Nota a Corte Cost., 27 gennaio 2024, n. 10.
Massima redazionale
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, l’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.
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“Una pena che impedisce al condannato di esercitare l’affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa. L’intimità degli affetti non può essere sacrificata dall’esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all’obiettivo della risocializzazione. Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall’indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell’intimità di incontri riservati, con quell’esito di desertificazione affettiva che è l’esatto opposto della risocializzazione”.
E’ questo il nucleo argomentativo della sentenza in esame, il cui motivo di maggior interesse risiede, tuttavia, in due altri e differenti aspetti di carattere generale.
Il primo sta nel fatto che l’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 era già stato scrutinato dalla Corte in termini di inammissibilità con la sentenza n. n. 301 del 2012, nella quale il legislatore era stato sollecitato a ricercare un punto di equilibrio, che, pur senza compromettere la sicurezza e l’ordine ineludibili negli istituti penitenziari, consentisse tuttavia l’apertura di spazi di manifestazione della quella basilare “libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima”. A oltre undici anni di distanza, pur in presenza di modifiche normative, il controllo a vista dei colloqui era rimasto.
Allora la Corte procede a dichiarare l’illegittimità costituzionale, sia pure con i limiti e i caveat di cui in motivazione .
In secondo luogo è proprio l’inusuale dettaglio di quest’ultima a rappresentare un singolare metodo con cui la decisione si fa carico di suggerire aspetti di ordine logistico/amministrativo: durata e frequenza dei colloqui, predisposizione di unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico, esclusione di altre persone , ecc..
Viene inoltre, ovviamente, sottolineata la non applicabilità della pronuncia al regime speciale di detenzione di cui all’art. 41-bis ordin. penit.,e ai detenuti sottoposti a sorveglianza particolare, ma con la precisazione che per i “detenuti per reati cosiddetti ostativi, in linea di principio non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia, posto che l’ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui”. Non mancano anche considerazioni a più ampio respiro, quali il rischio di scioglimento o cessazione degli effetti civili dei “matrimoni bianchi”, in quanto non consumati, e il fatto che le restrizioni imposte all’espressione dell’affettività (quali conseguono all’inderogabilità del controllo a vista sui colloqui familiari) finiscono per riflettersi anche sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni.
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