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Nota a Cass. Civ., Sez. I, 19 marzo 2024, n. 7368.

Segnalazione del Dott. Stefano Izzo

Nella specie, la Corte d’Appello aveva respinto il secondo motivo di gravame con cui era stata lamentata la mancata indagine, da parte del giudice di prime cure, dell’eccepita nullità del contratto per difetto di causa in astratto e per indeterminatezza dell’oggetto in conseguenza della mancata indicazione in contratto di alcuni elementi essenziali. Più in particolare, era stato escluso che il mark to market fosse un elemento essenziale del contratto e che la mancanza dello stesso ne determinasse la nullità per difetto di causa. Ha precisato che il valore negativo dello swap non par al momento della stipula, corrispondente a un valore di mercato (mark to market) negativo per il cliente a tale data, senza riconoscimento di un premio corrispondente (upfront), «non è affatto né illegale né idoneo a determinare una nullità per difetto di causa attesa che l’oggetto del contratto non è certo identificato nel fair value iniziale, ma è costituito dallo scambio di differenziali calcolati su un capitale nozionale di riferimento con un’alea che non è alterata nella stipulazione di un contratto IRS non par». Ha aggiunto che l’eventuale squilibrio iniziale del contratto deve essere bensì conosciuto dall’investitore, ma che «la mancata esplicitazione del fair value negativo per il cliente senza riconoscimento di un upfront non attiene al tema della validità del contratto sotto il profilo del difetto di causa o del difetto di esplicitazione».

Ebbene, il dibattito sugli swap si è addensato, negli ultimi decenni, in particolare sui cc.dd. costi impliciti del derivato, ovverosia costi che integrano il margine di remunerazione dell’intermediario, e sulla loro conoscenza/conoscibilità da parte dell’investitore. Il presupposto è che gli swap, che hanno un contenuto non eteroregolamentato e che non sono standardizzati, siano normalmente caratterizzati da un disallineamento tra il prezzo teorico che lo strumento finanziario ha sul mercato e il prezzo di negoziazione del prodotto finanziario. Tale disallineamento trova ragione nel fatto che l’intermediario che negozia per conto proprio è in grado di conoscere con maggior precisione le caratteristiche del prodotto (e, quindi, essenzialmente, gli scenari probabilistici che sono associati ai flussi monetari che il contratto programma).

Il rilievo dei costi impliciti non nasce, però, dall’esigenza che lo swap, al momento della sua stipula, dia origine a prestazioni di contenuto equivalente, giacché come è stato osservato, in dottrina, non vi è necessità che vi sia proporzione (o addirittura piena corrispondenza) tra i flussi di pagamento: il rapporto di valore tra le prestazioni di un negozio patrimoniale oneroso è estraneo alla causa di quel negozio e la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che, nei contratti di scambio, lo squilibrio economico originario delle prestazioni delle parti non può comportare la nullità del contratto per mancanza di causa, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell’autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive[1].

L’importanza dei costi impliciti nasce, piuttosto, dal fatto che l’occultamento del reale valore dello strumento finanziario è stato alternativamente considerato, nelle diverse prospettive ricostruttive che hanno trovato espressione in dottrina e in giurisprudenza, ora come un risultato non coerente con la causa del contratto, ora, come una condizione che rende indeterminabile l’oggetto di questo, ora come un inadempimento dell’intermediario agli obblighi informativi nei confronti dell’investitore: sicché la presenza dei detti costi potrebbe alternativamente rilevare sul piano genetico, determinando la nullità del contratto, oppure sulla dinamica attuativa del rapporto obbligatorio, traducendosi nella mancata osservanza, da parte dell’intermediario, dell’obbligo, posto dall’art. 23, lett. a), TUF, di «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse del cliente»: con conseguente applicazione dell’apparato rimediale operante per il caso di inadempimento.

Una risposta, quanto al rimedio approntato dall’ordinamento a fronte del deficit informativo quanto ai costi impliciti e, più in generale, quanto ai contorni dell’alea che si correla ai flussi di pagamento propri dello swap, è stata in tempi relativamente recenti fornita, come è noto, dalle Sezioni Unite[2], che hanno precisato come, in tema di interest rate swap, occorra accertare, ai fini della validità del contratto, se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi: accordo che investe il mark to market , ossia il costo, pari al valore effettivo del derivato ad una certa data, al quale una parte può anticipatamente chiudere tale contratto od un terzo estraneo all’operazione è disposto a subentrarvi, ma che deve estendersi agli scenari probabilistici e concernere la misura qualitativa e quantitativa della menzionata alea e dei costi, pur se impliciti, assumendo rilievo i parametri di calcolo delle obbligazioni pecuniarie nascenti dall’intesa, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse nel tempo. Si ricava dalla lettura del testo completo della sentenza che il richiamato principio non è affatto circoscritto all’area dei contratti derivati conclusi dagli intermediari con le pubbliche amministrazioni (dovendosi smentire l’opinione espressa, sul punto, dalla ricorrente).

Come è stato rilevato in altra occasione, la nullità che qui viene in rilievo non è quella virtuale (ex art. 1418, comma 1, c.c.), di cui si sono occupate in passato due ben note pronunce delle Sezioni Unite[3], per escludere che essa abbia a prospettarsi in caso di inosservanza degli obblighi informativi da parte dell’intermediario; la nullità in esame è, invece, una nullità strutturale (ex art. 1418, comma 2, c.c.) inerente ad elementi essenziali del contratto[4]. In proposito, mette conto di rilevare che per la pronuncia delle Sezioni Unite del 2020 la nullità del contratto mancante delle richiamate indicazioni è una nullità per indeterminabilità dell’oggetto; le Sezioni Unite non escludono, tuttavia, che quella carenza ridondi anche sul piano della causa del contratto[5].

Nella giurisprudenza di legittimità si è, del resto, già rilevato, come indipendentemente dalla finalità di copertura o speculativa del contratto di swap, la preventiva conoscibilità, ai fini della formazione dell’accordo in ordine alla misura dell’alea, gli elementi ed i criteri utilizzati per la determinazione del mark to market rilevi proprio sul piano causale[6].

Quel che conta è che il contratto attenzionato non recasse menzione del mark to market e dei costi impliciti e mancasse in conseguenza di esplicitare il fair value (e cioè il valore) negativo del derivato. La Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che le richiamate carenze erano incidenti sulla validità del contratto e tali da determinarne la nullità.

Nel caso di specie, l’odierna controricorrente, nella propria memoria ex art. 380bis c.p.c., ha obiettato che, sul piano del diritto unionale, è fatto divieto assoluto agli Stati membri di introdurre requisiti informativi non previsti dalla normativa europea, onde, in sintesi, l’ordinamento italiano non potrebbe prevedere regole vincolanti supplementari rispetto a quelle poste delle direttive comunitarie che disciplinano i mercati degli strumenti finanziari. Ora, per quanto interessa, l’art. 19 Direttiva 2004/39/CE (c.d. MIFID I) prevede che tutte le informazioni, comprese le comunicazioni di marketing, indirizzate dalle imprese di investimento a clienti o potenziali clienti siano corrette, chiare e non fuorvianti, richiedendo, poi, che ai clienti o potenziali clienti vengano fornite in una forma comprensibile informazioni appropriate, sull’impresa di investimento e i relativi servizi, sugli strumenti finanziari e sulle strategie di investimento proposte il che dovrebbe comprendere opportuni orientamenti e avvertenze relativi, tra l’altro ai «rischi associati agli investimenti relativi a tali strumenti o a determinate strategie di investimento» e ai «costi e gli oneri connessi», in modo che «essi possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché i rischi ad essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti con cognizione di causa».

La successiva Direttiva 2006/73/CE ha chiarito che gli Stati membri e le Autorità competenti «non devono aggiungere regole vincolanti supplementari all’atto del recepimento e dell’applicazione delle disposizioni» in essa contenute. L’art. 31 di questa seconda Direttiva prevede, inoltre, che gli Stati membri prescrivano alle imprese di investimento di fornire ai clienti o potenziali clienti una descrizione generale della natura e dei rischi degli strumenti finanziari, tenendo conto in particolare della classificazione del cliente. Tale descrizione «deve spiegare le caratteristiche del tipo specifico di strumento interessato, nonché i rischi propri a tale tipo di strumento, in modo sufficientemente dettagliato da consentire al cliente di adottare decisioni di investimento informate». Il successivo articolo 33, con riguardo alle informazioni sui costi e sugli oneri dello strumento finanziario, impone, tra l’altro, di rappresentare, se pertinente, «il prezzo totale che il cliente deve pagare in relazione allo strumento finanziario o al servizio di investimento o accessorio, comprese tutte le competenze, le commissioni, gli oneri e le spese connesse, e tutte le imposte che verranno pagate tramite l’impresa di investimento o, se non può essere indicato un prezzo esatto, la base per il calcolo del prezzo totale cosicché il cliente possa verificarla».

Quanto disposto nell’art. 19 della Direttiva 2004/39/CE e nell’art. 33 della Direttiva 2006/73/CE esclude che la necessità di dare evidenza, nel contratto, al mark to market e ai costi impliciti si ponga in conflitto con la disciplina eurounitaria: le indicazioni relative a tali elementi sono coerenti con la necessità di specificare i rischi associati all’investimento, le caratteristiche dello strumento finanziario e il prezzo che il cliente deve pagare in relazione allo strumento finanziario e ai servizi ad esso correlati.

In senso ulteriormente avvalorativo, la CONSOB, con la comunicazione n. 9019104, del 2 marzo 2009, si pone in linea di continuità con tali prescrizioni; invero, nel definire i doveri di correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi, ha espressamente raccomandato agli intermediari «di effettuare la scomposizione (c.d. unbundling) delle diverse componenti che concorrono al complessivo esborso finanziario sostenuto dal cliente per l’assunzione della posizione nel prodotto illiquido, distinguendo fair value (con separata indicazione per l’eventuale componente derivativa) e costi ― anche a manifestazione differita ― che gravano, implicitamente o esplicitamente, sul cliente», chiarendo che a quest’ultimo deve essere «fornita indicazione del valore di smobilizzo dell’investimento nell’istante immediatamente successivo alla transazione, ipotizzando una situazione di invarianza delle condizioni di mercato».

Da ultimo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciandosi sugli obblighi previsti dall’art. 19, paragrafi 4 e 5, della Direttiva 2004/39/CE ha affermato che spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro disciplinare le conseguenze contrattuali del mancato rispetto degli obblighi in materia di valutazione ivi previsti da parte di un’impresa di investimento che propone un servizio di investimento, fermo restando il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività[7].

 

 

 

 

 

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[1] Cfr. Cass. 4 novembre 2015, n. 22567; in tema di vendita si reputa, così, che solo l’indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, possa determinare la nullità del contratto per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo, notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, ponga solo un problema concernente l’adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisca, quindi, all’interpretazione della volontà dei contraenti e all’eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto: Cass. 19 aprile 2013, n. 9640.

[2] Così Cass. Civ., Sez. Un.,12 maggio 2020, n. 8770.

[3] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725.

[4] Cfr. Cass. n. 24654/2022.

[5] Cfr., segnatamente, oltre al punto 9.3, il punto 9.7 della sentenza, ove si esprime consenso nei confronti della pronuncia impugnata, la quale aveva precisato che il valore del derivato al momento della stipula costituiva elemento essenziale del contratto e integrativo della sua causa tipica: un’alea razionale e quindi misurabile, da esplicitare necessariamente ed indipendentemente dalla sua finalità di copertura ― hedging ― o speculativa.

[6] Cfr. Cass. n. 32705/2022.

[7] Cfr. CGUE, 30 maggio 2013, C‑604/11.

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