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«Al giardino non è stato detto, ma, in fondo, l'ha, comunque, sempre saputo.»

Un flusso di coscienza, che diventa romanzo; una serie di quelli che sembrano appunti sparsi, più e meno lunghi, ma che, in realtà, trovano una loro compiuta sistematizzazione e architettura, proprio come quella di un giardino: piante basse, alte, rade, affollate, potature, fioriture e avvizzimenti, rinsecchimenti e nuovi bulbi, e, poi, il peregrinare di api, bombi, impollinatori, e l’alternarsi di piogge e soleggiamenti.

La penna della scrittrice traspone in parole lo sguardo del giardiniere, o, meglio, dell’architetto del giardino, che ha studiato gli spazi e organizzato sapientemente le armonie, con una gestione di piante, luoghi, tempi, modi, accorgimenti, attenzioni adesivi alle necessità di ciascun ospite.

E, in fondo, è nel prendersi cura che si rinviene il fil rouge di tutto il racconto introspettivo. 

Il giardino, con le sue stagioni a rincorrersi instancabilmente, diventa specchio della vita della propria giardiniera: un’alternanza di razionalità e cosciente abbandono all’illusione; criticità e ottimismo; delusione e aspettativa; ricordo nostalgico del passato, necessità di vivere il tempo presente, prospettiva opaca del futuro; ricerca e perdita di se stessi; via vai di protagonisti, personaggi secondari e comparse, che si alternano, frenetici, a portare speranza, conforto, amicizia, condivisione, opportunismo, speculazione.

Poi, c’è lei, relegata sullo sfondo, per quanto ingombrante, dalla volontà narrante, ma pervasiva, nella sua compagnia; quella malattia che, in una sorta di trasfigurazione, rende il giardiniere una creatura di quel giardino, perché abbisognevole di assistenza e cura, sempre più compromesso nella sua autonomia.

Chi si prendeva cura, in un amaro, quanto crudele e irriverente contrappasso, è destinato ad arrendersi all’evidenza di doverne ricevere.

Il senso di autonomia e indipendenza viene soffocato dall’incedere silenzioso della sgradita compagna di vita e apre le porte allo struggente dubbio di quello che è stato, ma, ancor più, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, oltre che, naturalmente, di quello che sarà. 

Riemergono, dunque, sprazzi della vita passata, delle decisioni prese e di quelle sempre negate; affiorano i ripensamenti, si susseguono i capovolgimenti nelle vedute, diventa giudice severe l’autocritica, per ciò che si è fatto e ciò che si è mancato di fare, per i giudizi espressi, anche frettolosamente, e per quelli taciuti.

Giunge, però, l’assoluzione, nelle vesti di quella razionalità che legge ogni azione nel suo tempo e che la giustifica nel momento di passato appagamento che ha ingenerato.

Nella narrazione si alternano, allora, preoccupazioni per il proprio futuro, avvertendo sempre più nitidamente il fiatone sempre più intenso di quella non voluta com-prensenza, ma, ancor più, per il futuro delle persone e delle cose care.

Proprio come il giardino, al quale non è stato ancora detto di un abbandono sempre più imminente; che, ancora, forse non lo sa, ma che, più probabilmente, lo avrà già compreso da sé.

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