Nota a Cass. Civ., Sez. III, 13 dicembre 2023, n. 34889.
La controversia presa in esame, nell’ambito di un contratto di leasing finanziario, affronta due temi di rilievo.
La prima questione riguarda l’applicazione al contratto di leasing finanziario della disciplina in materia di trasparenza dei contratti bancari di cui all’articolo 117 TUB, unitamente alle norme integrative contenute nelle Istruzioni della Banca d’Italia sulla Trasparenza del 25 luglio 2003. Nella vicenda che qui interessa, infatti, il Ricorrente ha censurato le statuizioni della Corte di Appello nella parte in cui quest’ultima non ha dichiarato nullo il contratto per mancata indicazione dell’ISC.
Nel ritenere infondato il motivo, la Suprema Corte ha ribadito che l’indicazione dell’ISC è obbligatoria solo per le operazioni di credito al consumo. Il fatto che talune tipologie di leasing rientrino nel novero delle operazioni di credito al consumo non implica che in ogni contratto di leasing debba essere espresso l’ISC.
Concordemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, l’omessa indicazione dell’ISC, al di fuori dei casi di contratti stipulati con un consumatore, ai sensi dell’art. 125-bisTUB, non determina la nullità del contratto e l’automatica sostituzione ai sensi dell’art. 117 TUB, dal momento che si tratta solo di un indicatore sintetico del costo complessivo dell’operazione di finanziamento, e non determina, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, ma solo l’erronea rappresentazione del suo costo globale, pur sempre ricavabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencati in contratto[1].
La seconda questione, invece, affronta il tema della nullità del contratto per aver attuato un’intesa vietata dall’articolo 2 della L. n. 287 del 1990 (cd. ‘‘legge antitrust’’).
In particolare, il Ricorrente ha lamentato che il Giudice di Appello non ha considerato nullo il contratto di leasing nella parte in cui ha dato attuazione ad un cartello manipolativo della concorrenza intercorrente tra otto delle principali banche europee, avente ad oggetto la determinazione del tasso da applicare ai contratti di leasing.
L’articolo 2, L. n. 287 del 1990 dispone che sono nulle ad ogni effetto le intese tra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha considerato prova privilegiata la decisione della Commissione Antitrust Europea del 04.12.2013, che ha ravvisato l’avvenuta violazione dell’art. 101 del Trattato CE da parte delle otto banche che hanno stipulato l’intesa illecita. Secondo i giudici di legittimità, infatti, tale decisione poteva essere validamente allegata a supporto della domanda volta alla declaratoria di nullità dei tassi manipolati, a prescindere dal fatto che all’intesa illecita avesse o meno partecipato l’odierno convenuto, giacché il divieto di cui all’art. 2 della L. n. 287 del 1990 riguarda qualunque contratto o negozio a valle che costituisca applicazione delle intese illecite concluse a monte[2].
Tuttavia, in tale circostanza, la Corte di Cassazione ha precisato che il legislatore, con tale articolo, non si riferisce solo alle ‘‘intese’’ come contratti in senso tecnico ovvero a negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica, ma anche a qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale) purché vi sia la partecipazione di almeno due imprese. Da ciò ne consegue che, avendo la norma l’obiettivo più ampio di proibire il fatto della distorsione della concorrenza, qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2 della legge antitrust.
In conclusione, la Suprema Corte, nel ritenere fondata la censura, ha richiamato la pronuncia delle Sezioni Unite in base alla quale è stato precisato che la L. n. 287 del 1990 si rivolge a chiunque abbia un interesse, processualmente rilevate, alla conservazione del carattere competitivo della concorrenza al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata. Posto che la violazione di interessi giuridicamente rilevanti dell’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, un danno ingiusto ex art. 2043 c.c., secondo i giudici di legittimità, chi subisce un danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a ‘‘monte’’ ha a propria disposizione l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno ex art. 33, L. n. 287 del 1990[3].
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[1] cfr., Cass., 17187 del 15.06.2023; Cass., n. 4597 del 14.12.2022.
[2] Cass., n. 29810 del 12.12.2017.
[3] Cfr., Cass., SS.UU. n. 2207 del 04.02.2005.
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Info sull'autore
Impiegata di primo livello presso la Commissione di vigilanza sui fondi pensione e, in precedenza, tirocinante ACF Consob, si è laureata presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II", con tesi in diritto commerciale. Durante il suo percorso universitario ha conseguito conoscenze specifiche nel settore del diritto commerciale, bancario e dei mercati finanziari. Nelle suindicate materie, è inoltre autrice di pubblicazioni scientifiche