2 min read
«Per il principe Miškin di Dostoevskij, la bellezza avrebbe salvato il mondo. Per la Christie, può essere la mandante di una strage. Di innocenti.»

“Assassinio a Venezia” alias “La strage degli innocenti”.

La prefazione di Michael Green (regista della trasposizione cinematografica) è senz’altro priva di pregio, disilludendo subito il lettore che non troverà nel romanzo nulla di quanto il (nuovo) titolo possa indurgli a credere di trovare.

Forse non è mai una grande idea rettificare il titolo originale scelto dall’Autore (rectius, l’Autrice), specie quando si tratta di un mostro sacro. E, difatti, Green si appella alla clemenza del lettore (nel mio caso, gli ho riconosciuto le attenuanti generiche).

È il classico (sicuramente, non il migliore) giallo della Regina del crimine.
Muore una bambina. Anzi, due. Alla fine, tre.
Tutti innocenti, ma colpevoli, loro malgrado, di aver visto qualcosa che non avrebbero dovuto; o, finanche, di averlo solo finto o raccontato.

Nel caso di un giallo, c’è sempre il rischio di raccontare troppo, e non, con linguaggio culinario, quanto basta.

Ecco, quindi, che un piccolo paesino assonnato viene squassato dalla banalità di una mente criminale, in una vicenda godibile, pur senza appassionare particolarmente.

Un omicidio, inscenato come un gioco, nel mentre di una festa di Halloween spalanca prepotentemente il ritorno di un passato (anzi, forse, più di uno) che gli abitanti confidavano sepolto. 

Un caleidoscopio di soggetti, irregimentati, come di consueto, nelle descrizioni veriste di caratteri, mode, ambienti, socialità, mezze verità e mezze bugie (bianche e nere), omissioni, complicità, sotterfugi e maschere, a formare quel reticolato che solo le cellule grigie e i folti baffi del Poirot possono ricostruire.

Il finale è un po’ involuto; ha il sapore del tanto tuonò che non piovve.
E, forse, non è un caso; dal momento che, con buona pace delle maschere e delle gondole, è l’acqua il filo conduttore della trama.

Seguici sui social: