Nota a Corte Cost., 28 marzo 2024, n. 51.
Massima redazionale
È costituzionalmente illegittimo, attesa la mancata previsione di una valutazione discrezionale da parte della Sezione disciplinare, l’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, limitatamente alle parole «o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice», per l’irragionevolezza insita nella sottrazione alla Sezione disciplinare di ogni potere di apprezzamento sulla inidoneità del magistrato condannato a continuare a svolgere le proprie funzioni.
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La questione di legittimità costituzionale era stata posta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, adite da un magistrato nei cui confronti la Sezione disciplinare del CSM aveva applicato la sanzione della rimozione, in conseguenza di una sua precedente condanna, in sede penale, a due anni e quattro mesi di reclusione: condanna non suscettibile di sospensione condizionale, in quanto superiore al limite massimo previsto dall’art. 163 cod. pen.
La sentenza si pone nel solco di quella eliminazione degli automatismi che caratterizza la giurisprudenza costituzionale citata al punto 3.2.1 del Considerato (Adde, da ultimo, la sentenza n. 40 del 2024 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza, l’art. 6, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 199, limitatamente alle parole «la guida in stato di ebbrezza costituente reato,» in quanto (disciplinando i requisiti per l’ammissione al corso per la promozione a finanziere mediante concorso) prevede tale ipotesi quale causa automatica di esclusione dall’arruolamento. Ed ancora la sentenza n. 43 del 2024 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo per l’intrinseca irragionevolezza e per la sproporzione del mezzo al fine, l’art. 103, comma 10, lett. c), del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, nella parte in cui, nel prevedere la condanna per i «reati inerenti agli stupefacenti» come automaticamente ostativa all’accoglimento dell’istanza di emersione del lavoro irregolare (e conseguente stipula del contratto di lavoro) non esclude il reato di “piccolo spaccio” di cui all’art. 73, comma 5, del Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (per il quale l’arresto in flagranza è facoltativo).
Sullo specifico tema della responsabilità disciplinare dei magistrati, la stessa sentenza in rassegna richiama, come precedente, la sentenza n. 170 del 2015, in cui è stata ritenuta costituzionalmente illegittima la previsione dell’obbligatorio trasferimento del magistrato ad altra sede o ufficio nell’ipotesi di una sua condanna per l’illecito disciplinare consistente nell’aver tenuto un comportamento che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrechi ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. Vale a dire una fattispecie astratta, giudicata dalla Corte come comprensiva di condotte di disvalore concreto assai eterogeneo, non necessariamente indicative dell’incompatibilità del magistrato interessato a continuare a svolgere le proprie funzioni nel medesimo ufficio.
Nel caso di cui al giudizio a quo il magistrato era stato condannato (con sentenza passata in giudicato) alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione, per avere egli apposto, con il consenso della presidente del collegio di cui era componente, la firma apocrifa della presidente stessa in calce a tre provvedimenti giurisdizionali. Conseguentemente la Sezione disciplinare del CSM, con la sentenza impugnata dinanzi alle rimettenti Sezioni Unite, aveva dichiarato il magistrato colpevole per le descritte condotte, applicandogli la sanzione disciplinare della rimozione, come previsto dalla disposizione censurata.
La Corte costituzionale pone in correlazione tra loro due principi : un requisito generale di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità della condotta e l’autonomia della valutazione in sede disciplinare rispetto a quella del giudice penale,. Seguendo questo paradigma la sentenza osserva che non vi è alcuna tipizzazione delle condotte alle quali è automaticamente ricollegata la rimozione, che è, viceversa, una conseguenza della pena comminata dal giudice penale, venendosi in tal modo a privare la Sezione disciplinare del CSM di ogni margine di apprezzamento circa l’ inidoneità del magistrato condannato a continuare a svolgere le proprie funzioni. La destituzione automatica, in quanto collegata esclusivamente al decisum del giudice penale, potrebbe, quindi, risultare sproporzionata rispetto alle specifiche finalità della responsabilità disciplinare.
E’ interessante la soluzione adottata, consistente nella “mera ablazione del segmento normativo oggetto delle censure del rimettente” (di cui in massima), che “individua una specifica sottofattispecie riconducibile alla fattispecie generale di illecito disciplinare (di cui all’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006), che comprende tutti i «fatti per i quali è intervenuta condanna irrevocabile o è stata pronunciata sentenza ai sensi dell’articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale, per delitto doloso o preterintenzionale, quando la legge stabilisce la pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria».
Ne consegue che “il venir meno della sottofattispecie in parola determinerà la riespansione della disciplina generale applicabile all’illecito disciplinare di cui all’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006: e dunque restituirà alla Sezione disciplinare la possibilità di applicare – secondo il proprio discrezionale apprezzamento – una tra le sanzioni previste dal successivo art. 5. Tra le quali, naturalmente, la stessa rimozione, laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le sue funzioni.”
La sentenza si conclude con un’apertura ad una possibile diversa disciplina che il legislatore vorrà dare alla materia… ma sempre nel quadro di quadro tracciato dalla Corte: precisazione quanto mai opportuna in tempi di interventi sulla magistratura.
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