5 min read

Nota a Trib. Brindisi, 11 maggio 2024.

Massima redazionale

La recente sentenza del Tribunale di Brindisi in oggetto affronta l’interessante problematica relativa all’idoneità dell’eccezione di usurarietà degli interessi a sottrarsi al principio del c.d.  deducibile come dedotto[1] e, quindi, alla sua spendibilità, ex novo, in sede esecutiva. Invero, l’ordinamento non tollera di dare corso a una pretesa creditoria usuraria, ancorché su di essa sia sceso il giudicato. Ciò in considerazione della rilevanza penale della richiesta usuraria che consente di ritenere proprio del nostro ordinamento un principio assoluto che impone di non dar corso alla dazione di interessi usurari, neppure sulla base di un titolo passato in giudicato. Orbene, secondo taluni – il cui fine è quello di stemperare il carattere derogatorio della suddetta ipotesi rispetto alla regola dell’ìntangibilità del giudicato – la possibilità di superare la res iudicata varrebbe solo in presenza di usura sopravvenuta.

Difatti, la sopravvenienza della natura usuraria degli interessi pattuiti rispetto alla genesi del giudicato, che sia disceso sul decreto ingiuntivo, consentirebbe il pieno rispetto del principio per cui il giudicato si estende al dedotto e al deducibile. Infatti, seguendo tale traiettoria argomentativa, l’eccezione di usura sopravvenuta, in quanto formatasi in epoca successiva al giudicato, non avrebbe potuto essere proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo[2]. Peraltro, il principio interpretativo che esclude dall’operare delle preclusioni le eccezioni fondate su norma penale non potrebbe dirsi né preminente, né, tantomeno, consolidato.

Il giudice brindisino, con un approccio maggiormente estensivo e assorbente, ritiene che la pretesa usuraria sia inesigibile in ogni caso, sia se posteriore alla formazione del giudicato, sia se ad essa anteriore. Né si pone un vero e proprio contrasto tra questa affermazione e il principio di intangibilità del giudicato, in quanto l’inesigibilità inerisce un piano diverso da quello della formazione del titolo ovvero quello della sua attuazione. Il disvalore penale che inerisce alla pretesa al momento della sua pattuizione, così come della sua concreta esazione, rende contrario a buona fede oggettiva e, dunque, respingibile la richiesta di interessi usurari, per quanto l’importo dovuto dal mutuatario (sia esso banca o privato) sia stato cristallizzato.

D’altronde, l’incontestabile generalità assunta dal principio di buona fede nel nostro ordinamento (a prescindere se sia accolta o meno la tesi di un suo radicamento costituzionale) fa dello stesso veicolo preferenziale al fine di assicurare la complessiva coerenza dell’ordinamento che sarebbe conculcata ove si ritenesse esigibile una prestazione la cui promessa o dazione costituisce, al contempo, fatto destinatario di quel particolare giudizio di disvalore che è sotteso alla norma penale. Proprio l’ancoramento a un principio giuridico, ovvero quello di buona fede oggettiva, consente di escludere le critiche in termini di una deriva meramente etica della scelta interpretativa.

Ebbene, non appare condivisibile l’affermazione per cui la predetta opzione «spinta da ragioni di equità sostanziale, abbia compiuto quella che Gadamer e Mengoni definivano una precomprensione dell’interprete, ossia abbia previamente stabilito il punto cui intendeva approdare, a ciò indotta da ragioni equitative, per poi costruire a posteriori il sentiero argomentativo per giungere a quel risultato, pur apprezzabile sul piano morale».

Appare, invece, evidente come tra i criteri esegetici assumano rilievo preminente anche quello sistematico, volto anche ad assicurare l’armonia complessiva dell’esegesi delle norme, qualunque sia l’ambito materiale di cui intervengano a conformare la disciplina. Norme che, ove afferenti alla medesima quaestio iuris devono essere interpretate così da non entrare in insanabile contrasto l’una con l’altra, contraddicendosi vicendevolmente, dando luogo a soluzioni complessivamente ondivaghe e altalenanti a seconda dell’ambito materiale, che venga in rilievo di volta in volta.

D’altronde, il principio di non contraddizione costituisce declinazione di quel principio di ragionevolezza che costituisce, a sua volta, indefettibile parametro esegetico oltre che regola del caso di specie, ove non espressamente disciplinato. Esso si correla, sotto il profilo della sua genesi, al principio di eguaglianza, ex art. 3 Cost., la conformità al quale rappresenta parametro ai fini del vaglio della costituzionalità delle norme ordinarie sostanziali e processuali.

Proprio di recente, autorevole dottrina ha affermato che «l’attuale controllo di costituzionalità è totalmente pervaso dal metodo della ragionevolezza: è un controllo di ragionevolezza» e vi è stato chi stigmatizzando il ricorso a tale parametro, ha affermato che «la giurisprudenza sulla ragionevolezza appare ormai del tutto ingovernabile, in quanto si è negli anni trasformata in una sorta di valutazione circa la ingiustizia della legge o che trattasi di una nozione “inafferrabile nel suo contenuto». D’altronde, a fronte dell’indubbio dinamismo interpretativo indotto dal principio de quo, è innegabile la indispensabilità di tale categoria: ragionevole è qualunque opzione esegetica sia idonea a realizzare un equo contemperamento degli interessi in gioco, imponendo un sacrificio non sproporzionato agli interessi in gioco, nel caso di specie, coincidenti, da un lato, con l’esigenza del debitore di non subire esecuzioni in relazione ad una pretesa creditoria che potrebbe essere messa nel nulla; dall’altro, con l’interesse del creditore a conservare lo strumento processuale, astrattamente preordinato alla sua attuazione coattiva.

Il principio di ragionevolezza è, peraltro, ispiratore costante dell’attività esegetica proprio in materia probatoria come dimostra l’approdo delle Sezioni Unite[3], in materia di prova dell’inadempimento, nella responsabilità contrattuale, e che rinviene il proprio fulcro nel criterio, chiaramente ispirato al principio di ragionevolezza, della vicinanza alla fonte della prova come criterio di distribuzione e selezione dell’onere della prova in relazione alle parti del rapporto contrattuale.

Ciò premesso, in punto di diritto, la doglianza dell’opponente avente ad oggetto il carattere usurario del tasso di interesse effettivamente praticato nel rapporto di finanziamento garantito da fondo pubblico di garanzia ex l. n. 662/96 è risultata, in concreto, infondata all’esito delle valutazioni tecniche di cui all’elaborato peritale.

 

 

 

 

_____________________________________________________________________

[1] Cfr. Trib. Pordenone, 07.03.2012.

[2] Cfr. Trib. Reggio Calabria, 04.02.2004.

[3] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., n. 13533/2001.

Seguici sui social: