiari, stabilendo il principio secondo cui il rispetto dei canoni di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c. non implica che le Compagnie (così come ogni singolo debitore) abbiano il dovere di comunicare ai beneficiari l’imminente scadenza del diritto di credito per il maturarsi della prescrizione.
Principio che, negli anni successivi, ha costituito il presupposto di tutte le difese delle Compagnie in giudizi basati sui medesimi presupposti, divenendo, dunque, l’argomento cardine per ottenere pronunce di rigetto per prescrizione del diritto alla liquidazione delle polizze.
Con l’ordinanza n. 14029, pubblicata il 26 maggio 2025, invece, la Corte percorre una strada del tutto diversa, giungendo quindi ad una soluzione opposta rispetto al passato.
Infatti, la Corte di legittimità, esaminando congiuntamente i motivi di ricorso proposti, che di fatto si riducevano alla dedotta malafede della Compagnia per la mancata comunicazione al contraente o ai suoi eredi della avvenuta modifica dei termini di prescrizione del diritto alla liquidazione del valore di polizza, ha proposto un ragionamento senz’altro condivisibile.
Partendo dal presupposto che la clausola del contratto che indicava in 10 anni il termine di prescrizione fosse nulla, la Corte ha stabilito, innanzi tutto (sempre tenendo presenti i principi di correttezza e buona fede alla base della contrattazione), che il testo contrattuale fosse unilateralmente predisposto dall’assicuratore e dovesse, dunque, essere interpretato nel senso più favorevole al consumatore, ex art. 1370 c.c.
Quindi, ha evidenziato che la Corte d’appello, nel ribaltare l’esito del giudizio in favore della Compagnia, non aveva tenuto conto della clausola del contratto assicurativo che imponeva a suo carico obblighi informativi in favore del contraente in caso di modifiche normative tali da incidere sulle condizioni contrattuali.
Appare evidente, in proposito, che una riduzione tanto rilevante (da 10 a 2!) degli anni previsti per la decorrenza del termine di prescrizione fosse elemento tale da rientrare senz’altro nel caso previsto dalla clausola appena citata, e da imporre a carico dell’Assicuratore un dovere di informativa.
Quindi, la Corte, richiamando il Codice del Consumo, ha ribadito che ai sensi dell’art. 21 deve intendersi ingannevole una pratica commerciale che riporta informazioni non rispondenti al vero, o tali da indurre il consumatore medio in errore, tanto da portarlo a prendere decisioni che diversamente non avrebbe assunto.
Secondo il Supremo Collegio, infatti, non esiste un “numero chiuso” di quelle condotte che possono ritenersi scorrette nella normativa di settore, con la conseguenza che inserire in un contratto una clausola palesemente nulla – come quella relativa ai termini di prescrizione che nelle more erano stati modificati – è una pratica da ritenersi senz’altro ingannevole, ai sensi dell’art. 21 del Codice del Consumo, tanto da poter essere qualificata come inadempimento contrattuale tale da provocare il diritto al risarcimento dei relativi danni.
Su tali presupposti, la Corte ha accolto il ricorso dei beneficiari, rinviando l’esame della questione alla Corte d’Appello.
Testualmente, il principio di diritto espresso dagli Ermellini è il seguente.
Posto che l’elenco dei comportamenti scorretti contenuti nella normativa di settore non rappresenta un numerus clausus, è altrettanto indubbio, che la pratica commerciale di apporre una clausola nulla, non avente alcun effetto per la parte disponente, possa costituire una pratica ingannevole sussumibile nella disposizione di cui all’art. 21 [cod. cons.], in grado di dar luogo a un inadempimento contrattuale e al relativo risarcimento del danno, da cui far conseguire un obbligo informativo correlato alla invalidità della clausola in questione, posto che detta clausola ha un contenuto tale da orientare in maniera ingannevole il consumatore verso quel prodotto anziché un altro.
Come già evidenziato, si ritiene che la decisione del Supremo Collegio abbia segnato un elemento importante nell’ambito delle problematiche in esame, giungendo a individuare una strada argomentativa logica, che senz’altro verrà seguita in futuro, in grado di correggere un vuoto normativo che in passato ha provocato numerosi contenziosi, purtroppo solitamente conclusi con pronunce sfavorevoli ai consumatori.
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