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Nota a App. Torino, Sez. I, 2 febbraio 2024, n. 92.

Massima redazionale

Nella specie, il Tribunale ha rilevato che, nell’ottica delle Sezioni Unite[1], il giudizio sulla qualificazione del versamento deve farsi secondo la situazione esistente alla data in cui è eseguito e non in funzione di scenari ipotetici. Ciò posto, il versamento su conto affidato non è diverso da quello su conto attivo, nel senso che l’uno e l’altro non comportano la perdita della disponibilità delle somme versate dal lato del cliente, il quale, come ha versato, così può riutilizzare le medesime somme, e non equivalgono, pertanto, “a pagamento”. Per contro, se il conto è scoperto, il versamento riduce l’esposizione debitoria del cliente, fino al limite del suo azzeramento (se in assenza di fido) o al limite superiore del fido (se in sconfino), senza che il cliente abbia facoltà di nuovamente utilizzare le somme versate, né che la Banca sia tenuta a consentire un nuovo utilizzo delle stesse.

Ebbene, nel contesto dato, appare certo che il versamento ha avuto “lo scopo e l’effetto di determinare uno spostamento patrimoniale”, determinando la perdita di disponibilità delle somme che il cliente ha versato, e che lo stesso è, pertanto, assimilabile quoad effectum a un pagamento e non a un deposito di somma di denaro. Dunque, lo spostamento patrimoniale è escluso se la riduzione dell’esposizione debitoria comporta la riespansione, in pari misura, della facoltà di utilizzo della medesima somma di denaro e sussiste, invece, se questa riespansione non può verificarsi, perché il versamento è fatto su un conto “scoperto”, senza fido o oltre il limite del fido.

Pertanto, secondo il giudice di prime cure, non è possibile rimettere il giudizio sulla qualificazione della rimessa, se pagamento o ripristino di disponibilità, “all’esito della declaratoria di nullità”, poiché “la disponibilità” idonea a impedire lo spostamento patrimoniale consiste nella concreta conservazione del potere di disporre di una somma di denaro e non può che essere verificata sulla base della situazione dichiarata esistente al tempo in cui il versamento è eseguito. Che a distanza di oltre dieci anni si scopra che il c/c era attivo o entro i limiti del fido non toglie che il cliente, nell’intervallo, abbia perduto la disponibilità della somma versata e che l’abbia perduta al tempo stesso del versamento. Il Tribunale, con motivazione congrua e immune da vizi, ha ritenuto che il ricalcolo del saldo finale avrebbe dovuto compiersi tenendo conto del “saldo banca”, in linea con precedenti pronunciamenti della Corte territoriale sabauda[2].  

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Il Tribunale ha correttamente rilevato che il contratto di mutuo oggetto di controversia avesse un piano di ammortamento concordato, allegato al testo negoziale (di cui faceva espressamente parte): la società mutuataria ben sapeva che avrebbe dovuto restituire e con che scansioni, proprio sulla base del piano di ammortamento (e, comunque, sulla base delle analitiche previsioni contrattuali).

Gli interessi corrispettivi da restituire non sono mai capitalizzati, nemmeno in ipotesi di interesse composto, perché essi vengono calcolati solo sulla quota capitale, via via decrescente, per il periodo corrispondente a quello di ogni singola rata. A tale proposito, la Corte territoriale richiama l’orientamento più volte manifestato[3], che esclude la produzione di anatocismo nel metodo di ammortamento a rata fissa, c.d. “alla francese”.

Invero, il piano di ammortamento a rata costante prevede che il debitore rimborsi alla fine di ogni anno (o con altra periodicità) e per tutta la durata dell’ammortamento una rata costante posticipata tale che al termine del periodo stabilito di ammortamento il debito sia completamente estinto, sia in linea di capitali sia per interessi. Ogni rata costante si compone di una quota interessi e di una quota capitale: dal punto di vista del mutuatario, la quota interessi rappresenta il corrispettivo dell’uso del denaro, mentre la quota capitale rappresenta la somma destinata al rimborso del capitale erogato. In ogni rata, la quota interessi è calcolata tramite il prodotto fra tasso di interesse e debito residuo al termine di ciascun periodo di ammortamento e la quota capitale per differenza tra l’ammontare della rata e gli interessi di periodo; il calcolo degli interessi sul capitale residuo comporta che gli interessi si riducano progressivamente di rata in rata in ragione dell’ammortamento del debito capitale, che (nella invarianza della rata) viene rimborsato per quote capitali crescenti.

Orbene l’art. 1283 c.c. vieta la produzione di interessi su interessi scaduti ed è questa l’unica fattispecie ivi regolata. In altri termini, si ha anatocismo per gli effetti dell’art. 1283 c.c. soltanto se gli interessi maturati sul debito, nel periodo X, si aggiungono al capitale, andando così a costituire la base di calcolo produttiva di interessi del periodo X+1 e così via ricorsivamente.

Il metodo c.d. “alla francese” comporta, invece, che gli interessi vengano comunque calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata e non anche sugli interessi pregressi. Dunque, nel sistema progressivo, ciascuna rata comporta la liquidazione e il pagamento di tutti (ed unicamente) gli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce. Tale importo viene, quindi, integralmente pagato con la rata, ove la residua quota di essa va a estinguere il capitale. Ciò non comporta capitalizzazione degli interessi, atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla residua quota di captale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti. In tale prospettiva, l’applicazione dell’interesse composto non provoca, comunque, alcun fenomeno anatocistico nel conteggio degli interessi contenuti in ogni singola rata.

La capitalizzazione composta nei contratti di credito è, quindi, del tutto eterogena rispetto all’anatocismo ed è solo un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all’altra in esecuzione del contratto concluso tra loro; è, in altre parole, una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di espressione del tasso di interesse applicabile a un capitale dato.

Da ultimo, risulta condivisibile anche la statuizione del Tribunale per cui la circostanza che il tasso di periodo venga formato senza tenere conto dell’effetto finanziario del pagamento anticipato e infrannuale dell’interesse determinato su base annua non comporta nullità per indeterminatezza della clausola contrattuale, che è di univoca applicazione, né altra violazione possibile, sul terreno della trasparenza contrattuale, atteso che l’informazione contenuto nel TAE, legata alla periodicità infrannuale, ma limitata alle sole rate di rimborso, è comunque compresa e assorbita nel dato del TAEG, che viene calcolato tenendo conto della periodicità del versamento delle rate oltre che delle spese accessorie a carico del prenditore di denaro. In conclusione, la clausola riferita al tasso di periodo non può considerarsi indeterminata.

 

 

 

 

 

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[1] Cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 24418/2010.

[2] Cfr. App. Torino, 22.08.2019, n. 1410.

[3] Cfr. App. Torino, Sez. I, 14.05.2019, n. 807; App. Torino, Sez. I, 21.05.2020 n. 544; App. Torino, sez. I, 17.09.2020, n. 905.

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