Nota a Cass. Civ., Sez. I, 29 gennaio 2024, n. 2629.
Dopo la riforma del diritto societario con il D.lgs. n. 6/2003 in attuazione della legge delega n. 366/2001, la ratio legislativa sottesa all’art. 2437 c.c., pur nel rispetto della contrapposizione tra gli interessi del socio dissenziente-recedente e l’esigenza di tutelare l’integrità del capitale sociale, in uno agli interessi dei creditori, si ispira a una finalità di ampliamento delle cause di recesso, realizzata, per quanto qui rileva, attraverso la facoltà riconosciuta all’autonomia statutaria di individuarne ulteriori, con il solo limite che non si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
In questo senso non hanno inciso sull’istituto del recesso nelle s.p.a. e sulla sua ratio neppure le ultime evoluzioni normative, tra cui il nuovo art. 2086 c.c. in tema di adeguati assetti organizzativi dell’impresa, il concetto di continuità aziendale di cui alla Direttiva UE n. 2019/1023 (Direttiva Insolvency), il tema della responsabilità sociale dell’impresa, si come quello del bilancio sostenibile.
Di talché, pur in presenza di un recesso ampliato del socio, ben può preservarsi il capitale sociale, attraverso scelte statutarie (rectius: autonomia negoziale) che prevedano dei “correttivi” in grado di contemperare gli interessi in gioco, e con salvezza della clausola de qua da una declaratoria di nullità.
È lecita, dunque, la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.p.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso.
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Il caso.
Un socio di minoranza di società per azioni a tempo determinato ha proposto ricorso per cassazione deducendo la legittimità del proprio recesso, e prima ancora la legittimità della clausola statutaria di cui lo stesso si era avvalso, che prevedeva l’esercizio del diritto di recesso anche per mera volontà del socio, con un preavviso di almeno 180 giorni.
Assumeva il ricorrente che alla base dell’inserimento di tale clausola nello statuto, vi era stata una specifica attenzione all’oggetto, rappresentato dalla vendita di prodotti farmaceutici e di offerta di servizi ai soci farmacisti, nonché alla compagine societaria, composta da una partecipazione di assoluta maggioranza e una partecipazione di minima entità. Sicché la funzione del recesso ad nutum previsto nello statuto era legata essenzialmente a un diritto di exit da esercitarsi al venir meno della convenienza per gli interessi del socio al perseguimento dei vantaggi e alla partecipazione nella comune intrapresa.
In primo grado il lodo emesso dal Collegio arbitrale adito dal socio, in forza di clausola compromissoria contenuta nello statuto, aveva rigettato la domanda di accertamento, e poi in secondo grado, la Corte d’Appello di Cagliari ne aveva respinto la relativa impugnazione, ritenendo la nullità ai sensi degli artt.1418 e 1419 c.c. della clausola statutaria che, introdotta ex art. 2437, comma 4, c.c., preveda il diritto di recedere dei soci ad nutum nelle s.p.a. costituite a tempo determinato. Questo, secondo la Corte, in quanto il comma 3 dell’art. 2437 c.c. contempla il recesso senza giusta causa e con preavviso solo nelle società con durata a tempo indeterminato, nulla disponendo, invece, per quelle a tempo determinato.
Secondo la Corte territoriale, difatti, in linea con la riforma societaria del 2003, il recesso è una tutela per il socio dissenziente, come reazione di questi a ragioni ricollegabili alla vita societaria tali da giustificare la sua uscita e il comma 3 dell’art. 2437 c.c. ha natura eccezionale rispetto all’esercizio del recesso ad nutum.
Di base, secondo la Corte di Appello, vi è un principio di ordine pubblico, che a presidio del capitale sociale e dei terzi, esclude la legittimità del recesso ad nutum quando il contratto sociale sia a tempo determinato, comportando, in finale, la nullità della clausola statutaria.
In secondo grado veniva disattesa, inoltre, l’ulteriore censura formulata dal socio in punto di equiparazione del termine di durata del contratto sociale particolarmente lungo a una durata indeterminata.
Da qui, dunque, l’impugnazione della sentenza di secondo grado censurata sotto plurimi profili.
La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso del socio, ha, quindi, cassato con rinvio alla Corte di Appello di Cagliari, in diversa composizione, la sentenza gravata.
Il diritto.
La decisione in commento si apprezza, al di là della portata delle relative statuizioni, anzitutto per l’esaustiva ricostruzione, che ivi si rinviene, dell’istituto del recesso nelle società per azioni.
Preliminarmente, difatti, la Corte ripercorre le principali cause legali di recesso riferite alla s.p.a., segnatamente: ai commi 1 e 2 dell’art. 2437 c.c. il recesso posto a tutela del socio assente, dissenziente o astenuto a cui la legge riserva l’exit in caso di mancato consenso, quale contrappeso al ridotto potere del socio di minoranza di influire sulle scelte societarie; al comma 5 dell’art. 2437 c.c., che rimanda all’art. 2497 quater c.c. in tema di società soggette alle attività di direzione e coordinamento, il recesso posto a tutela dei rapporti di gruppo; al comma 3 dell’art. 2437 c.c. il recesso del socio nel caso di società per azioni chiuse costituite a tempo indeterminato con diritto di uscire dalla società con preavviso di almeno 180 giorni. Infine, aggiunge la Corte, sempre nelle s.p.a. chiuse, il recesso a tutela della libertà del socio, da prevedersi con clausola statutaria tra le “ulteriori cause di recesso” ex art. 2437, comma 4, c.c.
Ebbene la fattispecie esaminata dalla Corte ha riguardato la trattazione dell’ipotesi di cui al comma 4 dell’art. 2437 c.c.
Ferma la compiuta dissertazione che si ritrova nella sentenza e per cui si rinvia direttamente alla sua lettura integrale, tre sono i passaggi salienti in cui il risolve il percorso motivo della decisione.
Il primo: la Corte di Cassazione, muovendo dall’interpretazione del comma 4 dell’art. 2437 c.c. che consente l’introduzione nello statuto sociale di cause di recesso ulteriori rispetto a quelle previste per legge, afferma come non vi sia alcun limite rispetto alla specificità della causa statutaria di recesso o con riguardo alla finalità di tutela del dissenso del socio. È, invero, la stessa legge delega n. 366/2001 (attuata dal D. Lgs. 6/2003 cit.) che all’art. 4, comma 9, introduce la possibilità di prevedere nello statuto “ulteriori fattispecie di recesso a tutela del socio dissenziente”, così da doversi ritenere lecita l’ipotesi di recesso derivante da un più generico “dissenso” con l’intrapresa comune.
Il che comporta, quale ulteriore corollario, che nelle ulteriori ipotesi di recesso menzionate nella legge delega richiamata, non vadano ricomprese solo quelle riconnesse a dissenso da scelte imprenditoriali della maggioranza, esplicitate nelle ipotesi previste dallo statuto, ma anche la clausola statutaria che contempli il recesso rispetto a ipotesi di divergenza degli interessi e dei comuni intendimenti tra i soci.
Se questo è, come in effetti è, a ben vedere la specifica clausola statutaria che consente il recesso ad nutum non si pone in contrasto né con la riforma societaria del 2003 né con la norma codicistica che, come detto, prevede la possibilità di introdurre altre cause di recesso determinabili dallo statuto per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
Il secondo: per la Corte deve ritenersi superato, in quanto non più sostenibile, il carattere eccezionale del recesso del socio di s.p.a.
Sempre a partire dalla riforma del 2003 che ha ampliato le ipotesi di recesso, ivi comprese anche quelle legali, è stata assicurata al socio la possibilità di uscire dalla società ad un prezzo tendenzialmente corrispondente al valore di mercato delle azioni o della quota. Ciò che comporta il ricorso legittimo a tale diritto da parte del socio di minoranza, non solo per reagire alle deliberazioni della maggioranza, ma anche -e in questo risiede la novità- per assecondare la sua scelta come investitore, che decida di vendere i propri titoli banalmente per ragioni diverse da quelle strettamente legate a un suo dissenso rispetto a una scelta della maggioranza. Cade, dunque, l’eccezionalità del recesso per cedere il posto a un diritto che può esercitarsi ogni qualvolta il socio reputi più conveniente il disinvestimento rispetto alla propria partecipazione alla vita societaria.
Il terzo: la Corte, infine, propugna per l’estensibilità (ancorché da valutarsi caso per caso) per via statutaria del recesso ad nutum previsto per le s.p.a. a tempo indeterminato dall’art. 2437, comma 3, c.c. alle società costituite a tempo determinato, sempre fermo il limite dell’applicabilità alle s.p.a. chiuse.
Difatti, nel mutato contesto della riforma del 2003 sono state previste tre categorie di cause di recesso: le cause di recesso necessarie e ineliminabili statutariamente, caratterizzate da esigenze di ordine pubblico; le cause di recesso disponibili in quanto previste in principio, ma eliminabili successivamente mediante previsione statutaria; altre cause di recesso determinabili dallo statuto per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
Sicché, argomenta la Corte, a fronte dell’aumento dell’autonomia statutaria delle società e del rafforzamento dei poteri degli amministratori, la riforma del 2003 ha -in sostanza- attribuito alle minoranze tutela risarcitoria o, come nella specie, un diritto di recesso di portata più ampia. Ça va sans dire che il recesso funge da vero e proprio strumento di organizzazione dei rapporti societari non solo per opporre il dissenso a una deliberazione, ma anche, per le società per azioni chiuse, per negoziare.
E tutto questo avviene, afferma la Corte di Cassazione, senza sacrificare il bilanciamento degli interessi che viene piuttosto compiuto dal legislatore del 2003, proprio attraverso la possibilità rimessa allo statuto di prevedere altre ipotesi di recesso del socio, tra cui -quella legittima- del recesso ad nutum relegato a fattispecie non necessariamente incidenti sul rapporto fiduciario, ma anche riguardanti la diversa valutazione su prospettive e scelte imprenditoriali.
D’altronde, tale ampliamento dei casi di recesso del socio, che trova espressione nell’autonomia statutaria e negoziale di prevedere anche il mero recesso ad nutum, non si pone in contrasto con l’esigenza di tutela dei terzi e con il ruolo che assume, in questa ottica, il capitale sociale. Sotto tale profilo, la sentenza in commento ha infatti rilevato, da un lato, che il capitale sociale svolge, in seguito alla riforma, un ruolo meno decisivo rispetto al passato; dall’altro lato, che, nel meccanismo complessivamente disegnato dal legislatore del 2003, la riduzione del capitale sociale, e dunque della garanzia offerta ai terzi, diviene soltanto l’extrema ratio a fronte di ipotesi alternative in astratto percorribili in caso di recesso del socio, quali, ad esempio, l’offerta in opzione delle azioni agli altri soci, ovvero, il collocamento presso terzi e l’acquisto di azioni proprie mediante le riserve disponibili, senza in sostanza minare all’integrità del patrimonio sociale e alla prosecuzione dell’impresa.
Da ciò, quindi, la legittimità nella fattispecie sottoposta all’esame della Corte di Cassazione del congruo termine di preavviso di 180 giorni previsto dallo statuto nella clausola di recesso, coincidente con quello stabilito dal comma 3 dell’art. 2437 cit. per l’analogo caso di recesso legale ad nutum dalla s.p.a. costituita a tempo indeterminato.
Chiosa la Corte come nella specie risulti particolarmente lesiva della posizione del socio ricorrente, senza che possa giustificarlo nessun interesse preteso superiore, la declaratoria di nullità della clausola statutaria operata dalla Corte di Appello, la cui statuizione, difatti, irragionevolmente, si concreta in un vero e proprio pregiudizio all’affidamento del socio recedente nell’agevole uscita dalla società, presupposto questo implicito, insieme agli altri caratteri dell’impresa comune, determinante l’adesione iniziale del socio al contratto sociale.
Valutazioni conclusive.
La conclusione cui perviene la Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso del socio recedente si presenta come scelta di buon senso e come un’apertura attesa da parte degli operatori del diritto, posta a presidio dei diritti dei soci di minoranza nelle s.p.a. chiuse e con durata a tempo determinato.
Se è vero, come è vero, che non è più sostenibile l’eccezionalità del recesso, inteso come strumento alternativo al trasferimento delle azioni, che al limite poteva essere giustificato per le società aperte, nelle quali vi è il diritto alla libera trasferibilità delle azioni, a maggior ragione non può conservare tale carattere nelle compagini che non fanno appello al mercato del credito.
Ciò è tanto più fondato sol che si consideri come anche nelle s.p.a. aperte sia, di fatto, possibile realizzare quel contemperamento di interessi voluto dal legislatore del 2003 quali, da un lato, la libera trasferibilità delle azioni, e, dall’altro lato, l’interesse della maggioranza a rendere possibili elementi di chiusura della società, ricorrendo all’introduzione ovvero alla rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari quali ad esempio la clausola di intrasferibilità, la clausola di gradimento ovvero, ancora quella di prelazione.
Non a caso in giurisprudenza è stato ritenuto legittimo il recesso esercitato da un socio a seguito della modifica statutaria in forza della quale i soci erano stati privati del diritto di prelazione per i trasferimenti di azioni a società direttamente o indirettamente controllate (Cass., n. 20546/2022).
In definitiva, dato il meccanismo complessivamente ridisegnato dalla riforma societaria del 2003, appare ragionevole la soluzione adottata nella fattispecie all’esame dalla Corte di Cassazione, trattandosi di ipotesi di recesso ad nutum esercitato dal socio di minoranza in forza di clausola statutaria che lo abilitasse a tanto, inserita nel contratto sociale in virtù di quell’autonomia negoziale che, con l’unico limite rappresentato dalla buona fede, non può essere sacrificata, ma piuttosto va -e può essere realmente- bilanciata con le esigenze della società e dei terzi, senza rischiare di essere colpita dalla sanzione della nullità.
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