I. Premessa.
Gli scopi avuti di mira dal nostro legislatore nell’introdurre anche nel nostro sistema processualcivilistico (come in altri Paesi europei, sia pure con peculiarità diverse) l’istituto del “rinvio pregiudiziale” ex art. 363 bis c.p.c., ossia conseguire in via quanto più possibile anticipata una maggiore uniformità giurisprudenziale (e così, una correlata diminuzione del contenzioso), non mi pare possano dirsi conseguiti, neppure in parte, leggendo la recente pronuncia – appunto su rinvio pregiudiziale – emessa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 15130 del 29 maggio scorso.
Come ognun sa e può constatare leggendo la norma, le condizioni previste ex lege per l’ammissibilità del vaglio preventivo da parte dei giudici apicali, sono che la questione sia di “puro” diritto, sia rilevante per la decisione della causa e sia suscettibile di porsi in numerosi giudizi (abbia, cioè, caratteristiche di “serialità”). Il vaglio di ammissibilità spetta al Primo Presidente della Corte di cassazione e, superato questo vaglio, la Corte, nell’affrontare e decidere la questione emette una sentenza che “lega le mani” al giudice a quo, dunque decide in tutto o in parte la controversia, emettendo un “ruling” vincolante per quel caso concreto, anche se la causa si dovesse estinguere e la domanda fosse riproposta (secondo il modello già sperimentato dell’art. 393 c.p.c.).
Principio, suscettibile (come del resto sono state le intenzioni del legislatore) di “far giurisprudenza” anche in tutti quegli altri in cui la stessa questione venisse a riproporsi. E’ pacifico, infatti, che pur nell’assenza di un obbligo dei giudici allo “stare decisis”, come nei Paesi di common law, tuttavia l’orientamento del legislatore è quello di attribuire una crescente importanza al precedente autorevole, quale quello in questione, nella misura in cui le argomentazioni svolte appaiano pertinenti anche nei nuovi casi in decisione e risultino dotate di efficacia persuasiva, tale da giustificare l’adesione ad esse.
II. L’incidenza (limitata) che assume la pronuncia alla luce dei “caveat” in essa contenuti.
Sia chiaro fin da subito che, lo scopo di questo breve commento, che interviene a ridosso della pronuncia, non è un esame finalizzato a condividere o criticare la parte della decisione che giunge ad esprimere il principio di diritto (per la quale è necessaria una più ponderata riflessione), ma metterne in luce un aspetto che pare altrettanto (o forse anche più) interessante, che riguarda la portata della pronuncia e la sua suscettibilità a fungere da “precedente”.
Date queste coordinate generali, scendendo nel concreto, si ritrae infatti quasi una nota di disappunto dei Giudici apicali, i quali sembra abbiano avuto di che dolersi della circostanza che la questione, forse, abbia superato il vaglio di ammissibilità con troppa benevolenza.
Prima di giungere ad enunciare il principio di diritto, la Suprema Corte ha sentito l’esigenza di esplicitare dei non trascurabili “caveat” che contribuiscono ad espungere dal perimetro di rilevanza della decisione moltissime fattispecie (e, per questo, si dubita che lo strumento, almeno in questo suo utilizzo nel peculiare caso all’esame, possa far conseguire quell’obiettivo di riduzione del contenzioso e di contrasto all’irragionevole durata del processo civile, che ne ha giustificato l’introduzione nel nostro sistema). Detti avvertimenti, si colgono nel leggere l’intera sentenza che, peraltro, a differenza delle sentenze trattato cui la Suprema Corte da un decennio a questa parte ci ha abituato, è piuttosto snella e di facile lettura (e, per questo, si ringrazia l’Estensore).
Il primo “avviso ai naviganti”, lo si ritrae al punto 8 della sentenza, ove il Supremo Collegio premette e delinea il perimetro della pronuncia, evidenziando cosa non ricade (e non ricadrà) nell’ambito della stessa:
- il dictum, innanzitutto, non riguarda i mutui a tasso variabile e i relativi piani di ammortamento;
- non riguarda le problematiche che vengono in rilievo in caso di estinzione anticipata del rapporto;
- non concerne le conseguenze della mancata inserzione o allegazione del piano di ammortamento al contratto.
Questo approccio “chirurgico” del Collegio esteso, è per di più accompagnato (par. 12 della sentenza) da quel che sembra una nota di “biasimo” verso il Giudice a quo (che, di contro, ha certamente agito nell’intento di dare una spinta acceleratoria al giudizio, anche se, a stare alle stesse riflessioni del Giudice del rinvio, forse “troppo presto”). Evidenziano (non a caso) le Sezioni Unite che il Tribunale dà come dato “acquisito” che i piani di ammortamento alla francese producano un effetto moltiplicatore degli interessi, ma, al contempo, tengono a precisare che, su questo punto “decisivo” (così lo qualifica il Collegio esteso), “il Tribunale non ha svolto alcun accertamento fattuale”. Che questa sia una mancanza che la Corte sente come molto limitante il proprio decisum, è confermato dal periodare successivo in cui richiama (o invoca) la giurisprudenza in tema di “difetto di specificità” della censura relativa all’effetto anatocistico dell’ammortamento alla francese (Cass. 13144/2023), che sussiste laddove la censura sia meramente assertiva, ossia non “accompagnata da specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrare l’avvenuta concreta produzione, nella specie, di un tale risultato”.
Se si scorrono ulteriormente le motivazioni, non vi è dubbio che il filo conduttore della pronuncia sia costituito dall’esigenza di accertamenti in fatto da condursi “caso per caso”. Difatti, il Supremo Collegio rimarca ancora una volta: «Non potrebbe escludersi in astratto che l’operazione di finanziamento si realizzi mediante la produzione di interessi su interessi per effetto della quale il tasso effettivo risulti maggiore di quello nominale e sfugga alla rilevazione nel TAEG, ma tale evenienza sarebbe una patologia da affrontare caso per caso, nel quadro delle domande ed eccezioni delle parti, attraverso indagini contabili volte a verificare se nella singola fattispecie siano pretesi o siano stati pagati interessi superiori a quelli pattuiti (è coerente l’affermazione per cui stabilire in concreto se vi sia, o no, produzione di interessi su interessi, è questione di fatto incensurabile in sede di legittimità, cfr. Cass. n. 9237/2020, n. 8382/2022, n. 13144/2023 cit.). Pertanto, al principio che si chiede di enunciare, nel senso di dichiarare in generale la invalidità dei piani di ammortamento “alla francese”, può rispondersi avendo riguardo ai piani standardizzati tradizionali, rispetto ai quali deve escludersi che si verifichi la situazione patologica poc’anzi descritta».
In questi passaggi sta il senso e la misura di una pronuncia che (implicitamente, ma anche non tanto) evidenzia come la questione de qua agitur non fosse di puro diritto, ma, quantomeno, era una questione “mista”, ossia un melange tra fatto e diritto. Si ritiene che questo sia il motivo per il quale le Sezioni Unite hanno fatto una necessaria premessa metodologica evidenziando cosa fosse per esse “possibile fare”, ossia dare un responso riguardante un “campione standard”, che tuttavia non potrà mai coprire la variegata casistica che il contenzioso sui mutui presenta e che si presta a soluzioni altrettanto diversificate. Tuttavia, una volta ritenuta la candidabilità ed ammissibilità della questione al vaglio pregiudiziale, le Sezioni Unite, come hanno espressamente dichiarato, non hanno potuto far altro che dare un responso astratto riguardante “piani standardizzati tradizionali”.
Come accennato in apertura, questo contributo (per ora almeno) si arresta qui, evidenziando che, con ogni probabilità la giurisprudenza di merito e di legittimità, ma soprattutto gli avvocati ed i consulenti tecnici, faranno la differenza per tutti quei casi che, non avranno le caratteristiche del “modello standard” su cui “giocoforza” le Sezioni Unite hanno potuto esprimersi (in mancanza di quei decisivi accertamenti in fatto che avrebbero dovuto esser compiuti prima di interpellare il giudice apicale).
III. Conclusioni.
Viene alla mente la famosa commedia di W. Shakespeare “Much ado about nothing” (Molto rumore per nulla), essendo naturale ricaduta dei caveat della pronuncia de quo che la “sorte” dei mutui (che non rientrano nello standard oggetto di scrutinio pregiudiziale, peraltro anche non semplice da individuare come “campione”) continuerà a passare necessariamente per le forche caudine della CTU contabile (su cui vigileranno gli avvocati accorti e i validi consulenti tecnici di cui gli stessi si doteranno).
Infine, credo che questa prima esperienza dell’istituto del rinvio pregiudiziale, sia anche un’importante indicazione per le parti e per i giudici del merito, a non mostrarsi troppo entusiasti nel chiedere lumi al giudice apicale, perché, sovente le questioni di “puro diritto” sono molto rare, o almeno lo sono fino a che non si è bene accertato il fatto e, affrettarsi a richiedere l’intervento della Cassazione in via pregiudiziale, può rivelarsi molto pericoloso e limitante, perché il processo a quo, rischia di risolversi in un giudizio aprioristico, privo delle garanzie difensive di un imprescindibile accertamento istruttorio completo.
Francesco Orestano, celebre esponente del realismo filosofico, soleva ripetere al figlio: “i concetti posso essere buoni servitori, ma son sempre cattivi padroni”.
Sezioni Unite n. 15130/2024: una pronuncia nella quale opportunamente la Suprema Corte ha posto alcuni “caveat” che emergono dalla motivazione e sono rilevantissimi
di Gloria Naticchioni
Studio Naticchioni AvvocatiI. Premessa.
Gli scopi avuti di mira dal nostro legislatore nell’introdurre anche nel nostro sistema processualcivilistico (come in altri Paesi europei, sia pure con peculiarità diverse) l’istituto del “rinvio pregiudiziale” ex art. 363 bis c.p.c., ossia conseguire in via quanto più possibile anticipata una maggiore uniformità giurisprudenziale (e così, una correlata diminuzione del contenzioso), non mi pare possano dirsi conseguiti, neppure in parte, leggendo la recente pronuncia – appunto su rinvio pregiudiziale – emessa dalle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 15130 del 29 maggio scorso.
Come ognun sa e può constatare leggendo la norma, le condizioni previste ex lege per l’ammissibilità del vaglio preventivo da parte dei giudici apicali, sono che la questione sia di “puro” diritto, sia rilevante per la decisione della causa e sia suscettibile di porsi in numerosi giudizi (abbia, cioè, caratteristiche di “serialità”). Il vaglio di ammissibilità spetta al Primo Presidente della Corte di cassazione e, superato questo vaglio, la Corte, nell’affrontare e decidere la questione emette una sentenza che “lega le mani” al giudice a quo, dunque decide in tutto o in parte la controversia, emettendo un “ruling” vincolante per quel caso concreto, anche se la causa si dovesse estinguere e la domanda fosse riproposta (secondo il modello già sperimentato dell’art. 393 c.p.c.).
Principio, suscettibile (come del resto sono state le intenzioni del legislatore) di “far giurisprudenza” anche in tutti quegli altri in cui la stessa questione venisse a riproporsi. E’ pacifico, infatti, che pur nell’assenza di un obbligo dei giudici allo “stare decisis”, come nei Paesi di common law, tuttavia l’orientamento del legislatore è quello di attribuire una crescente importanza al precedente autorevole, quale quello in questione, nella misura in cui le argomentazioni svolte appaiano pertinenti anche nei nuovi casi in decisione e risultino dotate di efficacia persuasiva, tale da giustificare l’adesione ad esse.
II. L’incidenza (limitata) che assume la pronuncia alla luce dei “caveat” in essa contenuti.
Sia chiaro fin da subito che, lo scopo di questo breve commento, che interviene a ridosso della pronuncia, non è un esame finalizzato a condividere o criticare la parte della decisione che giunge ad esprimere il principio di diritto (per la quale è necessaria una più ponderata riflessione), ma metterne in luce un aspetto che pare altrettanto (o forse anche più) interessante, che riguarda la portata della pronuncia e la sua suscettibilità a fungere da “precedente”.
Date queste coordinate generali, scendendo nel concreto, si ritrae infatti quasi una nota di disappunto dei Giudici apicali, i quali sembra abbiano avuto di che dolersi della circostanza che la questione, forse, abbia superato il vaglio di ammissibilità con troppa benevolenza.
Prima di giungere ad enunciare il principio di diritto, la Suprema Corte ha sentito l’esigenza di esplicitare dei non trascurabili “caveat” che contribuiscono ad espungere dal perimetro di rilevanza della decisione moltissime fattispecie (e, per questo, si dubita che lo strumento, almeno in questo suo utilizzo nel peculiare caso all’esame, possa far conseguire quell’obiettivo di riduzione del contenzioso e di contrasto all’irragionevole durata del processo civile, che ne ha giustificato l’introduzione nel nostro sistema). Detti avvertimenti, si colgono nel leggere l’intera sentenza che, peraltro, a differenza delle sentenze trattato cui la Suprema Corte da un decennio a questa parte ci ha abituato, è piuttosto snella e di facile lettura (e, per questo, si ringrazia l’Estensore).
Il primo “avviso ai naviganti”, lo si ritrae al punto 8 della sentenza, ove il Supremo Collegio premette e delinea il perimetro della pronuncia, evidenziando cosa non ricade (e non ricadrà) nell’ambito della stessa:
Questo approccio “chirurgico” del Collegio esteso, è per di più accompagnato (par. 12 della sentenza) da quel che sembra una nota di “biasimo” verso il Giudice a quo (che, di contro, ha certamente agito nell’intento di dare una spinta acceleratoria al giudizio, anche se, a stare alle stesse riflessioni del Giudice del rinvio, forse “troppo presto”). Evidenziano (non a caso) le Sezioni Unite che il Tribunale dà come dato “acquisito” che i piani di ammortamento alla francese producano un effetto moltiplicatore degli interessi, ma, al contempo, tengono a precisare che, su questo punto “decisivo” (così lo qualifica il Collegio esteso), “il Tribunale non ha svolto alcun accertamento fattuale”. Che questa sia una mancanza che la Corte sente come molto limitante il proprio decisum, è confermato dal periodare successivo in cui richiama (o invoca) la giurisprudenza in tema di “difetto di specificità” della censura relativa all’effetto anatocistico dell’ammortamento alla francese (Cass. 13144/2023), che sussiste laddove la censura sia meramente assertiva, ossia non “accompagnata da specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrare l’avvenuta concreta produzione, nella specie, di un tale risultato”.
Se si scorrono ulteriormente le motivazioni, non vi è dubbio che il filo conduttore della pronuncia sia costituito dall’esigenza di accertamenti in fatto da condursi “caso per caso”. Difatti, il Supremo Collegio rimarca ancora una volta: «Non potrebbe escludersi in astratto che l’operazione di finanziamento si realizzi mediante la produzione di interessi su interessi per effetto della quale il tasso effettivo risulti maggiore di quello nominale e sfugga alla rilevazione nel TAEG, ma tale evenienza sarebbe una patologia da affrontare caso per caso, nel quadro delle domande ed eccezioni delle parti, attraverso indagini contabili volte a verificare se nella singola fattispecie siano pretesi o siano stati pagati interessi superiori a quelli pattuiti (è coerente l’affermazione per cui stabilire in concreto se vi sia, o no, produzione di interessi su interessi, è questione di fatto incensurabile in sede di legittimità, cfr. Cass. n. 9237/2020, n. 8382/2022, n. 13144/2023 cit.). Pertanto, al principio che si chiede di enunciare, nel senso di dichiarare in generale la invalidità dei piani di ammortamento “alla francese”, può rispondersi avendo riguardo ai piani standardizzati tradizionali, rispetto ai quali deve escludersi che si verifichi la situazione patologica poc’anzi descritta».
In questi passaggi sta il senso e la misura di una pronuncia che (implicitamente, ma anche non tanto) evidenzia come la questione de qua agitur non fosse di puro diritto, ma, quantomeno, era una questione “mista”, ossia un melange tra fatto e diritto. Si ritiene che questo sia il motivo per il quale le Sezioni Unite hanno fatto una necessaria premessa metodologica evidenziando cosa fosse per esse “possibile fare”, ossia dare un responso riguardante un “campione standard”, che tuttavia non potrà mai coprire la variegata casistica che il contenzioso sui mutui presenta e che si presta a soluzioni altrettanto diversificate. Tuttavia, una volta ritenuta la candidabilità ed ammissibilità della questione al vaglio pregiudiziale, le Sezioni Unite, come hanno espressamente dichiarato, non hanno potuto far altro che dare un responso astratto riguardante “piani standardizzati tradizionali”.
Come accennato in apertura, questo contributo (per ora almeno) si arresta qui, evidenziando che, con ogni probabilità la giurisprudenza di merito e di legittimità, ma soprattutto gli avvocati ed i consulenti tecnici, faranno la differenza per tutti quei casi che, non avranno le caratteristiche del “modello standard” su cui “giocoforza” le Sezioni Unite hanno potuto esprimersi (in mancanza di quei decisivi accertamenti in fatto che avrebbero dovuto esser compiuti prima di interpellare il giudice apicale).
III. Conclusioni.
Viene alla mente la famosa commedia di W. Shakespeare “Much ado about nothing” (Molto rumore per nulla), essendo naturale ricaduta dei caveat della pronuncia de quo che la “sorte” dei mutui (che non rientrano nello standard oggetto di scrutinio pregiudiziale, peraltro anche non semplice da individuare come “campione”) continuerà a passare necessariamente per le forche caudine della CTU contabile (su cui vigileranno gli avvocati accorti e i validi consulenti tecnici di cui gli stessi si doteranno).
Infine, credo che questa prima esperienza dell’istituto del rinvio pregiudiziale, sia anche un’importante indicazione per le parti e per i giudici del merito, a non mostrarsi troppo entusiasti nel chiedere lumi al giudice apicale, perché, sovente le questioni di “puro diritto” sono molto rare, o almeno lo sono fino a che non si è bene accertato il fatto e, affrettarsi a richiedere l’intervento della Cassazione in via pregiudiziale, può rivelarsi molto pericoloso e limitante, perché il processo a quo, rischia di risolversi in un giudizio aprioristico, privo delle garanzie difensive di un imprescindibile accertamento istruttorio completo.
Francesco Orestano, celebre esponente del realismo filosofico, soleva ripetere al figlio: “i concetti posso essere buoni servitori, ma son sempre cattivi padroni”.
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