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Cass. Civ., Sez. I, 21 dicembre 2023, n. 35782.

Massima redazionale

Nella specie, la Corte distrettuale, disattendendo i corrispondenti motivi di gravame: i) ha respinto le doglianze degli appellanti relative alla pretesa violazione, da parte della banca intermediaria, degli obblighi informativi e dei princìpi di correttezza, buona fede, trasparenza e diligenza professionale; ii) ha considerato la responsabilità precontrattuale di natura aquiliana, sottoposta alla prescrizione quinquennale; iii) ha negato la lamentata violazione delle norme in materia di adeguatezza degli investimenti e di conflitto di interessi.

In particolare, con esaustiva e logica motivazione, i giudici di seconde cure:

  1. hanno rimarcato che, «contrariamente a quanto affermato da parte appellante, dalla analitica riproduzione delle prospettazioni in fatto così come articolata nell’atto di citazione di primo grado […], non emerge affatto alcuna specifica individuazione di quali, tra le numerose operazioni effettuate, avrebbero in concreto cagionato la perdita lamentata, ciò non potendosi desumere dalla semplice indicazione di versamenti e prelievi, riferiti ai singoli rapporti contrattuali. Individuazione (mancata) che sarebbe risultata di grande importanza, non essendo l’intermediario – in un rapporto di negoziazione-ricezione ordini – tenuto a rispondere sul piano oggettivo dell’esito infausto del singolo investimento, né, ancor meno, della perdita complessiva derivante dall’andamento complessivo degli investimenti, ma solo per responsabilità, su base soggettiva, conseguente al pregiudizio correlato all’omessa diligente attuazione degli obblighi posti a suo carico dalla legge e dal contratto»;
  2. ha accertato l’avvenuta consegna del documento sui rischi generali degli investimenti in occasione della sottoscrizione, da parte loro, sia del primo contratto-quadro che di tutti quelli successivi. Ha puntualizzato, peraltro, affatto correttamente, che detto documento «è ovviamente finalizzato a rendere consapevole il potenziale investitore dei rischi cui potrà andare incontro nel prosieguo del rapporto e descrive, tra l’altro, i rischi correlati all’investimento in strumenti finanziari. Con ogni evidenza, da tale documento non può evincersi la caratterizzazione del rischio correlata ad ogni singolo ordine di investimento, perché la funzione del documento in questione, come da esso stesso chiarito, è soltanto quella di fornire informazioni di base sui rischi connessi agli investimenti e alle gestioni. La consegna del documento generale sui rischi non può, quindi, da sé sola, fornire prova dell’intervenuto adempimento degli obblighi di informazione posti a carico dell’intermediario»;
  3. ha descritto, minuziosamente, il contenuto delle informazioni rese dagli appellanti alla banca compilando il questionario di profilatura e ha concluso che, dalle dichiarazioni ivi rinvenibili, poteva presumersi un’adeguata conoscenza della materia in capo agli appellanti. Dichiarazioni – ha precisato la corte – «da ritenersi di particolare rilievo in quanto – coerentemente con quelle precedenti, correlate ai contratti quadro ed alle relative integrazioni, nelle quali essi avevano affermato di avere un’alta esperienza in titoli, un’alta propensione al rischio e di voler conseguire obbiettivi di rendimento in termini di rivalutabilità – atte a ricostruire una complessiva valutazione delle caratteristiche dell’investitore, in termini di profilo di rischio, fondata non già soltanto sulle intenzioni espresse per il futuro ma anche, e soprattutto, sulla base delle condotte sistematicamente e non occasionalmente tenute nel passato»;
  4. quanto al tema degli obblighi informativi e alla adeguatezza delle operazioni, ha disatteso, innanzitutto, la censura degli appellanti riguardanti l’affermazione della ritenuta irrilevanza della presunta non compatibilità con il Regolamento Consob allora in vigore (n. 11522/98) di quello richiamato nel modulo (n. 10943/97). Sul punto, ha confermato «quanto ritenuto del giudice di prime cure, manifesta essendo la rilevanza soltanto del rispetto della disciplina normativa in vigore al momento della stipulazione del contratto, indipendentemente dall’eventuale erroneo richiamo, in quest’ultimo, alla precedente circolare». Ha precisato, poi, significativamente, che «il pregiudizio lamentato per perdita del patrimonio mobiliare – ammesso che debba riferirsi alle operazioni in contratti derivati, e non ad altre operazioni – deve […] presumersi determinato in epoca successiva a quella della sottoscrizione del primo dei questionari (dicembre 2007), in concomitanza del quale veniva dichiarata una provvista di euro 500.000, con soglia perdite di euro 250.000, posto che, in data successiva (ottobre 2008), la provvista era stata maggiorata di ben euro 100.000, con incremento della soglia perdite sino ad euro 300.000, il che non avrebbe avuto senso alcuno laddove l’investimento effettuato in precedenza avesse generato perdite anziché profitti. Ne consegue che il pregiudizio stesso non può ricondursi, sul piano causale, ad un eventuale difetto di informazione e di valutazione, che si riferirebbe a contratti quadro preesistenti, la cui attuazione, con i precedenti ordini, non può aver determinato, secondo la stessa prospettazione di parte attrice, odierna appellante, alcun danno economico. Ciò posto, fatto richiamo alle considerazioni già espresse sul primo motivo di gravame, appare evidente, già sul piano documentale, non soltanto la consapevolezza degli investitori sul rischio cui andavano incontro con gli investimenti in contratti derivati, ma anche l’appropriatezza di tale tipologia di investimento (opzioni e futures, nell’ambito di mercati regolamentati) rispetto al profilo di rischio ricavabile dai questionari stessi, nell’ambito dei quali gli odierni appellanti avevano espressamente dichiarato quanto segue: “sono un investitore propenso al rischio; investo in prodotti che consentono di ottenere una crescita del capitale nel medio/lungo periodo, consapevole del rischio di poter subire perdite anche significative nel breve periodo”». Ha puntualizzato, infine, del tutto condivisibilmente, che «non si nega che possa in astratto configurarsi una responsabilità dell’intermediario in relazione all’esito infausto di alcuni specifici investimenti, laddove, in relazione agli stessi, egli non abbia fornito prova, sensi dell’art. 23, sesto comma, TUF, di aver dato adeguata informazione sui rischi e le opportunità ad essi correlati; tuttavia è appena il caso di rilevare – con ciò ribadendosi quanto già esposto sul primo motivo di gravame – che l’omessa individuazione, da parte degli attori, odierni appellanti, delle singole operazioni che avrebbero generato le perdite, non rendendo possibile alla controparte alcuna idonea difesa al riguardo, non consente di pervenire ad un giudizio in termini di insufficienza della prova (a carico dell’intermediario) della diligente attuazione dell’incarico ricevuto, non potendosi dallo stesso pretendere la dimostrazione dell’avvenuta attuazione dei doveri di informazione per ciascuna delle centinaia di operazioni effettuate, in assenza di qualsiasi specificazione, da parte degli investitori, in ordine a quelle che avrebbero, in tesi, generato il danno»;
  5. circa il lamentato conflitto di interessi, ha preliminarmente osservato che «la pluralità dei ruoli assunti dall’intermediario, per la compresenza di attività di consulenza, ricezione di ordini ed eventuale finanziamento per la formazione della relativa provvista, non fa di per sé presumere la sussistenza di interessi in conflitto rispetto a quelli dell’investitore. In buona sostanza, ciò è del resto riconosciuto dalla stessa parte appellante, la quale, infatti, riconduce l’ipotizzato conflitto di interessi alla premessa costituita dall’assoluta carenza di capacità decisionale in capo all’investitore che, sostanzialmente, si sarebbe posto nelle mani dell’intermediario, e per esso del funzionario addetto ai servizi di investimento, il quale sarebbe risultato il vero dominus delle operazioni di investimento attuate, da collocarsi, pertanto, nel quadro di un rapporto che, sebbene formato come negoziazione/ricezione ordini, si sarebbe in concreto sviluppato come vera e propria gestione di portafoglio finanziario». Successivamente, ha ampiamente esposto le ragioni per cui, nella specie, erano rimasti sforniti di qualsivoglia prova (come già ritenuto, peraltro, dal giudice di primo grado sul presupposto delle carenza delle corrispondenti dimostrazioni) gli assunti degli attori/appellanti riguardanti la configurabilità, nella specie, delle ipotesi di “gestione surrettizia” («con ciò pervenendosi alla conseguente negazione tanto del conflitto di interessi – che proprio sulla base di tale presupposto si era fondato – quanto del reato di cui all’art. 167 TUF, che, appunto, alla gestione si riferisce, per sanzionare quella che si caratterizza per essere “infedele”») o, in subordine, di “gestione infedele”.

Appare evidente che la Corte territoriale abbia inteso opinare non solo che la Banca avesse adempiuto gli obblighi informativi su di essa gravanti, ma anche che la medesima, facendo legittimo affidamento sul contenuto delle informazioni ricevute dai clienti-investitori, compilando i questionari somministrati, non avesse alcuna ragione per dubitare del fatto che le operazioni di acquisto attenzionate avrebbero dovuto considerarsi adeguate al profilo ricavato, con propensione di rischio alta, dichiarata in ragione delle loro conoscenze desunte dalla tipologia di operazioni fino ad allora effettuate.

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