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di Fernando Greco

Studio Legale Greco Gigante & Partners

Le considerazioni che ambiscono a comporre questo mio nuovo editoriale rappresentano, in parte, la trasposizione sommaria della mia relazione nell’ambito dell’evento convegnistico “Il diritto all’oblio oncologico. Tutela costituzionale e rapporti privati”, organizzato dalla Formazione Decentrata della Scuola Superiore della Magistratura e tenutosi giovedì 21 marzo 2024, presso l’Aula Magna della Corte d’Appello di Lecce.

Nel nostro panorama ordinamentale, il “diritto all’oblio oncologico” è stato introdotto con la legge 7 dicembre 2023, n. 193, intendendosi per tale, ai sensi dell’art. 1, comma 2, «il diritto delle persone guarite da una patologia oncologica di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria pregressa condizione patologica, nei casi di cui alla presente legge».

Ebbene, la letteralità della definizione normativa non lascia spazio a interpretazioni: assume un ruolo indubbiamente fondamentale l’informazione, connotata da una intangibile aura di trasversalità, tale da collocarla tanto nella fase precontrattuale, quanto, non dissimilmente, nella successiva fase esecutiva e contrattuale.

Nello specifico contesto settoriale della contrattazione bancaria, finanziaria e assicurativa, il diritto all’oblio oncologico è destinato a relazionarsi strettamente con quello all’accessibilità ai diversi servizi, che non deve essere pregiudicata, viziata, influenzata o, finanche, esclusa dalla storia clinica, passata, del singolo contraente.

Il primo comma dell’art. 2 si giova di una nitidezza contenutistica: «Ai fini della stipulazione o del rinnovo di contratti relativi a servizi bancari, finanziari, di investimento e assicurativi nonché nell’ambito della stipulazione di ogni altro tipo di contratto, anche esclusivamente tra privati, quando, al momento della stipulazione del contratto o successivamente, le informazioni sono suscettibili di influenzarne condizioni e termini, non è ammessa la richiesta di informazioni relative allo stato di salute della persona fisica contraente concernenti patologie oncologiche da cui la stessa sia stata precedentemente affetta e il cui trattamento attivo si sia concluso»; in altri termini, non possono essere richieste e acquisite questa tipologia informazioni altamente sensibili, né direttamente dal contraente, né, tantomeno, in via mediata, da fonti alternative e diverse; al contempo, se dovessero essere già nella disponibilità dell’operatore e/o dell’intermediario, devono essere sterilizzate nella loro influenza ed espunte da ogni iter decisionale.

L’intento della disposizione normativa è decisamente inequivoco e può trovare la sua più ottimale collocazione nell’alveo di quel principio generale, orientativo e ispiratore dell’agire e dell’operare degli intermediari bancari, finanziari e assicurativi, rappresentato dal curare “al meglio” gli interessi dei propri clienti (o potenziali clienti), caratterizzato da una ancor più marcata accentuazione nel caso in cui questi ultimi si trovino – loro malgrado – in una posizione di maggiore e più debilitativa “debolezza” contrattuale.

Il “casellante” dell’accessibilità al mercato è indubbiamente rappresentato dal merito creditizio (rectius, dalla valutazione del merito creditizio) e dal suo composito corollario di principi, regole, dettami prasseologici e giurisprudenziali. È d’uopo rammentare un dato statistico, dirimente nella sua rappresentazione plastica della realtà: circa 1 milione di persone hanno avuto difficoltà ad accedere al credito, perché avevano contratto, in passato, una malattia oncologica, sebbene guariti da oltre 10 anni.

L’imposizione in capo all’Istituto di credito (ma anche all’Intermediario finanziario e alla Compagnia assicurativa) di non assumere informazioni rispetto alle eventuali patologie oncologiche, dalle quali il cliente (o potenziale cliente) sia guarito, non avendo recidiva da oltre 10 anni (lasso temporale dimezzato, con età al di sotto dei 21 anni), si risolve nella correzione di una dissimmetria sistemica, quella incentrata su una artefatta discriminazione tra soggetti sostanzialmente sani, al netto di una parentesi, ormai archiviata, di esistenza. In buona sostanza, si realizza l’intento legislativo, che è ben preordinato in apertura dell’articolo 1 della legge n. 193/2023: «escludere qualsiasi forma di pregiudizio o disparità di trattamento» per il tramite di «disposizioni in materia di trattamento, non discriminazione e garanzia del diritto all’oblio delle persone guarita da patologie oncologiche, in attuazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, degli articoli 7, 8, 21, 35 e 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, del Piano europeo di lotta contro il cancro di cui alla comunicazione della Commissione europea COM(2021) 44 final, del 3 febbraio 2021, nonché dell’articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848». Invero, il successivo art. 2, comma 3, rappresentando una trasposizione concreta del principio, prevede espressamente che non possano essere applicati al contraente limiti, costi e oneri aggiuntivi, né, tantomeno, trattamenti diversi rispetto a quelli previsti per le generalità dei contraenti.

Delineati gli asintoti dell’architettura normativa, il focus di questo breve approfondimento deve essere necessitatamente orientato verso il profilo più strettamente pragmatico, della fattiva esecutività del diritto de quo, nonché della giustiziabilità di una sua violazione, tanto in fase precontrattuale, quanto in quella esecutiva.

Relativamente al primo aspetto, non ci si può esimere, sebbene incidentalmente, dal rilevare la compresenza, sempre più pervasiva, tra intermediario (bancario, finanziario e/o assicurativo) e cliente (risparmiatore, investitore e/o assicurato), di un convitato di pietra: l’agente software o il meccanismo algoritmico, che preferir si voglia. Non può, difatti, essere sottaciuto come i processi decisionali siano sempre più frequentemente demandati a soggettività informatizzate, dotate di più e meno ampia autonomia, cui possono essere imputate scelte selettive e, consequenzialmente, la creazione di sacche di inclusione e/o esclusione bancaria, finanziaria e assicurativa. Se le nuove forme di (dis)intermediazione possono, perlomeno astrattamente, abbattere alcune “barriere architettoniche” poste all’ingresso del mercato, al tempo stesso, processi di selezione, affidati unicamente all’intelligenza artificiale e alla rispondenza ai calcoli algoritmici possono ingenerare delle esclusioni di soggetti, che, per converso, l’accomodamento umano avrebbe ricompreso e recuperato.

La capacità indubbia dell’algoritmo di processare un amplissimo quantitativo di dati, raffrontandoli, ponderandoli e coniugandoli si pone, evidentemente, in potenziale conflittualità con l’utilizzo di dati, pur presenti in banche dati accessibili, ma connotati dal veto normativo dell’inutilizzabilità. I dati sulla storia sanitaria del cliente rientrano, a pieno titolo, in questa categoria. Sebbene, sul noto adagio, le domande non siano mai indiscrete, a differenza delle risposte[1], si dovrà, dunque, istruire l’algoritmo a non cercare porre domande e a non cercare risposte, per tutelare, anche nei processi automatizzati il diritto al riserbo e per implementare il dover alla non-conoscenza.

In definitiva, l’implementazione della ricercata parità di trattamento della clientela, vieppiù in una logica di valutazione algoritmica del merito creditizio, imporrà l’acquisizione delle sole informazioni necessarie e consentite, comunque proporzionate allo scopo pratico da conseguire[2], con particolare riferimento ai contratti di credito al consumo o di prestito. In questo senso, si è avvertita forte la spinta comunitaria (rectius, unionale) all’uniformazione dei criteri di valutazione del merito creditizio, in ambito europeo; al tempo stesso, la consapevolizzazione del soggetto medio-utente del mercato dovrà essere più puntualmente attenzionata anche nella logica di promozione dell’alfabetizzazione ed educazione finanziaria.

Addivenendo al secondo profilo evidenziato, occorre comprendere quali siano le conseguenze, in punto di giustiziabilità e rimediabilità, per una eventuale violazione del diritto all’oblio, ovverosia, in maniera ancor più pragmatica, quali siano, per l’intermediario, che raccolga le informazioni “proibite” e le usi per negare l’accesso al servizio di credito e/o assicurativo, gli esiti sanzionatori. Le risposte ipotetiche alla questione impongono una risoluzione ramificata, per ipotesi.

Prima eventualità: mancata erogazione di un finanziamento. In questa fattispecie, occorre stabilire quale sarebbe lo strumentario a disposizione del cliente per tutelarsi efficacemente, laddove la Banca gli abbia impropriamente negato l’accesso, sulla scorta di una valutazione della patologia pregressa.

È fuor di dubbio che il piano rimediale conduce, sic et simpliciter, verso una logica risarcitoria, conseguente al comportamento in malafede dell’intermediario che, in aperta e irriducibile violazione della normativa de qua, abbia condotto una valutazione meritoria assumendo anche dei dati illegittimi (al netto della loro effettiva inferenza sulla decisione finale), addivenendo, in esito al procedimento decisionale, alla negazione del finanziamento. Trattasi di una chiara violazione di una regola comportamentale, idonea a individuare sul piano risarcitorio una responsabilità dell’intermediario, sulla scorta del noto insegnamento delle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione[3].

Tale profilo di responsabilità si configurerà, ai sensi dell’art. 2, non solo in caso di acquisizione di informazioni direttamente dal cliente, ma anche in quello complementare di loro acquisizione tramite soggetti terzi (peraltro, con non trascurabili implicazioni in materia di violazione del diritto alla riservatezza e al trattamento dei dati personali).

Non manca una ulteriore previsione (segnatamente, art. 2, comma 4) che impedisce l’effettuazione di visite mediche o di controllo e accertamenti sanitari per la stipulazione dei contratti. In questa prospettiva si colloca una chiarissima violazione del diritto alla riservatezza.

Seconda eventualità: informazioni precontrattuali e violazioni.

L’art. 2, comma 2, prevede testualmente che «In tutte le fasi di accesso a servizi bancari, finanziari, di investimento e assicurativi, ivi compresi le trattative precontrattuali e la stipulazione o il rinnovo dei contratti, le banche, gli istituti di credito, le imprese di assicurazione e gli intermediari finanziari e assicurativi forniscono alla controparte adeguate informazioni circa il diritto di cui al comma 1, di cui è fatta espressa menzione nei moduli o formulari predisposti e utilizzati ai fini della stipulazione o del rinnovo dei predetti contratti». Ebbene, l’omessa informazione sul contenuto precettivo dell’art. 1, per il tramite di una espressa menzione sui moduli e, dunque, l’ipotetica conclusione di un contratto a condizioni più onerose (per la richiesta di maggiori garanzie, o, alternativamente, l’erogazione di importi minori, con una contrazione della durata del piano di ammortamento), all’insaputa del cliente, non correttamente notiziato e reso edotto del proprio diritto di tacere determinate circostanze personali, sembra dover implicare una conseguenza risarcitoria, implementando una classica fattispecie di responsabilità precontrattuale.

Terza eventualità: l’intermediario assume informazioni, in violazione dell’art. 1 della normativa. Multa paucis. La conseguenza è expressis verbis prevista dal sesto comma dell’art. 2: «la violazione delle disposizoni di cui ai commi da 1 a 5 determina la nullità delle singole clausole contrattuali difformi rispetto ai principi di cui al comma 1 e di quelle a esse connesse e non comporta la nullità del contratto, che rimane valido ed efficace per il resto». Si tratta, evidentemente, di una nullità di protezione, parziale, rilevabile d’ufficio (in ogni stato e grado del procedimento) che scongiura l’invalidità dell’interno accordo contrattuale (e, dunque, l’insorgenza di penalizzanti obblighi restitutori, dell’intero capitale, in capo al mutuatario), della clausola “indiscreta” e di tutte le altre contenutisticamente connesse e correlate. nullità della clausola ma anche di quelle ad esso connesse. È proprio nella propalazione degli effetti invalidanti la peculiarità della previsione: è nella connessione di altre clausole, di matrice più strettamente economico-finanziaria (si pensi alla clausola determinativa degli interessi e dell’ammortamento o, ancora, a quella esplicitante i costi e oneri aggiuntivi) che deve scientemente rinvenirsi l’intervento manutentivo dell’organo giudicante. È la sterilizzazione degli effetti dell’indebito utilizzo di dati la vera sanzione. Di talché, a titolo esemplificativo, per la clausola determinativa degli interessi in un contratto di finanziamento, la nullità parziale azzererebbe il costo del finanziamento, residuando la restituzione della sola sorte capitale[4]. La nullità della clausola prevista, in buona sostanza, coincide con la presa d’atto di una iniquità sopravvenuta, che potrebbe consentire la giustificazione, tutta eccezionale, di un potere di eteroregolamentazione del contratto e un contingentamento dell’autonomia negoziale (e del suo crisma di intangibilità), con l’attribuzione al giudice di un’azione manutentiva, ex art. 1374 c.c.

Se si conviene sulla premessa che manchi una disposizione di dettaglio, ma non difetti, per converso, un meccanismo che il giudice possa utilizzare in concreto (individuabile, per l’appunto, nell’equità c.d. integrativa), l’attenzione si sposta solo sul suo utilizzo adeguato, che non deve trascendere dalla peculiarità del caso concreto e dall’elasticità, fisiologica, di una clausola generale. Non si tratta di una soluzione nuova, quanto di una strada già battuta dalla giurisprudenza, nel suo peregrinare alla ricerca di una adeguata perimetrazione del danno ingiusto, del comportamento in malafede o, ancora, dell’adempimento negligente[5].

Mi sia consentita una breve, ma significativa, notazione in calce. La collazione di informazioni non dovute, in palese violazione di una disposizione di legge, realizza una chiara situazione di discriminazione contrattuale. Si staglia, da un lato, il principio di eguaglianza, proclamato nella Costituzione, e, dall’altro, il pervasivo divieto di discriminazione, nelle sue più diverse accezioni, di matrice sovrannazionale, che si pone l’obiettivo di attuare la parità di trattamento tra le persone nei rapporti contrattuali. Tale diritto antidiscriminatorio «contrattuale» europeo è stato, poi, recepito e attuato in Italia, con distinti provvedimenti legislativi. Nell’ordinamento nazionale, quindi, si profila la coesistenza normativa di un principio costituzionale di eguaglianza e di un corpus normativo contrattuale antidiscriminatorio, di matrice europea.

L’esistenza di questo significativo apparato normativo antidiscriminatorio, anche se ancora frammentario, lacunoso ed eterogeneo (sia a livello europeo che nazionale), ma ad oggi in vigore e quindi applicabile alla materia contrattuale, impone all’interprete di verificare la compatibilità nell’ordinamento interno tra la ratio fondante la legislazione antidiscriminatoria, da un lato, e il principio che storicamente governa l’ambito dei rapporti contrattuali di diritto privato, cioè quello di libertà negoziale, dall’altro. Quanto alla normativa antidiscriminatoria essa rappresenta una sorta di paradigma in negativo del principio di eguaglianza, in progressiva emersione e consolidazione anche a livello europeo; sul fronte della libertà contrattuale, invece, nonostante le divergenti interpretazioni succedutesi in ordine al disposto costituzionale dell’art. 41 Cost., si è ritenuto di ancorare la libertà contrattuale al principio costituzionale della libertà d’iniziativa economica.

Di libertà contrattuale così come di autonomia privata non si parla in Costituzione[6]. Tuttavia, per quanto la dottrina si sia a lungo divisa sull’interpretazione della norma costituzionale di cui all’art. 41, pare condivisibile quell’orientamento che ancora la libertà contrattuale al principio costituzionale di libertà dell’iniziativa economica privata, quantomeno «nella misura in cui (la libertà contrattuale) si rivela strumentale alla realizzazione di una situazione soggettiva espressamente protetta dalla Costituzione e corrispondente, ad esempio, alla libertà di iniziativa economica o al diritto di proprietà»[7]. Entrambi i principi, di eguaglianza e di libertà contrattuale, hanno dunque – se pure con diversa intensità – «copertura costituzionale».

Per quanto odiose possano essere percepite alcune ipotesi di discriminazione, nessuno, infatti, mette in discussione che, dal punto di vista giuridico, il contraente privato rimanga libero di scegliere se e con chi concludere un contratto. Pur tuttavia, l’autonomia privata non può immaginarsi senza limiti. Prova ne è l’evoluzione legislativa per la tutela del contraente asseritamente “debole”, che evidenzia la progressiva erosione dell’assioma dell’intangibilità dell’autonomia privata in funzione della preminenza accordata ai valori di solidarietà e utilità sociale, cui anche il mercato degli scambi deve conformarsi. In conclusione, a guidare il bilanciamento di interessi non dovrà essere la preminenza accordata agli interessi patrimoniali dei contraenti (ovverosia, alle situazioni di forza e di debolezza economica), ma in virtù dell’esigenza di tutelare, anche nello spazio dedicato al mercato, il contraente come “persona”[8].

Sovviene l’insegnamento di un Maestro del diritto, il Professore Piero Schlesinger[9],  «l’operatività dell’autonomia privata, dunque, si svolge necessariamente in una dialettica costante tra il piano della «libertà» – segnata dal potere dei paciscenti di ‘liberamente determinare il contenuto del contratto’ (art. 1322, 1° comma, c.c.) di autoregolamentare i propri interessi – e quello della «autorità», continuamente tesa a fissare i limiti (anche qui cfr. l’art. 1322, 1° comma, c.c.) entro i quali i patti dei privati sono ammessi a generare actiones dinanzi ai tribunali dello Stato».

 

 

 

 

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[1] La frase è di Oscar Wilde.

[2] Sul punto, P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Vol. II, ESI, 2020, passim.  

[3] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725.

[4] Non potendosi applicare il tasso sostitutivo dell’art. 117 TUB, stante la chiara differente tutela di interessi.

[5] «I concetti valvola costituiscono in realtà norme per la produzione di norme generali concrete»: così, M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Giappichelli, Torino, 2006, 38 ss.

[6] V. L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, 2, per il quale «Le ragioni storico-ideologiche che spiegano la mancata costituzionalizzazione della libertà di contratto «come tale» si collegano alla tradizionale scarsa propensione del legislatore italiano a contenere, in linea di principio, l’intervento pubblico nell’economia nell’ambito delle funzioni di controllo e di regolazione del mercato (l’Italia è riuscita a darsi una legislazione antitrust soltanto nel 1990».

[7] V. R. Niro, Sub art. 41, nel Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti, I, 2006, Utet, Torino, 852 ss., che prosegue affermando «cosicché ogni limite posto alla libertà contrattuale si rivela legittimo – come affermato dalla Corte costituzionale – solo in quanto preordinato al raggiungimento degli scopi previsti e consentiti dalla Costituzione in relazione alla situazione sostanziale e quindi anche in relazione alla iniziativa economica».

[8] V. B. Cecchini, Discriminazione contrattuale e dignità della persona, Giappichelli, Torino, 2019, 18 ss.

[9] V. P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, 1, 230 ss.

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