Nota a Trib. Teramo, 15 dicembre 2023.
Con la sentenza del 15 dicembre 2023 il Tribunale di Teramo si è espresso in materia di responsabilità dell’intermediario finanziario nella prestazione di servizi di investimento in relazione all’inadempimento degli obblighi di informazione che la legge impone nello svolgimento del rapporto contrattuale.
È bene rilevare che il rapporto dedotto in causa si è svolto in epoca antecedente al recepimento delle direttive comunitarie n. 39 del 2004 e n. 73 del 2006 (c.d. direttiva MiFID), poi integrate dal regolamento n. 1283 del 2006, sicché si farà riferimento alla disciplina dettata dal T.U.F. del 1998 (D.lgs. n. 58 del 1998) e dal regolamento Consob vigente prima delle modifiche apportate per uniformarsi alle suddette nuove direttive.
Sul tema degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario finanziario, in applicazione del D.Lgs. n. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 21, in combinato disposto con gli artt. 28 e 29 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, esaminando l’argomento, la Corte di Cassazione è pervenuta ad esiti interpretativi univoci e consolidati sotto due distinti aspetti che occorre mantenere attentamente separati: i) quello dell’identificazione della latitudine degli obblighi informativi medesimi; ii) quello dell’atteggiarsi del riparto degli oneri di allegazione e di prova in sede giudiziale ove l’investitore lamenti l’inadempimento di detti obblighi.
In relazione al primo di essi, ricompreso nel perimetro delle doglianze in esame, con riferimento alla lettera della norma di cui agli artt. 28 e 29 non vi è dubbio che tali obblighi informativi siano particolarmente estesi e penetranti, giacché diretti, in generale, a consentire all’investitore di operare investimenti pienamente consapevoli, avendo acquisito l’intero ventaglio delle informazioni, specifiche e personalizzate, che, di volta in volta, alla luce del parametro di diligenza applicabile, l’intermediario debba fornire in ragione dell’investimento prescelto, tenuto conto tanto delle caratteristiche dell’investitore, quanto di quelle del titolo verso cui si indirizza l’investimento, benché attuato nel contesto di un rapporto di sola negoziazione, ricezione e trasmissione di ordini[1].
Con specifico riguardo, poi, alla segnalazione di inadeguatezza di cui all’art. 29 del regolamento Consob n. 11522 del 1998 (tema che conserva attualità solo in ragione del protrarsi di liti, come quella che ci occupa, concernenti vicende temporalmente collocate in epoca antecedente al regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007), vale osservare che detto scrutinio si colloca entro l’ambito della pluralità degli obblighi informativi facenti capo agli intermediari finanziari (obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza, obbligo di informazione, obbligo di evidenziare l’inadeguatezza dell’operazione che si va a compiere), tutti convergenti verso un fine unitario, consistente, per l’appunto, nel segnalare all’investitore, in relazione alla sua accertata propensione al rischio, la non adeguatezza delle operazioni di investimento che si accinge a compiere.
A titolo esemplificativo, l’intermediario deve rendere edotto l’investitore del rating, della eventuale offering circular e delle caratteristiche del mercato ove il prodotto è collocato, di eventuali situazioni di grey market, e, se del caso, finanche del rischio di default dell’emittente – sempre che resti apprezzabile da esso intermediario – senza che un deficit informativo si possa giustificare sulla base della dimensione locale dell’intermediario medesimo e della non partecipazione diretta alla vendita dei titoli.
Il citato art. 29, che pone la c.d. suitability rule, ossia la regola che impedisce agli intermediari di porre in essere operazioni inadeguate al profilo di rischio dell’investitore, si colloca in collegamento con la c.d. know your customer rule, dal momento che l’intermediario intanto può verificare l’adeguatezza dell’operazione in quanto abbia precedentemente acquisito le informazioni concernenti il cliente.
Dunque, salvo qualche pronuncia sporadica di senso contrario, i summenzionati obblighi informativi non possono ritenersi soddisfatti dalla sola consegna del prospetto generale dei rischi degli investimenti in strumenti finanziari, né da altre comunicazioni di tipo generico e standardizzato – nonostante la standardizzazione sia, invece, espressamente considerata dal regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007, art. 27 – ovvero dalla semplice sottoscrizione, da parte del cliente, della formula “operazione non adeguata per tipologia”. Parimenti, non ha carattere satisfattorio la dichiarazione del cliente, contenuta nell’ordine di acquisto di un prodotto finanziario, con la quale egli dia atto di avere ricevuto le informazioni necessarie e sufficienti ai fini della completa valutazione del “grado di rischiosità. La stessa Cassazione nel 2012 ha statuito che una siffatta dichiarazione “non può essere qualificata come confessione stragiudiziale, essendo a tal fine necessaria la consapevolezza e volontà di ammettere un fatto specifico sfavorevole per il dichiarante e favorevole all’altra parte, che determini la realizzazione di un obiettivo pregiudizio, ed è, inoltre, inidonea ad assolvere gli obblighi informativi prescritti dal D. lgs. n. 58 del 1998, art. 21 e art. 28 del Reg. Consob n. 11522 del 1998, trattandosi di una dichiarazione riassuntiva e generica circa l’avvenuta completezza dell’informazione sottoscritta dal cliente”[2].
Non c’è dubbio, allora, che il contenuto della segnalazione di inadeguatezza debba essere sufficiente in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali e alla situazione finanziaria del cliente.
Emerge, quindi, dalle pronunce analizzate e dalla ratio della stessa normativa, improntata ad un generale favor nei confronti dell’investitore, considerato parte debole del rapporto contrattuale, l’obbligo di fornire al cliente – per usare la chiara formula adottata dal regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007, art. 27, sebbene inapplicabile ratione temporis alla vicenda in esame – “in una forma comprensibile, informazioni appropriate affinché essi possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari interessati e i rischi ad essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole”.
Chiaro ed univoco è anche l’orientamento della Suprema Corte con riguardo alla forma della segnalazione di inadeguatezza.
L’art. 29 in discorso non pone un requisito di forma concernente il contenuto delle informazioni che l’intermediario è tenuto a fornire all’investitore in ordine alle ragioni di inadeguatezza della disposizione di investimento; la norma, richiede la forma scritta per l’ordine da parte del cliente, ma non con riguardo alla motivazione dell’inadeguatezza la quale, considerato il principio generale della libertà di forme, ben può essere fornita verbalmente. Tuttavia, come è accaduto nel caso sottoposto alla nostra attenzione, proprio in ragione dell’insussistenza di una previsione che imponga all’intermediario, per così dire, di verbalizzare il contenuto delle informazioni somministrate al cliente in ordine requisito formale della segnalazione di inadeguatezza si giustifica l’affermazione secondo cui siffatta segnalazione è inidonea, in sé stessa, ad assolvere agli obblighi informativi prescritti dal D. lgs. n. 58 del 1998, art. 21 e art. 28 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, integrando la stessa un’affermazione del tutto riassuntiva e generica circa l’avvenuta completezza dell’informazione sottoscritta dal cliente[3].
In sintesi, l’eventuale violazione degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario finanziario assume rilevanza in momenti diversi: in riferimento al momento genetico del contratto, quindi alla stipula del contratto quadro d’intermediazione, che costituisce una cornice contrattuale in cui si dispiegano le successive operazioni di investimento, e nel momento che, invece, attiene alla successiva fase applicativa delle singole operazioni. Infatti, gli adempimenti relativi agli obblighi informativi nei confronti del cliente posti a carico dell’intermediario finanziario, prevalentemente nella fase anteriore all’effettuazione delle singole operazioni di investimento, costituiscono soltanto un aspetto particolare del più generale obbligo di informazione che la legge pone a carico dell’intermediario stesso ed alla cui osservanza è informato l’intero svolgimento del rapporto, dalla fase anteriore alla stipula del contratto quadro fino all’esecuzione delle singole operazioni di investimento[4].
In relazione, poi, all’atteggiarsi del riparto degli oneri di allegazione e di prova, in sede giudiziale, nelle azioni come quella intrapresa dall’attrice, occorre anzitutto richiamare la regola secondo cui, nei giudizi di risarcimento del danno, è onere dell’intermediario provare di avere agito con la diligenza richiestagli, ai sensi del D. lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6: norma che, lungi dal comportare un’inversione dell’onere probatorio altrimenti discendente dall’art. 2697 c.c., si pone in perfetta armonia e continuità con la regola generale stabilita dall’art. 1218 c.c., che, in presenza dell’inadempimento, pone a carico del debitore la prova della sua non imputabilità non trovando applicazione, tale norma, solo al di fuori del campo della responsabilità contrattuale, ove il danneggiato intenda far valere la responsabilità extracontrattuale dell’intermediario per fatto altrui.
Soffermandosi, poi, sul significato dell’art. 23 citato, può pacificamente concludersi che spetta, in primo luogo, all’investitore dedurre l’inadempimento consistente nella violazione degli obblighi informativi ai quali l’intermediario finanziario è tenuto, con conseguente collocazione a carico dello stesso intermediario finanziario dell’onere probatorio di avere esattamente adempiuto, nei termini previsti dalla normativa applicabile ed in relazione all’inadempimento così come dedotto. Dopo di che, grava sul cliente investitore l’onere della prova del nesso di causalità tra l’inadempimento ed il danno: onere della prova la cui osservanza – come puntualizzato dalla Cass. n. 16127 del 2020 – “versandosi in ipotesi di causalità omissiva, va scrutinata, in ossequio alla regola del “più probabile che non”, attraverso l’impiego del giudizio controfattuale, e, cioè, collocando ipoteticamente in luogo della condotta omessa quella legalmente dovuta, così da accertare, secondo un giudizio necessariamente probabilistico condotto sul modello della prognosi postuma, giudizio che ben può muovere dalla stessa consistenza dell’informazione omessa riguardata attraverso la lente dell’id quod plerumque accidit, se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole”. Tale giudizio per sua natura non si presta alla prova diretta, ma solo a quella presuntiva, occorrendo desumere (nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 2729 c.c.) dai fatti certi emersi in sede istruttoria se l’investitore avrebbe tenuto una condotta, quella consistente nel recedere all’investimento, ormai divenuta nei fatti non più realizzabile.
Grava, altresì, sull’investitore la prova del danno, ricordandosi, in proposito, che in presenza di un comportamento illegittimo dell’intermediario, l’investitore inconsapevole si trova esposto ad un rischio che avrebbe potuto essergli accollato solo a seguito di adeguate informazioni. Il danno consiste nel rischio di perdita del capitale investito che il cliente ben informato non si sarebbe presumibilmente addossato, o almeno non in quella misura.
Più recentemente, pronunciandosi proprio sul tema della sussistenza, o meno, del nesso di causalità tra l’inadempimento dell’obbligo informativo gravante sulla banca ed il danno lamentato dall’investitore, la Corte ha puntualizzato [5] che l’inadempimento di cui si tratta faccia sorgere una presunzione del nesso di causalità: dalla funzione sistematica assegnata all’obbligo informativo, preordinato a riequilibrare l’asimmetria del patrimonio conoscitivo – informatico a favore dell’investitore al fine di consentirgli una scelta consapevole, scaturisce una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, pur suscettibile di prova contraria da parte dell’intermediario.
Tale prova, tuttavia, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati.
Alle stregua di quanto esposto, la sentenza si rileva coerente con tutti i principi riportati poiché, a fronte del mancato adempimento della banca intermediaria dei predetti obblighi di informazione, di eventuale segnalazione di inadeguatezza e di astensione in relazione all’operazione eseguita, era onere di quest’ultima, giusta il D.lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6, provare il proprio adempimento. Onere che, nel caso scrutinato, non è stato assolto.
______________________________________________
[1] Cfr. Cass. n. 14884/2017.
[2] Cfr. Cass. n. 11412/2012.
[3] Cfr. Cass. n. 7932/2023.
[4] Cfr. Cass. n. 16127/2020.
[5] Cfr. Cass. n. 33596/2021.
Seguici sui social:
Info sull'autore